Premessa: lo scrivente, avendo assistito ad una proiezione funestata da un pessimo audio, non può garantire un giudizio sicuro ed esaustivo sul film in questione, Ruggine di Daniele Gaglianone, presentato, tra l’altro, alla Mostra di Venezia nella sezione Contro Campo Italiano.
Si scuserà il prologo dai toni forensi, ma la deontologia lo richiedeva.
Dopo l’ottimo Pietro, il regista anconetano, complice l’illuminato produttore Gianluca Arcopinto, alza la posta, e, grazie al decisivo contributo della Fandango, realizza un film di ampio respiro, in cui l’originalità stilistica, già mostrata in passato, si sviluppa ulteriormente, articolando un piano narrativo che si dipana tra presente e passato. Il tempo viene trattato nella sua compattezza e le vite dei protagonisti – prima bambini in una periferia di una città del nord est italiano durante gli anni settanta, poi adulti e alle prese con un’incerta contemporaneità – progrediscono in un flusso che, invece di ubbidire alla tecnica del flash-back, mostra l’indivisibilità della durata dell’esistenza, in cui il passato e i ricordi non costituiscono semplicemente la premessa del presente, ma, inseparabili da esso, con esso fanno tutt’uno.
La dimensione favolistica e, in un certo senso, mitica, contraddistingue la messa in scena, perciò la dialettica tra oppressori e oppressi si tramuta in uno scontro tra l’innocenza dell’infanzia e la secolarizzazione dell’età adulta. L’ottimo Filippo Timi interpreta un medico-orco che, delirando sul nazismo, organizza una persecuzione ai danni di una banda di ragazzini, i quali, per natura ostinati frequentatori del sacro, sono gli unici a percepire dietro la sua rispettabilità borghese la mostruosità che, troppo spesso e banalmente, è velata agli occhi di coloro che sono stati ormai definitivamente sussunti nell’ordine simbolico.
Divenuti adulti (Valerio Mastrandrea, Valeria Solarino e Stefano Accorsi), quei bambini si ritrovano, ognuno in maniera diversa, a fare i conti con il passato che li ha visti uniti, ma la differenza che li contraddistingue e li fa soggetti è la resistenza che hanno esercitato rispetto alla violenza subita. La secolarizzazione dell’età adulta, di cui si diceva prima, non li ha completamente colonizzati, e lo “sconsacrato” (come diceva il centauro nella Medea di Pier Paolo Pasolini) convive ancora con il “sacro”. L’alcolista pieno di debiti (Mastrandrea), l’insegnante scrupolosa (Solarino) e il papà eccessivo (Accorsi) sono personaggi che hanno mantenuto una poeticità che, in un certo senso, redime. È ovvio che a fare da sfondo c’è sempre una questione di lotta di classe, di rapporti di produzione, di padroni, proletari e sottoproletari, ma la faccenda si estende su un piano d’immanenza dove sono convocati temi altrettanti determinanti. Il dottor Boldrini ricorda assai quei medici che operavano nei campi di concentramento, e il suo delirio rievoca il disastro causato da quell’eccesso di “immunizzazione” che fu la “biopolitica” nazista.
Le dissolvenze e i fuori fuoco delineano un montaggio “assoluto”, in contrapposizione a quello relativo (giustapposizione di inquadrature): nell’indivisibilità del flusso (di coscienza) prende corpo l’unico vero montaggio possibile, e il dispositivo cinematografico rivela il suo automatismo, articolando un gesto che non è mai definitivamente compiuto, mai iniziato, ma sempre colto nel punto di velocità massima, nel suo incessante divenire.
Luca Biscontini