ruggine

Creato il 16 settembre 2011 da Albertogallo

RUGGINE (Italia 2011)

Una periferia degradata. Quella che devono aver visto alcuni tra i nostri genitori, con squallidi palazzoni affacciati sul niente. Un niente indeciso, che non è più (tutta) campagna e non è ancora città – granaglie, erbacce, rottami, auto e edifici abbandonati, in preda alla ruggine. Come nel titolo di questo film di Daniele Gaglianone.

Una pellicola sul passaggio all’età adulta, una racconto di formazione e innanzitutto un libro, come si scopre alla fine della proiezione. Fin dalle primissime scene Ruggine ricorda da vicino un altro grande film italiano, Io non ho paura, anch’esso tratto da un’opera letteraria. Ecco, forse uno dei limiti di Ruggine è che gli somiglia un po’ troppo. Racconta di bambini coraggiosi, più coraggiosi degli adulti, che insieme vivono i piccoli grandi drammi della loro età, che non hanno paura e che sconfiggono, nel solco della migliore tradizione fiabesca, il drago cattivo. Una lotta vera, non solo metaforica: il duello finale tra il bambino più coraggioso del gruppo e il “mostro” avviene in un antro, seppur postmoderno, e l’ambientazione, i suoni (tra cui i brontolii di Filippo Timi) e la regia danno l’idea di trovarsi di fronte a un film dell’orrore. Sono piuttosto efficaci, in questo senso, i quadri e i movimenti di macchina – lentissimi, che allargano il campo e svelano, per suspense e pudore, di volta in volta, un particolare in più – e una serie di inquadrature di spalle e di riprese, da diversi punti di vista, della stessa scena: potrebbero sembrare tutti sterili esercizi stilistici, ma non lo sono, e hanno la doppia valenza di approfondire l’ego tormentato dei personaggi e di dilatare ulteriormente il “momento”, quello preciso in cui le vite dei protagonisti cambiano per sempre. Il film percorre infatti due binari: quello del passato, il tempo dell’infanzia, e quello dell’oggi, con i bambini diventati adulti e con le facce di Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea e Valeria Solarino. Qui, forse, il film è un po’ debole, quando deve tratteggiare il tormento, superato a livelli diversi, dei tre protagonisti: uno l’ha solo apparentemente superato (Accorsi, non bravissimo ma sopportabile); l’altro, pur essendo stato il più coraggioso di tutti, ne è ancora prigioniero (Mastandrea, bravo a reggere l’intero film parlando in siciliano); e la ragazza, che a prima vista pare ancora turbata, “strana”, è invece colei che possiede lo sguardo più lucido (Solarino, che si conferma brava e cui spetta la battuta migliore). Una sola pecca, una caduta di stile: Accorsi per tutto il film gioca con suo figlio e, alla fine, arriva a simulare l’attacco di un drago. La metafora era, a quel punto della pellicola, già piuttosto chiara, e la scena risulta inutilmente didascalica. In ogni caso, senza scomodare paroloni ingombranti, il discorso sociologico è uno dei motivi per cui Ruggine si fa apprezzare.

Ma davvero insuperabile, tanto che basterebbe questo elemento da solo a valere il prezzo del biglietto, è l’interpretazione di Timi nella parte del dottore-mostro. Il suo ruolo – l’infanticida immobile nei movimenti, turbato psicologicamente, preda di deliri pseudonazisti, amante delle opere classiche, impeccabile nell’abbigliamento e impostato nel tono di voce – è di quelli che piacciono agli attori. Ottimo, in particolare, il momento in cui si trova nell’autolavaggio. E bravo anche Gaglianone a “imbrigliare” questo pediatra razzista, impedendo a Timi di scadere nel gigionismo, nella parodia involontaria. Notevole anche l’interpretazione – credibilissima – dei ragazzini: non so se sia facile o difficile, per un regista, avere a che fare con attori bambini, ma qui l’effetto è decisamente positivo.

Un ultimo punto a favore del film è quella che potremmo definire la “storia tra le righe”, un conflitto che, in modo malato, anche il dottor Boldrini tenta di risolvere. Si tratta di quel grande calderone di storie raccontate e da raccontare che fu ed è l’immigrazione dal Sud al Nord Italia, quel “saltare cent’anni in un giorno solo”: dei miti (su tutti Paolino Pulici, simbolo di una squadra e di una città operaia che vincevano), dei modelli di famiglia patriarcale riprodotti nei giochi, della schiettezza nei rapporti genitore-figlio, della diffidenza verso il “galantuomo”… in Ruggine si parla anche di tutto questo, di queste persone come mandate a un qualche confino, costrette a interpretare giorno per giorno la realtà. E costrette, talvolta, a difendersene.

Infine una nota cinefila. Il tema dell’infanticidio e della pedofilia è stato, anche per le sue valenze metaforiche, ampiamente trattato dalla cinematografia mondiale, e qua e là il film occhieggia ad altri lavori più o meno famosi, da M – Il mostro di Düsseldorf (rapporto assassino-musica classica) a Cane di paglia (il linciaggio dello scemo del villaggio) passando per Mystic river e Sleepers per giungere, appunto, a Io non ho paura.

Marcello Ferrara



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