Erano queste le cose che mi tenevano occupato e mi rendevano felice
Questo era Rudyard Kipling, un grandissimo che troppe volte in Italia abbiamo frettolosamente catalogato come uno scrittore per ragazzi, quasi si volesse ostinatamente resistere alla magia della letteratura, alla sua capacità di rapirci, di portarci lontano, di portarci nel bel mezzo di storie buone per ogni età.
Ci ha fatto un bel regalo l'editore Barbés a riproporci questa autografia che Kipling scrisse solo pochi mesi prima di morire, senza aver il tempo di concluderla e correggerla, lui che le parole doveva rigirarsele in bocca.
Meglio così, se questo ci offre un racconto in prima persona che non sceglie strade oblique e persegue la sincerità sempre e comunque. E' vero, dal limite della vita ci si può confessare per quello che siamo, senza secondi fini. E Kipling lo fa con il giusto distacco e una bella dose di ironia (e autoironia), che serve, come no.
Senza presunzione, e con la consapevolezza di aver beneficiato dei numeri giusti sulla ruota della vita.
(Se ripenso al passato, adesso che ho settant'anni, mi sembra che ogni carta della mia vita lavorativa mi sia stata distribuita in modo tale da non poter fare altro che giocarla così come veniva)
Con questa consapevolezza, ma tenendosi ancora ben stretto il tesoro della sua infanzia. Datemi i primi sei anni della vita di un bambino, afferma Kipling, e tenetevi pure il resto.
E forse è proprio questo che facciamo anche noi, quando ancora una volta ci lasciamo incantare dal Libro della Giungla o dalle storie del folletto Puck.