Fa un certo effetto vederlo comodamente seduto sul divano della hall di un albergo, mentre scherza e discute con il suo staff. Alessandro Troncon ci piace ancora immaginarlo concentrato sull’ovale che sta per uscire dalla mischia, lo sguardo ferocemente rivolto al movimento dei compagni, alle contromosse degli avversari, studiando il modo migliore per lanciarli verso la gloria. Oppure – ma ci piace un po’ meno perché evoca il momento dell’addio – con le lacrime agli occhi, portato a spalla da Del Fava e Castrogiovanni a St. Etienne nel 2007, dopo Italia Scozia.
“Mi chiedi se ho pianto? Certo che ho pianto… si fa presto a dire: ok, questa partita è l’ultima. Dopo quando ti rendi conto che è veramente finita, stop, ti passa davanti tutta la vita…quello è un momento che ti prende alla sprovvista. Sai che non vivrai più questi momenti, specialmente per come li ho vissuti io…”
Esordio da album dei ricordi, bello ma un po’ malinconico. Davanti a noi stanno cose migliori di quelle che ci siamo lasciati alle spalle, sostiene Clive Staples Lewis. Bella frase, ci aiuta a diradare il velo di malinconia e gettare lo sguardo al presente e al futuro. Il presente per Troncon significa Under 20, di cui è diventato tecnico da poco più di due mesi. Il futuro, Sei Nazioni e Mondiali in Nuova Zelanda. “Per me è un’esperienza nuova, diversa ovviamente da quando facevo parte dello staff della nazionale maggiore. Li ero sono solo un assistente; ora sono il capo allenatore e ci sono sicuramente responsabilità maggiori. Lavorare coi giovani è una cosa interessante, che sto scoprendo di volta in volta. E’ un’avventura che mi stimola”
I giovani. Questi giovani pieni di speranze che lo sono come lo è stato lui, che ha percorso tutta la trafila delle nazionali giovanili. Chissà se Troncon vede la propria immagine riflessa in loro… “La società è cambiata, i giovani sono cambiati. Hanno interessi diversi, si relazionano tra loro in modo diverso, è cambiato un po’ tutto il mondo che li circonda e pertanto sono cambiati anche loro. Poi ciascuno ha la propria personalità. Mi chiedi se vedo in alcuni di loro me stesso da giovane? Mah, diciamo che posso a seconda della personalità rispecchiarmi in alcuni o in altri; in ogni caso la differenza c’è.”
Goethe disse che un fatto della nostra vita ha valore non perché è successo ma perché ha significato. E il fatto, Francia – Italia, 22 marzo 1997, ha significato molto per lui, la nazionale, il rugby. “E’ stata la consacrazione di un gruppo che aveva lavorato tanto, in un momento in cui il rugby non era ancora come quello che si vive adesso. Certo, avevamo fatto il salto al professionismo ma non eravamo ancora ai livelli di oggi. Quel gruppo è stato il precursore di quello odierno , perché il nostro approccio al rugby era già un approccio professionale e all’epoca non tutti i giocatori lo avevano. Abbiamo dimostrato al mondo intero che, grazie al lavoro, alla caparbietà, alla volontà, potevamo ottenere dei grossi risultati. Fu la dimostrazione che tutto il rugby italiano poteva crescere”
Si, perché quando Alessandro nasceva, il 6 settembre del 1973, il rugby era poco più che un tabellino da titoli di coda della Domenica Sportiva. Nell’anno del suo esordio in nazionale, il 1994, la palla ovale aveva già fatto qualche passo in avanti, anche se il nostro orizzonte si limitava a Romania, Spagna e Unione Sovietica. Da allora molta strada è stata fatta e molta ne rimane da fare. Un buon motivo di riflessione sullo stato di salute del nostro rugby… “Un miglioramento, e anche sostanziale, c’è stato. Una volta ti confrontavi con le nazionali minori, e con le cosiddette “Big” ci giocavi raramente e solo in gare considerate amichevoli. Adesso è il contrario, giochi sempre con le squadre più forti. Certo, è difficile giocarci contro, la gente pensa… l’Italia non cresce, l’Italia fa fatica…però è anche vero che ci si confronta con squadre che a livello di movimento sono realisticamente superiori. Il fatto di rivaleggiare con loro è già un gran risultato. Perché se noi cresciamo, anche gli altri mica stanno fermi…è una continua rincorsa. A volte ti avvicini un poco a loro, altre volte sono loro che “scappano” via. Chiaramente si posso fare partite migliori, e a volte si fanno. Per farle occorre avere continuità e la continuità passa anche attraverso la qualità. Bisogna essere realisti, alla fin fine il nostro movimento è questo e sinceramente è già abbastanza quello che stiamo facendo.”
La tentazione finale di ogni chiacchierata con personaggi di spessore come Alessandro Troncon, è quella di aprire l’album personale dei ricordi, tracciare il bilancio di una vita passata e vissuta; da e per il rugby. Di sapere insomma cosa il rugby gli ha dato o tolto…
“Il rugby prima di tutto è la mia passione e io l’ho sempre vissuta cosi. L’ho fatto perché mi piaceva e basta. Forse ho avuto un po’ più di fortuna rispetto agli altri, ma il rugby io l’ho sempre fatto per divertimento, mi sono sempre impegnato allo spasimo per migliorare, da quando ero piccolo fino a quando ho iniziato a giocare ad alti livelli. Tolto? Niente. Mi ha dato tanto…ma dire tanto è perfino banale. Mi fatto vivere una vita che altrimenti non avrei potuto vivere. Sinceramente adesso non riesco a immaginarmi senza rugby. Io ho cominciato a 4 anni e mezzo, poi fino a 19 anni ho studiato e giocato a rugby…poi ho solo più giocato a rugby. Non è che abbia fatto tante altre cose.”
Alessandro Troncon riservata personale… “Adesso ho una famiglia, Sara (la sua compagna n.d.r), una bambina e un bebè in arrivo. Mi dedico a loro e agli amici, che sono sempre stati una parte importante della mia vita. E’ una vita più completa, meno incentrata su me stesso e un po’ più sugli altri”
di Maurizio Barberis
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