Rumore di fondo, una silloge di inediti di Francesco Terzago

Creato il 20 febbraio 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura

Francesco Terzago

Questa è una sorta di diario di erranza interiore, un taccuino di raccapezzamenti taciuti e all’improvviso disvelati con un movente catartico, che Francesco Terzago offre ai lettori di Critica Impura. E’ una silloge di riflessioni sotto forma di ondate di marea, dotate di un costrutto cronistorico coerente, di un’interna architettura semantica e formale. E’ una raccolta di meditazioni incapsulate in un apparente adagio di riflessioni filosofiche sul linguaggio e di pensieri sull’ethos e sull’ethnos. E’ la fenomenologia di un senso d’appartenenza perpetuamente oscillante e svanente attraverso i confini di un’indecisa e scabra aisthesis, a cui un uomo immerso nelle maglie di un paese che sta imparando a conoscere di volta in volta s’aggrappa per sentirsi centrato e vivo. Queste pagine inedite, impregnate di umori poetici, paganesimo wittgensteiniano e una profonda catabasi della solitudine, sono state redatte dall’autore in forma di appunti a partire dal suo ultimo rientro in Cina, ad ottobre del 2012, nel corso di una decina di giorni di insonnia da jet – lag, e poi, a parte gli ultimi tre testi, revisionate in un paio di notti e spedite a me personalmente via mail protetta, per evitare la censura del governo cinese.  Buona lettura.

Sonia Caporossi

Il rumore di fondo

Di FRANCESCO TERZAGO

Degli scampoli per pochi.

Qualcosa di brutto.

Sincero. Qualcosa per tutti.

1.

Articolo ### del Codice Penale della Repubblica delle Lettere.

   Chiunque pubblicando poesia non adotti Garamond o Palatino sarà punito con la reclusione da quindici a trentanni anni. 

La volontà dell’estensore era quella di tutelare i caratteri con grazia nei confronti dei più diffusi e volgari che ne sono sprovvisti. Rammenta, tu che scrivi: la Colonna Traiana, Francesco Griffo, epigrafi romane, De Aetna…

2.

Io lo ricordo Manuzio Aldo, l’anno della sua morte, 1515.

E il 1499, amoroso combattimento onirico di Polifilo;

date, eccole, assiepano la mia mente, migliaia. Il

14 ottobre Rommel Erwin muore suicida,

1944. La mia prima ragazza, Cavalli

Margherita, compieva gli anni

il 19 novembre. C’è il 20

di settembre, Porta

Pia Breccia

Date, eccole, assiepano la mia mente, migliaia, che cosa me ne faccio? Non me ne faccio proprio niente, voglio vivere come l’erba, come lo stelo d’erba, come la macchia d’erba. Dove sei data del silenzio, dell’estinzione. Dove sei? Mi sono appeso al collo una collana di campane per farti venire da me. Eri l’unica che desideravo conoscere, l’unica che non posso conoscere.

3.

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Ho scritto ogni “#” e ogni spazio senza usare “copia e incolla”, «amanuense digitale», ho pensato in un primo momento. Riprovevole tentativo di alienazione, ho compreso in un secondo momento. Riprovevole tentativo di consegnare a questo strumento di tortura la dignità del lavoro manuale, adamo me fecit. Starmene in questa cella due metri per due ad aspettare i temporali, questa è la mia Cina, questa è la mia vita – le spesse tende verdi oscurano la luce della notte (il giorno avrà già raggiunto le pareti esterne del dormitorio con tutto il suo corredo: uno sciamare di ombrellini bianchi simili alla lanugine dei pioppi trasportata, annodata – nella brezza), sono loro le amiche della mia segregazione, intendo dire, queste tende. Hanno la dovuta comprensione, nascondono ai miei occhi la vergogna del mondo, sono le nutrici del vuoto, ed è in questo vuoto che io immagino, le fisso e cerco di immaginare che cosa vi possa essere dall’altra parte. Ora potrei essere in sospensione nel cosmo, scrivere dalla cellula di miele| di una sfera lanciata nello spazio. Vuoto. Che poi non è questo vuoto, perché se ci penso bene – al vuoto – già c’è qualcosa che che ne prende il posto, intendo una oscurità – ma il vuoto è l’assenza? Domando a me stesso. Ciò che non è chiuso. Il vuoto è l’assenza di tutto quanto. Libertà?

