Lucetta Frisa, Sonetti dolenti e balordi, CFR Editore, 2013
di Rosa Salvia
La sua insularità mentale si muove come una corda che vibra, e reinventa il reale attraverso mille facce del ‘perturbante’ che si moltiplicano in infinite rappresentazioni della coscienza. La poetessa è consapevole di ‘scuotere’ con forza, e allo stesso tempo conserva una purezza originaria.
La sua coscienza sfugge alla omologazione, al conformismo, alla norma, alla possibilità schematica, al pensiero incastrato in abitudini. Come? Lavorando e creando.
In questo modo, doppiamente, comunica al lettore la sua contestazione e la sua mappa del mondo, coestensiva al mondo di tutti, perché diventi sempre più coestensiva e al limite sovrapponibile allo sguardo di chiunque.
Questa raccolta di poesie scritte rigorosamente nella forma del sonetto (tranne che nell’ultima parte in cui i versi, strutturati in libera composizione, sono anche scandaglio di nuove forme e di significati inusitati), appare peraltro in sintonia con la maturata consapevolezza che la realtà sfugge all’oggettività della comprensione e si offre ai territori della rappresentazione e dell’interpretazione. Multiforme e plurimo il senso dei versi che si rincorrono in un magma inquieto in cui non c’è tregua. Lucetta Frisa si serve di tutte le forme del linguaggio poetico: ossimori, metafore, parole e immagini reiterate e arrischiati assemblaggi. E, anche dove pare ci sia un uso della parola già frequentato, non si abbandona al già detto e al già noto, e forza il significato, a volte anche il significante, per lasciare parlare da sé un suono.
Tenta la strada della metamorfosi di se stessa in nuove immagini di sé, degli altri e del mondo che vive; non cede al visibile, e apre una personale metafisica dell’invisibile, eccede la concretezza per accedere all’oltre, e sciogliere la rete misteriosa che ci imprigiona a ciò che ci sfugge, ma che affascinante e misteriosa ci irretisce.
Come sottolinea Gianmario Lucini in una lunga e dettagliata nota nella precedente raccolta L’emozione dell’aria, la poesia di Lucetta Frisa è una poesia vitale, che mostra un animo combattivo, reattivo, che non cede allo spaesamento, alla oscura tenaglia della depressione.
È una poesia che incute serenità e insieme profondità, senso del magico e dell’incanto, ma anche senso e dimensione realistica della fatica di vivere, la lacerazione per questa “grettezza nel mondo”, come scriveva Heidegger, che però è possibile risolvere in una dimensione salvifica, nella quale con l’arte si gioca la carta vincente.
Acuta al contempo l’osservazione di Stefano Guglielmin, laddove scrive in una nota alla raccolta Se fossimo immortali: “Lucetta Frisa depotenzia il romanticismo che le è connaturale, facendolo incontrare con il rivo del realismo borghese. Lei si ferma al bivio dei due fiumi, in modo che il sacro possa ancora mostrarsi. Così come i buddisti costruiscono templi là dove due fiumi si incontrano, lei edifica poesie, monumenti ad un presente abitato dalla tensione verso l’infinito (“io mi inchino / alla notte stellata”) e, nello stesso tempo, dall’urgenza grigia dei piatti da lavare, come esemplarmente si legge nel Quarto autoritratto diurno. pag.15)
Tornando ai Sonetti dolenti e balordi, la poetessa si attarda nel labirinto misterioso delle immagini poetiche, anzi, a mio avviso, il labirinto è la sua patria, perché è luogo senza uscita, o meglio un luogo che ha mille uscite, nessuna delle quali però porterà fuori di esso.
Nella quotidianità, banale e ripetitiva, l’insignificanza si tramuta, e una scappatoia accede al limine, dove il pensiero ricerca una diversa cifra delle cose e la poesia si scopre ad essere filosofia.
Attraverso sequenze pulsanti come partiture di un coro senza requie, dove le parole si cercano, si allontanano, si rincorrono e si riafferrano come respiri vaporati dai pori di un unico immenso corpo danzante (dalla nota introduttiva al testo di Francesco Marotta), Lucetta Frisa ci dona suggestioni che ci spingono a seguirla pagina dopo pagina, condividendo con lei questo amore estatico del poeta che sa guardare tutto con meraviglia e sorpresa, staccandosi dalla ripetitività dell’uguale, perché nulla appaia più uguale.
Le sue poesie sono la soglia che divide senza separare, la riva e il largo, l’ombra e il chiaro, l’illusione e la verità, la materia e la forma, come possiamo comprendere dalla lettura dei componimenti che vi propongo:
*
Da Sequenza del dolore
Aprendo i suoi sensi umani il dolore
si fece insopportabile come la gioia
lui volle proteggersi dalla rovina
degli eccessi e dal presente che costringe
azioni ed emozioni a recitare
qui il loro teatro e cominciò a salire
il colle sopra la città e comprese
tempo spazio ironia camminando
in salita respirando pensando
e non pensando più. Il corpo pensava
da solo i suoi occhi pensavano
tutte le direzioni: si fermò
a tradurre il suo grande sogno in libro
ma sapeva che l’amore non si legge.
pag. 12
*
Da Sequenza della follia
Potessi mutarmi in Andrea Salos
di giorno fingermi folle per disprezzo
della vanità terrena davanti
alle false emozioni di avatar
senza profondità e di notte pregare
quel dio dentro di me che mi confida
il silenzio e la mia indole antica
i modi per essere felice e sola
con l’aria e il tempo e la vita inventata.
