Ruggine e ossa, recensione in anteprima: la costruzione di un amore
Creato il 30 agosto 2012 da Saramarmifero
L'educazione criminale del Profeta, l'opera più acclamata di Jacques Audiard, diventa l'educazione sentimentale, non meno violenta e faticosa, di una coppia decisamente sopra le righe. Già in Sulle mie labbra, il reietto Vincent Cassel si innamorava della sordo-muta Emmanuelle Devos. Oggi, Ruggine e ossa racconta le vite di Stéphanie (Marion Cotillard) e Alì (Matthias Schoenaerts), due ultimi che non saranno mai primi, strappati alle pagine cupe di Craig Davidson, il Chuck Palahniuk gonfiato di steroidi autore della raccolta Rust and bones, alla quale il regista francese e il co-sceneggiatore Thomas Bidegainsi sono, con tutte le licenze poetiche di questo mondo, ispirati. A maggio scorso il cineasta, in quel della Croisette, aveva definito il suo film “espressionista” e affine alla cinematografia figlia della Grande Depressione per l'uso di un'estetica contrastata e la strizzata d'occhio al capolavoro di Tod Browning, Freaks. Un ammiccamento che, a dir la verità, non potrebbe essere più fugace. Piuttosto, meglio non lasciarsi abbagliare dagli scenari luminosi della Costa Azzurra. Con i suoi supermercati pieni di cibo scaduto, la pacchianeria dei parchi acquatici, le risse in discoteca, la corsa ai licenziamenti e una misoginia diffusa, l'ambientazione saccheggia un repertorio umano e sociale che trova la sua geografia elettiva ai margini del capitalismo e ha la sua radice profonda in un paesaggio urbano di ascendenza squisitamente statunitense.
Tuttavia, la forza del film non risiede in questo vago, seppur necessario, affresco da contemporaneità in declino. Ruggine e ossa è, soprattutto, una storia d'amore, e come tale non tradisce il melodramma, ma lo affonda in una tale morsa di violenza e disincanto che ogni tentazione di estorsione emotiva, tipica del genere strappalacrime per eccellenza, finisce fortunatamente stritolata. Ci voleva un cineasta lucido come Audiard, per riuscire ad aggirare la trappola della commozione coatta, nonostante una serie di scene potenzialmente ultra-ricattatorie, tra maltrattamenti di bambini e giovani fanciulle confinate su una sedia a rotelle. Il merito va però diviso con gli attori protagonisti. La Cotillard in particolare, spogliata dei vezzi da diva, non è mai stata così bella e intensa, fragile e fiera. Imbrigliato il mimetismo eccessivamente scimmiottato ne La vie en rose in favore di una misura recitativa mai gridata, fatta di sguardi e silenzi, la Mômedi Francia regala qui la sua migliore interpretazione. I capelli spenti, il pallore emaciato del viso inondato di luce, lo struggimento celeste dello sguardo ancorato all'azzurro del mare, in un torpore assolato dal quale solo i guizzi muscolari di Alì sapranno ridestarla. L'amore sboccia tra un corpo colossale in perenne movimento, dalla tenerezza arrugginita, sul ring come tra le lenzuola capace di un'unica forma di espressione - il menar colpi - e la grazia amputata di una Bella immancabilmente attratta dalla Bestia, sia essa un'enorme orca o un lottatore dagli appetiti ferini, certa di essere la sola in grado di addestrare l'animale (marino e umano), di capirlo, anche a rischio di restare mutilata. E, d'altra parte, questo angelo dalle ali spezzate troverà nel boxeur, nella sua prosaica semplicità, quell'empatia priva di odiosi pietismi che cerca e non trova nel mondo che la circonda. Le ossa del titolo sono quelle di Stéphanie, che non esistono più, e quelle robuste della mani di Ali, calcificate da strati di violenza. La parabola di questi due corpi li rende l'uno il duplicato dell'altro. Audiard spiattella sotto il naso dello spettatore questo rapporto di proporzionalità inversa attraverso una serie di eco visive, che si rincorrono lungo la pellicola fino a tracciare un sottotesto denso e disturbante. Il primo incontro tra i due è soprattutto l'indugiare insolente degli occhi di Alì tra le cosce di Stéphanie che, di lì a poco, perderà gli arti dal ginocchio in giù in un incidente acquatico. Con le sue protesi da Robocop, la donna rinascerà di pari passo con i pugni assestati dal lottatore e nella furia ginnica di lui troverà la vera stampella cui appoggiarsi per restituire alla vita i tremendi colpi ricevuti. Fino ad un finale in cui un trauma speculare segnerà la fusione definitiva, fisica ed esistenziale, dei loro destini. Come se il sentimento potesse essere concepito solo a partire dall'uguaglianza del dolore. Oltre i dialoghi scarni, a tratti comici nella loro disarmante inconsistenza, immaginiamo una voragine di significati taciuti, o meglio sussurrati (dal regista) e un groviglio di sentimenti indecifrati (dai protagonisti, le cui amputazioni cicatrizzano l'anima prima ancora del corpo). Come quando lei gli confida le proprie paure e lui, per tutta risposta, le propone di fare sesso. Non per amore, né per pietà, ma così, per vedere se “funziona ancora”. Se il desiderio lo richiederà, lui sarà “opé”, nel senso di operativo, pronto a scattare, come sull'avversario. Ma quando lei pretenderà delicatezza, non riuscirà proprio a capire cosa ci si aspetti da lui. “Sono opé”, ripeterà più volte, smarrito. Per certi versi, questo personaggio forza lo spettatore a tollerare l'intollerabile, sotto forma di una brutalità che può scaturire all'improvviso contro chiunque, e lo fa nel nome di un chiaroscuro psicologico ormai largamente esibito dal cinema d'autore. “Oggi gli stronzi sono sinceri”, sentenziava qualche anno fa Godard proprio dai microfoni di Cannes. Alì agisce in modo imperdonabile, non ne combina una giusta, ma in cuor nostro lo capiamo (perchè Audiard ce lo fa intendere in ogni modo), che è un gigante dal cuore gentile, solo sotterrato sotto una gelida lastra di amarezza. Il gigante dovrà rompersi le nocche su quel ghiaccio, sporcarlo di sangue e lacrime, prima di far riemergere, finalmente, il buono che cova in sé, il suo essere padre e uomo capace di dire “ti amo”.
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