Rosa Salvia su un libro di Maria Pina Ciancio e … un omaggio

Da Narcyso

 Rosa Salvia legge

Le trincee del grembo

breve raccolta poetica a cura di
Maria Pina Ciancio e Teresa Anna Biccai

  

Quando sfogliamo le pagine di una raccolta di poesie, una delle sensazioni primarie che viene in noi suscitata è forse quella di ritrovarsi a contemplare una collezione privata di quadri d’autore; è un immergersi in un luogo ‘separato’ come in un cammino all’interno di una pinacoteca di parole e di suoni: è proprio questo che accade con le dodici prove d’autore al femminile (Bellini, Ciancio, Ferraresso, Labriola, Gaita, Gianfelici, Gnerre, Longo, Minet, alias Teresa Anna Biccai, Miticoccio, Salvia, Sembiase : autrici lucane e non)  che la scrittrice lucana Maria Pina Ciancio ha raccolto in un libello edito dall’Associazione Culturale LucaniArt – maggio 2014 per la Collana “Scritture clandestine” da lei curata insieme a Teresa Anna Biccai.
Il tema è quello del rapporto madre-figlio, un tema molto caro alla Ciancio che alla madre scomparsa ha voluto dedicare una plaquette molto intensa “Assolo per la madre” – Edizioni L’Arca Felice – Salerno, luglio 2014.
 
Ritornando a Le trincee del grembo, il titolo è quantomai incisivo data l’intensa fisicità del rapporto madre-figlio. Al contempo, con un volo di Pindaro, mi riporta a versi di Pier Paolo Pisolini, non quelli della famosissima Supplica alla madre, bensì all’incipit del IV paragrafo de Le ceneri di Gramsci: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere;” / […]
Versi che potrebbero tranquillamente indirizzarci al complesso rapporto che abbiamo con le nostre madri con lo sguardo disincantato di chi ha conosciuto e conosce l’amore nelle sue molteplici sfaccettature o nella bidimensionalità di ‘luce rassicurante’ e ‘inquietante oscurità’.
 
Emblematico poi il dialogo che Platone dedica all’amore e alla procreazione. Nel Simposio si discute d’amore, tra uomini naturalmente, quali Agatone e Aristofane, ma quando è la volta di Socrate, il discorso subisce un’improvvisa virata perché, sotto il segno solenne della verità, Socrate compie un gesto inaudito: evoca, tra i sapienti, la figura assente di una donna, per di più straniera, Diotima. Nei suoi confronti Socrate assume la posizione, a lui inconsueta, di discepolo. Che cosa può apportare di vero una parola di donna al discorso maschile più potente, quello filosofico? Può introdurre il corpo, non il corpo astratto, animazione dell’ordine geometrico, come quello rappresentato dalle semisfere di Aristofane, ma il corpo vero, che desidera, copula e procrea.  La verità di Diotima, che Platone esplicita e nasconde al tempo stesso, è che “eros è trasposto dal desiderio della bellezza dei corpi e quella delle anime, per indirizzarsi infine alla bellezza delle azioni e delle leggi”.

La metafora della creatività che scaturisce dalle parole di Diotima sfida così la scissione platonica materia-forma, proponendo una ricomposizione, nella maternità, della generazione congiunta di corpi e di idee. Essere madre significa anche “dare corpo al pensiero” citando Simone Weil che nei suoi “Quaderni” ritorna sul tema della verità di Diotima.
 
Ci pare poter dire che le poesie raccolte in questa mini-antologia possano rendere, talora con straordinaria efficacia, quanto sinora detto.

Peraltro sono accomunate da una delicatezza di tratto che nulla concede all’effusione sentimentale, per raccontare un lento congedo, raffigurare angosce primordiali, evocare memorie o immagini di un vissuto quotidiano che aiutino ad elaborare ed esorcizzare il proprio sentire di fronte all’inganno del consueto; con una vena talvolta anche ironica e ‘dissacrante’ come per la poesia L’uovo della poetessa lucana Gina Labriola, recentemente scomparsa, poesia che voglio riportare integralmente:

L’uovo

Mia madre
era una grossa tartaruga millenaria.
Sul suo guscio
diviso a quadrati
erano scritte storie d’amore
in caratteri cufici,
geroglifici, cirillici, latini,
in ebraico in arabo in cinese.
Tante storie forse tutte uguali
d’amanti morti o abbandonati
ma solo un uovo,
un grande uovo bianco,
io  depositato sull’arena.
Ora sull’arena
hanno costruito una città.
Chiusa nel mio bianco,
così fragile,
vado rotolando per le vie
tra le gambe dei cani sull’asfalto
tra i tubi di scappamento,
e aspetto di nascere,
al sole che va e che viene,
chiusa nella mia caparbia
interezza solitaria,
io   creatura di tante
storie d’amore tutte uguali
raccontate in geroglifici
in arabo, in cinese
sul guscio di mia madre.
 