Penso alla follia come fuga bella
da quanto non è più nostro, spezzato
il legame col mondo che gira a vuoto
per conto suo e fuori ci ha sputato
come rifiuto marcio, zavorra.
pag.21
*
Da Sequenza del sogno
Fu il giorno che abbracciammo gli alberi
tu che volevi dormire sotto un pino
per avere sogni nuovi come dietro
le travi del soffitto sentivamo
frusciare gli uccellini imprigionati
simulando voli in altri cieli.
Poi la torpida casa di Pascoli
e la traslucida ora di Barga
gli alberi che ci venivano incontro
con il paesaggio vasto senza ansia.
Sarà stato vero o il tempo là è truccato
di serena ipocrisia selvatica
ma che importa per un giorno estivo
si ascoltò il linguaggio degli alberi.
pag.31
*
Da Sequenza privata
Morì all’inizio dell’estate il gatto
che fino all’ultimo cercava il sole
fu eliminato con un’iniezione
letale piansi col veterinario
sensibile e un amico generoso
lo interrò cantando nel suo giardino
come un becchino shakespeariano.
Quel luogo non c’è più dov’è il mio gatto
tra tutti i gatti notturni bianconeri
fatti polvere senza campi elisi
ridete pure di me che piango un gatto
morto venticinque anni fa graffiando
il sole e il mio braccio ma così docile
per animale consenso al suo destino.
pag. 37
*
Da Sequenza dell’uscire da sé
Bisogna uscire da sé per entrare
negli altri nel loro dolore come
nella loro gioia entrare nell’erba
negli occhi dei cani nel cuore algido
dei metalli e dei sassi docilmente
entrare ovunque dicendo scusate
non siamo invadenti ma è per conoscenza
siamo divisi solo in apparenza
ad ognuno la sua parte e la sua voce
e la sua futura polvere. Sapete
chi siete e dove andate? Amateci
fate finta di parlarci compatirci
anche noi come voi siamo gli attori
di questa tragedia d’odio e d’amore.
pag.42
*
Da Sequenza dell’inconclusione
In fondo al labirinto quale verità?
Il suono più alto più basso chiamato
silenzio. È lì che il mondo inizia a ruotare
e ci trascina via insetti senza ali
controvento? È uguale per me il punto
da cui cominciare: là ritornerò
di nuovo. È Parmenide a parlare
lui vive a Elèa e ho raccolto
brandelli del suo corpo giunti fino a me
e come lui voglio ascoltare il cavo
suono del nulla e non chiedere
altro che non capisco. Ho bisogno
di consolarmi con quella luce
del sud che in me continua a scintillare.
pag. 47
*
Da Sole dell’insonnia
Ho finito di scrivere, e continuo!
Amelia Rosselli
il sogno è verticale
ha luce
come schiena di foglia
linfa
è materia-terra
canto
soffio
dentro la pietra-
sale e risuona
Il nero nel sottosuolo
tiene il seme del mondo
mi dirai che la vita
nasce dalla morte
ti dirò che il buio si apre
se lo penetra il sogno
Ruberò l’udito agli uccelli
per potere ascoltare
chi prende le mie domande
chi il mio pianto
che non è seme di nulla
pag.53
*
Volevo l’estasi
Per Alejandra Pizarnik
I
Vedi, io vivo con un coltello
dentro lo stomaco.
Mi taglia a pezzi l’infanzia
mi taglia le pupille
che vedono solo notte e squarci.
Tutte le cose hanno lame spille
angoli spigoli
e parole spinose.
Le mie
stanno acquattate come bestie in allarme
si dolgono di solitudine
incurabili, inascoltate.
II
Non c’è nulla di morbido al mondo.
Nella culla
al posto dei cuscini e dei ninnoli
mi misero le scarpe slacciate
le bambole rotte il latte amaro
e il pensiero della morte.
Mi cullarono con le forbici
trapanato il sesso scorticata
la bocca perché parlassi
solo di ossa
della colonna vertebrale del mondo
albero sempre invernale.
III
Volevo l’estasi
il perpetuo orgasmo tra terra e parole
volevo
il corpo emotivo della bellezza.
Nell’aldilà
troverò piume e sete
sentirò volare i miei capelli
dolcemente snodati
dalle ariose dita di un dio primaverile.
pag. 66, 67
In quest’ultima sequenza l’urgenza di immagini che vengono da oscure zone della psiche, da sensibilissima pelle mi richiama l’eco della poesia di Silvia Plath, sebbene in Lucetta Frisa rimanga sempre aperto uno spiraglio verso la speranza.
Rosa Salvia
Un’altra recensione. QUI