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RUSSIA: In Ucraina sta andando in scena la crisi del putinismo

Creato il 18 aprile 2014 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 18 aprile 2014 in Economia, Russia, Ucraina with 0 Comments
di Matteo Zola

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“Si dice Santa Madre Russia, eppure per gran parte della sua storia ha aspirato a diventare uomo. Vuole cambiare sesso. Porta la gonna, ma vuole i pantaloni”, così diceva lo scrittore russo Viktor Vladimirovič Erofeev. Una definizione ancor più vera oggi che la Russia, guidata da Vladimir Putin, mostra i muscoli con l’ambizione di tornare ad essere una potenza globale. Durante i primi due mandati presidenziali di Putin (2000-2008) la Russia ha trovato nella politica estera una chiave per favorire la stabilità interna e la crescita economica, stringendo rapporti economici importanti con la Cina e l’Europa. Con quest’ultima ha siglato, nel maggio 2010, una partnership per la modernizzazione che tradotta in soldoni valeva 87 mld di euro di esportazioni dall’Europa (6,5% del totale) e 155 mld di importazioni (10,4% del totale) nel 2012. Al contempo Mosca ha cercato di diversificare la propria economia per renderla meno dipendente dalle risorse energetiche.

Il processo di modernizzazione, portato avanti durante la presidenza Medvedev (2008-2012), ha però subito una brusca battuta d’arresto con l’avvento della crisi economica internazionale che ha costretto la Russia riconfigurare le proprie strategie e alleanze. L’elemento di novità del terzo mandato presidenziale di Putin, iniziato nel 2012, è lo sfruttamento della politica estera con finalità interne, principalmente per raccogliere un’opinione pubblica sempre più scettica attorno alla nazione e al suo leader.

Scrive Serena Giusti, in Russia’s foreign policy for the country’s stability, analisi pubblicata da Ispi, come Putin, allo scopo di mantenere il consenso, abbia fatto sempre più ricorso al nazionalismo, al tradizionalismo e alla repressione dell’opposizione. Il concetto di “democrazia sovrana” (coniato da Surkov nel 2006) quale lo stato è controllato da una élite oligarchica in grado di far corrispondere gli interessi nazionali e personali alle attese della popolazione, è stato messo in discussione nel 2009 con l’esplodere della crisi economica globale. In quell’anno il Pil russo è passato da un più 9% del 2007 a un meno 8% nel 2009 (il dato peggiore del G20). Un dato che, come ricorda Philip Hanson in The economic development of Russia: between state control and liberalisation (ricerca del 2010 finanziata dal Ministero degli Esteri italiano), non si deve alla crisi del petrolio poiché altri Paesi che sono importanti esportatori di oro nero hanno subito un declino molto modesto. La crisi russa sarebbe quindi legata a motivi di arretratezza economica che rendono le prospettive di crescita tutt’altro che rosee: la ripresa è stata finora timida, solo un 3% di crescita media del Pil negli ultimi tre anni con un outlook del Fmi che prevede il 3,2% medio annuo fino al 2020 (dati Banca Mondiale).

I contraccolpi di questa crisi si sono fatti sentire nel 2012 quando, alla vigilia del voto presidenziale, il ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, criticò apertamente Putin mettendosi alla testa di una colonna di “modernizzatori” favorevoli a Medvedev e obbligando Putin a fondare un nuovo partito, il “Fronte popolare”, con cui sfidare – e vincere – quanti dentro Russia Unita lo volevano fuori dai giochi del potere in nome di “un putinismo senza Putin”. Le elezioni del 2012 lo videro trionfare ma una reale stima del voto ha visto il suo gradimento scendere al 58%, molto in termini assoluti ma poco per l’uomo che concentra su di sé tutto il potere russo. Il scetticismo verso Putin è in buona misura espressione della nuova borghesia di Mosca e Pietroburgo, (in queste città rappresenta il 30% della società) frutto della modernizzazione apportata dal putinismo e al contempo infedeli ad esso.

