Rosa Salvia su un libro di Daniela Attanasio

Da Narcyso
30 marzo 2014

Daniela Attanasio, DI QUESTO MONDO, Nino Aragno Editore, 2013
di Rosa Salvia

La poesia di Daniela Attanasio è l’al di qua dei linguaggi della storia, ma anche l’emblematica di quella feroce fugacità del tutto che tutto abbandona.
In questa raccolta composita, ricca di meditazioni attive, di stimoli esterni capaci
di destare impulsi interiori che infondano un’ispirazione, i versi vivono gli uni
accanto agli altri, e al contempo paiono separati: una serie di riflettori costruiti
per guardare il mondo dal suo interno, puntati su “schermi” sui quali scorre il loro succedersi.
Forte di tale consapevolezza, l’Attanasio raramente si abbandona ad un descrivere puramente estetico; anima la sua poesia di momenti contingenti, di voci transitorie:

Ci sono voci che cadono a terra come cortecce d’ombra -
mi dico: pensaci bene prima di raccoglierle
prima che si attacchino al suono
e il suono si confonda nella pastosità delle labbra

memorizza la realtà e la sua frazione fluorescente -
c’è più gusto a guardare la via farinosa delle stelle
la scossa delle lucciole sul campo…

(pag. 11)

Tutte ispirate al tempo che incastona i luoghi della memoria e del vissuto le poesie
di Daniela Attanasio, come specchi bizantini, restituiscono al lettore figure in apparenza inafferrabili, circuiti strani e suggestivi, immagini lievemente più evanescenti rispetto a quelle della precedente raccolta All’isola, ma forse intenzionalmente.

Allo stesso tempo, e con la stessa intensità, la poetessa ci mostra un mondo disincantato, diviso e, in questa sua frammentazione ne focalizza l’immagine veritiera attraverso una luce ricorrente che illumina i versi di nero inchiostro. Una luce che segue come via d’uscita, unica via di salvezza.
È il filo conduttore che insegue per perdersi nel labirinto mentale che l’uomo o il poeta s’inventano per comprendere meglio il loro tempo.

Diviso in due parti e in una miriade di capitoli, questo articolato poemetto è una dimostrazione di come sia ancora possibile intonare e orchestrare il mondo, di come ogni aspetto della realtà possa rivivere con struggente esattezza in un suo proprio ritmo e con una sua particolare verità timbrica.
L’Attanasio fa della “poesia” “un luogo” di “argomentazioni” o “contenuti” od “emozioni” in quella diade dialettica di pensiero e sentimento.
Il pensiero è una freccia, il sentimento è un cerchio, ci ricorda la poetessa russa Marina Cvetaeva.
E nelle poesie di Daniela Attanasio il pensiero profondo e genuino corre dritto al bersaglio mentre il sentimento è rotondo, si ramifica, si allarga, si riscalda lungo
infinite traiettorie.

Personalmente ho sempre creduto che niente, nella storia dei generi letterari, abbia mai davvero fine, che nessuna possibilità di scrittura possa mai dirsi definitivamente esaurita. Bisogna, è vero, scoprire o riscoprire una serie infinitamente mutevole di accenti, adeguare di continuo la pronuncia a una realtà che, a sua volta, muta o perde parola; e la ricerca è difficile, lunga, richiede tanta più umiltà, pazienza, lentezza quanto più, dall’esterno, sembrano imporsi formule semplicistiche o perentorie.
E Daniela Attanasio si muove proprio in tale direzione, riuscendo a legare in un unico fascio di energia espressiva modi antichi e modi nuovi, cadenze di remota classicità e movimenti di moderna sottigliezza analitica, precisione di contorni e meno lineari stratificazioni materiche.
Vorrei aggiungere a tal proposito che la tecnica di scrittura di Daniela Attanasio mi richiama quella della poetessa e pittrice Gabriella Drudi. Per entrambe occorre che il linguaggio frulli la sintassi e la ricomponga. Per entrambe la poesia è come una sorta di collage, ma non casuale, perché i nessi evidenziati sono ricostituiti secondo modalità che innescano spaesamento e ferrea consequenzialità insieme. Tutto al fine di costringere il lettore ad una ripetuta messa a fuoco, stasi e ripartenza, continuamente innescata e che mai giunge a risoluzione.

Di questo mondo non ha traguardi metafisici da raggiungere né religioni, se pure laiche,
da proporre: il suo senso coincide unicamente con il suo farsi, con il suo esistere, con il suo consumarsi. L’identità fra materia e immagine, fra vivere e aver vissuto, fra esperienza e scrittura è così totale da comunicare a chi legge un senso di intensa compartecipazione.

Continuo con la trascrizione di un componimento che rientra nel nucleo delle Voci transitorie in cui si rileva subito come il linguaggio poetico sia assolutamente espressione del contenuto: non il verso piano e semplice, ma la parola secca, la frase concisa, dal momento che la sintassi si piega ai movimenti del pensiero. La poetessa rimane saldamente legata alla terra e la natura doppia dell’uomo la porta ad un lucido e pacato agnosticismo.