La pioggia, la cappa del pianeta sgocciola su questa pezza di umanità. Nebbia, una nebbia spessa. Quando viene rimossa è il calcare, sulle strade, nella pelle.

4.

Se nella parola kǒu [bocca] io ci vedo una bocca, chiunque, con un po’ di sforzo, ci vede una bocca. Nella lettera ‘o’ o nel numero ’0′ /zɪərəʊ/ potrò vederci il sole, un pozzo, una bocca o un soldo. E sono tutte cose tra loro attinenti, c’è il pozzo e ne prendo l’acqua e c’è il bicchiere e c’è la bocca e c’è il soldo – non è una storia? Ma soldo è solidale, perché la solidarietà è qualcosa di solido – diceva sempre il mio insegnante di latino. E allora la nostra lingua italiana è generosa, è ricca, è solida, è solidale – quanto meno, nel suo passato; certo – quello a noi più prossimo.

5.

Ho pensato che avrei potuto scrivere un bel libro tagliandomi le vene. Sono scoppiato a ridere all’idea. Tagliarmi le vene?, ho detto tra me e me. Come poi avrei potuto stringere una penna tra le dita o battere sulla tastiera? Il sangue sarebbe sgocciolato da tutte le parti diventando appiccicoso. Ora, a qualche giorno di distanza da quel pensiero da ignorante, mi ritengo ancora più ignorante – sarebbe bastato un grande cerchio rosso tutto attorno a me, sarebbe bastato a me, un momento letterario per antonomasia. Io e io, io per me. Non io per tu.

6.

L’area 451, o di Brocà, è stata ritenuta – per lungo tempo – il luogo del cervello umano sede delle funzioni linguistiche primarie. In effetti è proprio così, anche se, nell’atto linguistico, il nostro cervello è del tutto simile a un’orchestra, è uno sciamare di impulsi elettrici, un turbine di energie volatili, un’aurora boreale vista da un aereo o dalla Mir (pace o mondo – pace sul mondo, pace per il mondo, pace nel mondo). Il danneggiamento dell’area di Brocà ridurrebbe – probabilmente – le nostre capacità linguistiche a schiocchi o sibili, delle migliaia di sillabe che ora adoperiamo con noncuranza in ogni  conversazione ce ne rimarrebbero un paio – per spizzicare l’esistenza, dalle radesele a Kierkegaard.

Saremmo allora dei poeti, chiuderemmo l’intero globo terracqueo in una manciata di suoni, parleremmo una lingua, la nostra lingua, solo nostra e di nessun altro, una lingua per ciascuno di noi, questa è la Babele delle lingue.

Una tazza di ceramica azzurra, un leone. Che cosa sarebbe per noi un filare di pioppi o di eucalipti, nell’Agro Pontino, nel Polesine. Una sequenza rapida di bam bam bam o lenta: baam  baam  baam, lenta come la noia?, baaam   baaam   baaam,   o addirittura lenta come la nausea. Io non sono un leone, non posso sapere come pensi un leone. Ci rimarrebbero delle immagini, forse, non assicuro, compiute in loro stesse. Sarebbe questo, allo stesso tempo, il segreto, il segreto meglio custodito dell’umanità. Poesia fatta da uomini in un linguaggio che è degli uomini e non lo è, allo stesso tempo.

7.