L’allontanamento di Kudrin dalle stanze del potere, seguito da quello di Mironov, presidente del senato, anch’egli critico verso una rielezione di Putin, e la stessa marginalizzazione di Medvedev, hanno radicalizzato in senso verticale il potere russo: se prima i vari attori del potere si bilanciavano, favorendo una dialettica interna a Russia Unita, dopo la rielezione Putin ha dato una stretta alle possibilità di dissenso interno. Putin è però consapevole che per garantirsi il comando era necessario intervenire sui due fronti: quello economico e quello sociale. Ha così varato una legge per il ritorno in patria i milioni di rubli depositati su conti privati off-shore, grazie a una politica fiscale favorevole ai grandi capitali (Mosca aveva visto una fuga di capitali pari a 56,8 miliardi dollari nel 2012 e 80,5 miliardi nel 2011). Ha poi eliminato alla radice ogni possibilità di influenza esterna sulla società russa, cancellando le attività di USaid e di altre Ong americane accusate di finanziare l’opposizione al Cremlino. (Giusti, ISPI 2013)

Accanto a questi due interventi c’è la brusca sterzata in politica estera. Una scelta non casuale. La politica estera è tradizionalmente l’argomento meno divisivo in Russia. E’ infatti opinione diffusa tra i russi che il paese debba ambire a un ruolo di potenza mondiale e rivendicare l’autonomia delle proprie scelte. Una politica estera muscolare avrebbe facilmente riacceso gli animi della popolazione in senso patriottico rafforzando il consenso intorno alla bandiera e al suo condottiero. Putin ha così cominciato a usare gli argomenti del nazionalismo rispolverando una retorica anti-americana che sembrava sepolta sotto le macerie dell’Unione Sovietica. Ma c’è dell’altro: dagli anni Duemila il sistema internazionale che vedeva nell’ONU la massima espressione della diplomazia e garantiva alla Russia, con il suo seggio nel Consiglio di Sicurezza, un ruolo di potenza, è progressivamente venuto meno. Che fare per controbilanciare questa perdita di importanza a livello globale? Da un lato Putin ha deciso di mettersi alla testa dei BRICS, con l’intenzione di trasformare il furum dei paesi emergenti in una vera e propria organizzazione economico-politica (finora senza riuscirci); dall’altro ha cercato di recuperare manu-militari un ruolo strategico di rilievo sulla scena mondiale.

L’intervento russo in Ucraina rappresenta dunque una reazione alla perdita di un ruolo economico strategico e, al contempo, una reazione al calo di consensi interno. Si tratta di un passaggio fondamentale: così facendo Putin rinuncia alla corsa per la “modernizzazione” (modernizastya) in nome di una politica estera muscolare. Un segno di debolezza più che di forza, che potrebbe sancire l’inizio della fine del putinismo.

Come potrà infatti Putin far fronte alla recessione che probabilmente colpirà l’economia russa? La guerra in Georgia costò al paese una fase di recessione, pur breve. Quella in Ucraina, anche a causa delle sanzioni internazionali, potrebbe costare di più. Come farà a mettere a tacere il dissenso interno se non trasformando la Russia in uno stato despotico?

La Russia che uscirà dalla crisi ucraina potrà forse vantare conquiste territoriali ma il colosso, diceva Diderot, ha piedi di creta. I muscoli di Mosca sono gonfiati con anabolizzanti poiché l’economia russa non potrà sostenere lo sforzo dell’isolamento né i costi economici che le acquisizioni territoriali comporteranno. Come Pietro il Grande, il conte Witte, lo stesso Stalin, anche Putin sta perdendo la sfida con la modernizzazione, l’unica che sul lungo termine potrebbe garantire alla Russia quel ruolo di potenza cui ambisce.

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Foto: Daily Telegraph

Tags: crisi economica, matteo zola, modernizastya, modernizzazione economica, putinismo, Russia, Ucraina Categories: Economia, Russia, Ucraina


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