To wonder at the unfailing stars
Dylan Thomas
(terra)

noi siamo individui integri e guasti
abbiamo una chiave doppia da girare nella serratura e se anche l’ingombro delle cose che pesano ci consuma
bramiamo la terra e quello che c’è dentro
guardiamo stupiti le immancabili stelle
e non cerchiamo risposte alla quadratura del cerchio
(pag. 14)

Sotto la voce Dialoghi e interferenze leggo, fra gli altri, un componimento dedicato ai bambini che mi ha molto colpito, in cui la riflessione sposa una sottile tenerezza appena percettibile che non lascia alcuno spazio alla retorica:

Bisognerebbe parlare molto con i bambini
e dire loro le cose come sono. Per esempio:
dire ai bambini di guardare in faccia la paura -
da subito come si fa con le favole o con la fantasia
le cose invisibili messe ai lati del letto

(bisognerebbe però togliere alla paura il nero del lutto
e il rosso feroce della guerra:
arretrare un po’
verso misure piccole, tempi brevi).

( pag. 45)

Il capitolo Una nuova moda di abitare le stanze comprende diversi componimenti in cui appare quasi perentorio un inatteso richiamo della natura. Imparare l’arte di coltivare, e perfino rinascere pianta, questo adesso è il desiderio della poetessa, scrive Paolo Di Paolo nella nota che accompagna il testo. Così come la nudità della terra, il suo linguaggio puro, scabro, senza parole, senza scampo.

E se paesani
 zoppicanti sono questi versi…
Amelia Rosselli

8

Sto qui a guardare il campo che si allunga verso l’uliveto e
scende come un rullo-pergamena superando la tastiera
del computer. Sull’orlo dello schermo convergono tre o
quattro parole come scheggia, dente di selce, zeppa. Sono
le pietre di un muretto di contenimento tagliate da dita
contadine, grasse come sigari spenti.
Vorrei imparare l’arte di coltivare la terra, il silenzio
dei campi, la solitudine del legno accatastato sotto la
tettoia e poi, annusando l’odore del fieno, vorrei scrivere
in una lingua nuova per cambiare vita – parole dozzinali o
sfarzose da sbozzare nelle zolle, da modellare con l’umi-
dità del vento.

(pag.58)

9

Da questo casale non sento il mare, non vivo più nella sua
magniloquenza come al tempo delle cose passate. Seduta
su un gradino di marmo guardo in faccia la natura, cerco
di leggerla su una tavola di legno stagionato nel vino. Ma
se improvvisamente nell’orecchio sibila un soffio d’erba,
basta un respiro per farmi tornare il sale alle narici e rina-
scere in una pianta di terra.

(pag. 59)

In conclusione riporto altre poesie di raffinata grazia e spessore senza ulteriori commenti per lasciare più ampio respiro ai versi..

Da: L’arte del possibile

3

Mia madre aspetta la morte
e per nascondersi al rumore della sordità
e appoggiare le labbra al gusto della paura
la chiama ‘una signora’. Lo dice dentro
l’intralcio della dentiera, tirando la bocca
in un sorriso di ebetudine.
Poi torna alla sua assenza, una veglia vuota
tra la sigaretta accesa e un portacenere
di fumo spento.

A volte, per non tornare indietro e scendere
un altro gradino, ricorda un nome
come un impulso di luce.

(pag. 67)

Da: Una livida pace

XI

Una pace livida, non diversa dalla tua memoria, sta sospesa
sul mare tenendoti legato a quelle immagini ormai così
familiari
da non farti provare né tristezza né rimpianti

poi un silenzio di onde lontane è caduto sulla tua fronte –
non lo senti il loro raschio minerale però lo ricordi
negli anni, sempre uguale, monotono,
prima acerbo ora influente come una nenia
che rincorre il tempo negandolo.

(pag. 97)

Da: Siracusa

XI

Stringi gli occhi e dentro gli occhi
vedi le palpebre viola tante volte baciate
per imporre con la cura del bacio
un sigillo di pace

(pag. 111)

Il racconto del marito

I

Di notte scivola fra materasso e sonno
si arrotola su un fianco
stringe le palpebre come per un dolore
e dietro gli occhi la cerca.

Prima che se ne andasse, quando ancora riusciva a parlare
in un sussurro gli ha detto: – tutte le sere, dal letto
chiamami con la malattia della tua voce,
fammi rientrare…

(pag. 117)

II

Il mare greco si gonfiava di schiuma, il pergolato d’uva maturava
al sole

era seduta in un angolo d’ombra dentro un kimono lucido di seta
e con l’indolenza di una sonnambula
alzando il viso liberava gli occhi dal buio dei capelli

tutt’ intorno il silenzio della mattina prima che lo strepitoso vociare
della torma estiva irrompesse con le sue corna d’ariete

versando il caffè nelle tazzine il kimono si piegava, si rialzava
usciva e rientrava in un largo di sole

sul mare il taglio spumoso di un traghetto andava e tornava

(pag. 118)

III

Di notte, arrotolato su un fianco, dentro la stanza senza
più colori
non vede le scene memorabili del loro amore
vede il mare greco, le mani tenere e dure che sfogliano
il giornale
il chimono fluttuante dalle spalle ai piedi

poi vede la sua faccia capovolta nell’obiettivo della
nikon, cercare ispirazione dalla luce
e la bocca di lei che sorridendo
dice: – a cosa serve una foto? Ti basteranno gli occhi
per ricordare.

(pag. 119)


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