Dunque la meraviglia di questo piccolo libro è questa: dar vita a coscienze che sentono in autonomia ma che si influenzano a vicenda ai piedi di “un altare per la madre”, per citare il titolo di un bellissimo romanzo di Ferdinando Camon il quale fra l’altro scrive: “… Di questo mio essere vivente faceva parte anche mia madre, doveva farne parte per sempre, io vorrei pregarla di smettere di morire, ma forse nella sua morte c’è stato un errore mio, nostro – di noi tutti che le vogliamo bene – e tocca a noi rimediare, richiamarla in vita, non rassegniamoci…”

Non rassegniamoci allora, perché la madre rappresenta un approdo sicuro cui ritornare, per non disperdere le proprie radici: […]  Io madre ero e sono, coscienza mai follia, / virtù come difetto e verità, severa e remissiva / uguale alle radici che solcano la terra / tramando la mia forza sotto l’ombra. / […]  (Marina Minet). La madre è ponte tra un passato e un presente altrimenti impenetrabile, attimo di dolcezza senza retorica: […] Il mio nipote non ancora nato / beve l’azzurro / dalle acque di sua madre. (Eleonora Bellini) o ancora: […] Sono una mamma / nel palmo della tua mano. / Nel tempo che costruisce vele di navi. […] (Antonietta Gnerre)

[…] Tu sei la madre / e il tuo silenzio / racconta l’inizio e la fine. […] (Maria Luigia Longo)

La madre è il ruolo stesso dell’‘essere’ sul quale interrogarsi con spericolata sincerità: […] il tuo corpo steso in terra è il paese dove ho sempre camminato / i tuoi occhi gli oscuri nodi dei tronchi in cui ho guardato / e le mani tutte le erbe che mi hai insegnato a conoscere   la tua voce / nitida quanto il vento rigorosa scandisce in me ogni parola / è il cielo che piove l’acqua in una fonte / qui tra le tue braccia nel tuo preciso silenzio io sono ancora / il mondo come incredibilmente era in me un milione di sogni fa. (Fernanda Ferraresso)

[…] E l’ombra avanza liquida e gli oggetti fanno rumore. / Ancora disegno contorni di fumo / basta il tuo respiro ad accendere il lume. (Elina Miticocchio)

La madre è colei che nella malattia vaga col pensiero in un labirinto velato di mistero, senza che sia possibile sapere se ora, nella sua mente, lei è la madre alla disperata ricerca del bambino perduto o la bambina smarrita in cerca della mamma: Quando un essere umano invecchia / ridiventa bambino / e tale, in effetti, lei mi sembrava / in quel letto d’ospedale in cui / sporgeva le labbra, /come se volesse essere allattata, / e con le dita sfiorava ogni cosa / che luccicasse. […] (Rosa Salvia)

La madre è il simbolo di un’alterità perduta, assente, convocata sulla scena poetica, sull’orlo di un silenzio definitivo, in una realtà fenomenica dai tratti obliqui, sospesa fra dolore e memoria, che include passato e presente, vita e (contatto con la) morte: […] Ora che non ci sei / ammetto l’inesistenza delle fate / e inesco l’amo della veglia / alla tua voce. […] (Monia Gaita)

[…] Cercavo un tuo risveglio: / memorie si schiantano, / Pezze gelate / mi fasciano: / ricordi ghiacci più della tua morte. (Gabriella Gianfelici)

[…] Il tempo è solo vento adesso / scompaginata preghiera /ululato di lupi, / lamento di agnelli / Silenzio fermo // Le mie braccia culla / la forza per l’ultimo sorriso (Maria Pina Ciancio)

[…] sei sfocata mamma / e la memoria qui passa il tempo / fra te che eri e chissà dove stai ancora a fumare / a scegliere le verdure, a scaldare il ghiaccio, / a spezzare chiacchiere e ziti nelle domeniche dei santi / tutto sta avendo e ha nuove distanze / altri infiniti si originano e in un solo istante / si è generato un giudizio universale a prenderti / pieno di martiri e morti caritatevoli e preghiere votive / che pure amavi poco, […] (Met Sambiase)

 

In conclusione desidero terminare questo mio exursus con un omaggio a Sebastiano Aglieco che ospita spesso la mia scrittura nel suo bolg. In tutte le raccolte di Aglieco è presente il tema della Madre. C’è dunque l’imbarazzo della scelta. Alla fine mi sono decisa a riportare una poesia della sezione E ME MATRI (Alle mie madri) della   raccolta COMPITU RE VIVI in cui Aglieco crea un susseguirsi incalzante di immagini ad un ritmo a corrente alternata in una tecnica metaforica dello ‘specchio contro specchio’. E in questo rincorrersi di vive note che si allontanano sempre più dall’occhio, la melodia del verso resta quasi ammutolita:

Ora ti viru
ti prisintàsti nno sonnu ravànti a
casa, i rrosi spaccàti ca c’era luci
accicàta ri maju
a gonna stritta, dop’ a mmia.
 

I patri su ’nginucchiùni, piddunàti.
Na ’nfurnàta ri palòri muti
si fèmmunu i sticchi re sciùri
l’àbbìri sunu ’ncantisimàti, rispicchiàti.

Ora ti vedo / sei apparsa nel ricordo davanti / casa, le rose  spaccate nella luce / fortissima di maggio / la gonna già stretta, dopo il  primo figlio. // I padri sono assolti, inginocchiati. / A moltitudini le parole tacciono / si ferma il sesso dei fiori / gli alberi sono immobili, specchiati.

Rosa Salvia


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