La forma geometrica che odio è il triangolo equilatero, e odiandola non le posso resistere – lui è il più semplice dei poligoni io – se le mie nozioni elementari di matematica non mi ingannano – complesso insieme di frattali. Pensate a un quadrato o a un rettangolo, pensate a un cerchio e a un ovale. Potete prenderli tra le mani, stringergli, le vostre mani saranno sempre parallele tra loro, il quadrato potrà essere la vostra casa, la vostra bocca, la vostra automobile, la vostra faccia, il vostro letto. Il cerchio è il cielo. Ma un triangolo? Il triangolo vi ferirebbe con i suoi spigoli se voi tentaste di afferrarlo allo stesso modo di tutto il resto – la perfezione è crudele. Il triangolo sono gli dèi, gli dèi tutti, arcaici e rinnovati. Nel triangolo si assommano sacro, sacro e alieno. Questo, allora, è il triangolo, il presagio che esista un mondo dei tre, oltre a quello – confortevole – dei due, delle simmetrie: mano sinistra, e mano destra, bianco nero e… Rosso verde e… Solo concepire la realtà dei tre mi dà le vertigini. Devo interrompermi, devo scusarmi con voi, perché la mia è una approssimazione insopportabile. Non voglio fare il bugiardo, non posso parlare del linguaggio dei tre con il linguaggio dei due. Al massimo posso – fingere – non è forse questo il mestiere degli uomini?

8.

Mi dici che c’è nebbia e che fa molto freddo. Qui è lo stesso, anche se quasi diecimila chilometri mi separano dalle tue mani. Non vedo i condomini, bianchi, al di là della strada. Quelli che di solito, quando al mattino apro le finestre, mi attendono serrati nelle loro schiere. Così io mi convinco che su tutto il nostro pianeta sia sceso questo manto,

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che là, dove non vediamo, stiano agendo forze indicibili. Il mondo che si parerà davanti ai nostri occhi – domani – sbattuto dal vento di cristallo, non sarà lo stesso dei giorni precedenti a questo evento, sarà un altro mondo, anche se solo di poco dissimile da quello che tutti noi conosciamo – ogni persona avrà in tasca questa terribile verità ma farà finta di nulla. La vita procederà come se niente sia mai accaduto.

9.

Quando ero bambino non conoscevo il significato della parola «etimologia». I miei studi forsennati si concentravano sul segno elementare, sull’unità minima della nostra lingua, la Lettera. Cercavo di immaginarmi la storia delle lettere. La ‘A’ maiuscola era una piramide egizia dipinta di verde, le piramidi sono sempre state verdi. Minuscola, una piramide azzurra, erosa dalla pioggia, dal vento, dal peso stesso del sole, ovvero della O maiuscola.

10. preghiera

Io non posso sapere se l’universo si stia espandendo o se si stia ritraendo come un’onda che ha esaurito le sue forze. Certo, ciò che più mi affascina sono i chiodi nella notte, sono le stelle. L’esistenza della materia oscura suggerirebbe per l’Universo confini, l’Universo – o meglio ciò che ci è visibile a occhio nudo, con il telescopio o con il radiotelescopio, è l’entropia, è caos di luci, di forze indicibili, di fenomeni in parte ancora inesplicabili. Tutto galleggia sul rumore di fondo, la traccia della Creazione, le bollicine in un bicchiere di champagne. Ma, al di là dell’entropia è la quiete, è il comando, è la materia oscura. Stiamo parlando di cifre considerevoli, da quel poco che mi ha saputo dire uno che sosteneva di studiarle, queste cose. Noi, e con noi intendo pianeti, planetoidi, stelle, asteroidi, comete, pulviscolo spaziale, gas, uomini, bestie, licheni e muschi; rappresentiamo il 10% del tutto.

