Resilient, quindicesimo album della lunghissima e onoratissima carriera dei Running Wild, è molto simile al precedente per stile e per produzione. Però i pezzi sono generalmente meno carini. Potrebbe esserne un “part II”, come se i due dischi fossero stati scritti e registrati insieme, con il secondo che si è beccato gli scarti. Resilient si riduce fondamentalmente a tre canzoni: The Drift, Desert Rose e Fireheart, che arrivano a metà disco dopo una serie di pezzi mosci iniziali, e con le quali inizi a pensare che dai, se anche le successive sono tutte così magari si può pensare di mettere il disco nella playlist di fine anno. L’assolo di Fireheart, in particolare, è una di quelle cose per cui ringrazi il Signore di ascoltare heavy metal. Invece, appena finita questa tripletta, ci si ammoscia di nuovo con la successiva Run Riot, e via dicendo. Il lungo tentativo epico in chiusura è brutto e noioso come tutti i lunghi tentativi epici in chiusura dei dischi dei Running Wild, e qui quantomeno siamo in linea con la tradizione. Si sente che Rock’n'Rolf ci crede ancora tantissimo e che soprattutto si diverte ancora, ma purtroppo stavolta, pur credendoci, siamo noi a non divertirci.
Alla fine Resilient è sul podio dei dischi peggiori mai fatti dai pirati di Amburgo, e ve lo dice chi ancora riascolta spessissimo Shadowmaker. Chiaramente tutto ciò non frega niente a nessuno perché l’importante è che loro siano ancora in giro così da poterli vedere dal vivo e fare casino su Powder & Iron. Sempre viva. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)