Oltre a noi c’è la quiete, l’ordine. Nulla vi si muove o respira, una pace orribile, l’omologazione – e allora uomini ridete, innalzate i vostri inni agli dèi della carneficina, muovetevi da un lato all’altro del globo, uccidete, scopate, vestitevi da pagliacci per andare in chiesa, che i maschi si vestano da suore, per andare a bere il caffè; che le femmine indossino il talare, per andare a bere il caffè. Pisciate per strada, urlate poesie, adagi latini, vecchi detti contadini e canzoni popolari – recitate Shakespeare assieme ai barboni, siate voi stessi barboni, bevete fino al sonno, prendete le cose con leggerezza, bevete fino al capovolgimento, prendete le cose con serietà; urlate alla luna come cani, ammazzatevi – l’aurora scenderà come una mano di donna ad accarezzare la calvizie incipiente del mondo. Prendete a schiaffi chi vi pare e ricevetene, e abbracciatevi, scioglietevi nell’erba, dormite nell’erba. La neve chiuderà il suo sarcofago scintillante. Drogatevi, fate e chiedete l’elemosina, spendete ogni soldo che avete. Sarete vetrai, scultori, pittori, sarete la cicala, sarete i ludoterapeuti. Rubate, offendete, fatevi perdonare, fatevi beffe dell’autorità. Cavalcate, cavalcate come mongoli della steppa, e vivete, vivete, vivete: vino e formaggio ben stagionato siano sempre alla vostra tavola, e almeno un amico, che abbia con sé un altro amico. Amate, spirito e carne, amate, amate, amate. E, quando quest’inverno arriverà la neve offritele il vostro cappello e statevene alla balaustra del silenzio. Statevene come bambini – tenete il naso all’insù – la lingua fuori e la bocca spalancata, accogliete il freddo del mondo dentro di voi perché è cosa, se ci si pensa bene, di cui si può sempre essere lieti.

11.

Mi sto ammalando, sto seppellendo la mia giovinezza nella pioggia. Trascorro giornate intere ad aspettare lettere che non arriveranno. Mi propongo per improponibili lavori. Ogni mattina raccolgo dal cuscino ciocche di capelli. Le nostre brevi conversazioni non mi rincuorano più. Mi dici torna, torna in Italia. Non posso tornare perché qui c’è ancora tanto, tanto lavoro fa fare. Ti chiedo aiuto, dici; probabilmente hai ragione, te lo chiedo sempre, aiuto, aiuto, aiuto –, lo fanno spesso, quelli della mia schiatta, nell’amore della solitudine, del rifiuto, lo chiedono spesso ma mai volendolo. Sarebbe solo il pretesto per una sciarada, per una sarabanda di un giorno, di una notte o due. Mi manca la tua lunarità, il fazzoletto di zinco che ti leghi attorno al collo, le labbra, il dolore. Questo che si è seduto al mio fianco è lo schietto distacco, non già sofferenza, è questo il mio male, ciò di cui soffro, essere abbandonato da me.

12.

Siamo entrati nel nuovo appartamento, diciannovesimo pianto, vista sui grattacieli che stanno rimpiazzando uno degli ultimi villaggi. Pulendolo ho avuto modo di comprendere che la polvere ci è sgradevole solo in modo transitorio, poiché con l’umidità di questi luoghi presto si raggruma, si fa terra, si fa muschio bianco, erba nera; chissà – con la dovuta pazienza sarà la radice, che scenderà giù, nel profondo. Non sono mai stato un buon cristiano ma mi dico tra me e me, polvere sei, polvere ritornerai – lei, dall’altra stanza, mi chiede se la sto chiamando e io le rispondo che vita siamo, che vita siamo.

13. Esortazione

Oggi ho letto sul giornale di una stella circondata da sei pianeti, ognuno di questi sei potrebbe ospitare la vita. L’umanità non può averne le prove ma le possibilità sembrerebbero considerevoli. Sei pianeti è un bel numero. Mia nonna mi raccontava di quando, da bambina, pensava che sulla luna ci abitasse della gente, lei li chiamava indiani. Sulla luna, capite? Che cosa potranno mai pensare quegli esseri che, alzando il naso vedono oscillare nel cielo un gettone azzurro: mari, continenti, tifoni, e le nuvole, che avanzano sullo schermo dell’altro mondo ed infine svaniscono nell’eclissi. Chissà quale propensione per il cielo debbono avere le persone che abitano attorno a quella stella, quale riverenziale timore nutrano nei confronti dello spazio, dell’Invasione: in quei luoghi mongolfiere, cannocchiali, torri d’osservazione avranno fatto la loro comparsa ancora prima della scrittura. La nostra guerra fredda è stata insignificante se confrontata a tutto questo. Loro – forse proprio in questo momento – staranno facendo delle supposizioni su come sia vivere sulla nostra Terra. Forse lo invidiano, questo pianeta, nella sua rassicurante solitudine. Forse siamo proprio noi quelli che vivono in un condominio vuoto, come quelli di Berlino Est dopo la caduta del muro. Penseranno a noi, noi che non abbiamo problemi di vicinato. Senza dubbio, nelle lingue che quei popoli parlano esisteranno innumerevoli parole differenti per definire la co-esistenza, la co-abitazione, gli alieni. Oppure le cose non stanno messe come ve le racconto io, anche loro, alla nostra stregua, conducono l’esistenza senza badare alle cose che si trovano sospese sopra alla loro testa. Parlano del rilancio dei consumi, dell’inflazione, del prezzo del carburante. Del settore dell’edilizia che è entrato in crisi. E si raccontano a vicenda lo stesso sogno, ovvero di quanto siano belli, sani e felici i figli di quelli con il portafoglio pieno.

14. Epilogo

Hanno trovato una massa nella mia

gamba destra. Sono andato all’ospedale con

Leonardo, un amico biologo che conosce

bene il cinese. Dopo pochi minuti mi hanno

messo sotto alla macchina per le radiografie.

Quando ho avuto tra le mani le lastre

ho ammirato lo spettro eburneo

del mio scheletro emergere da una verde

oscurità. Era immacolato, sacro, inviolato.

Questa è la memoria delle ossa, dove vengono

impressi i marchi dei dolori barbari.

Le scalfitture della baionetta, le fenditure

dell’ascia, le esplosioni della mazza-ferrata,

la frammentazione date da una scarica di proiettili.

Devo constatare con rammarico che per quello

che potrebbe essere il mio male della mia guerra,

così silenzioso, così moderno, così piccolo-borghese,

non vi sia spazio in questo libro. Lui resta là,

dentro di me, a suo agio nel calore della

mia carne. Chiedo al medico cinese di

che cosa si tratti – non sappiamo, mi risponde,

non lo capiamo, ci vorrà tempo. Mi suggeriscono

di stare tranquillo, di tornare a casa,

di vedermi un bel film con la mia ragazza

e magari, di fare l’amore. Se nei prossimi tempi,

quella duna giallastra alla destra della mia tibia

dovesse crescere, iniziare a prudere, a dolere,

a bruciare, conoscerò la TAC e la biopsia.

C’è una pudicizia che non mi ero aspettato,

ci rivolgiamo al mio problema senza mai

utilizzare il suo preciso appellativo. Potrebbe essere

un male raro il cui nome risveglia in me ogni

fanciullesca curiosità per l’Antico Egitto. Allora

non resta che rincuorarmi, trovare conforto. Di certo,

il mio destino non potrebbe essere lo stesso

del Grande Rimbaud. Non c’è spazio nella storia

della Letteratura per due poeti colpiti,

irrimediabilmente, dallo stesso male. E,

d’altra parte, seguendo il medesimo ragionamento,

potrei essere ancora più confortato nello scoprire

di non essere affatto un poeta, al più

un mesto scribacchino che sente, sordo,

il rumore della lontananza. Che trova

rifugio, poveretto, nella Patria della sua lingua.

Ma certo è che esiste una memoria delle Lettere o,

per meglio dire, una memoria della carne. Dove

era l’oblio ora sta la parola. Dove stava l’erosione,

l’inondazione, la paura, l’estinzione, l’umiliazione,

il dolore ed il sopruso, ora sta la consolazione, la parola.

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