di Matteo Zola
Surkov è la mente dell’ingegneria politica russa: un sistema di democrazia controllata, un simulacro di libertà individuale stretto in lacci autoritari, dove le libere elezioni non sono altro che un plebiscito al leader, quel Vladimir Vladimorovic che ha tolto la grande madre Russia dall’angolo in cui l’avevano ficcata gli oligarchi vicini a El’cin a colpi di privatizzazioni che concentrarono in poche mani enormi ricchezze, arrivando quasi a disintegrare economia e società. E’ con l’arrivo di Putin che, nel 2000, la Russia si è ripresa dal default del 1998 anche grazie allo sfruttamento delle risorse energetiche (petrolio e gas) che hanno ridato fiato all’economia. Lo Stato nell’era Putin si è consolidato, ha ricominciato a pagare stipendi e pensioni, ritrovando una centralità nel panorama internazionale attraverso una politica estera muscolare.
Dietro questo successo c’è anche la lungimiranza di Surkov, nato ceceno col nome di Aslambek Dudayev, che si è ufficialmente fatto cambiare il nome nel 1969 a seguito dell’abbandono del padre e del successivo trasferimento nella regione di Lipetsk di cui era originaria la madre, Zinaida Surkova. Surkov è il grande progettista dell’impalcatura costituzionale russa. Un grande partito, Russia Unita, e una serie di opposizioni imbelli e macchiettistiche: da un lato i veterocomunisti di Ghennadi Ziuganov con falci, martelli e sosia di Lenin, e dall’altra gli ultranazionalisti di Vladimir Zhirinovski che strizzano l’occhio al clero ortodosso e menano cazzotti agli immigrati caucasici.
Russia Unita è il prezzo del successo, l’attività politica ed economica del new deal putiniano ha portato alla formazione di una middle class sconosciuta in Russia negli anni Novanta che sotto l’imperio di Vladimir Vladimorovic è cresciuta e si è allargata in modo esponenziale raggiungendo oggi nelle aree metropolitane occidentali (Mosca e Pietroburgo in testa) punte del 30% ma destinate a salire nel prossimo decennio al pari della crescita economica che, malgrado la crisi globale, avanza del 4% nel biennio 2010-2011. Tale crescita sociale ed economica si associa alla ristrutturazione verticale del potere politico, essa produce però una trasformazione nella società e quindi nelle aspettative dell’elettorato.
Ecco così che nel 2008 arriva Dimitri Medvedev. E’ lui a canalizzare le aspettative della nuova classe media “moderatamente liberale, un po’ europeista e un pizzico nazionalista, allergica alla pesantezza dello stato e della burocrazia e ancor di più alla corruzione” come ha recentemente scritto Stefano Grazioli, giornalista esperto di Russia, su Lettera 43.
Vladimir Putin ha così lasciato a Medvedev in comodato d’uso il Cremlino senza forzare la Costituzione che prevede un massimo di due mandati presidenziali consecutivi. Putin avrebbe potuto piegare la legge ma non lo ha fatto perché la “democrazia controllata” è prima di tutto un investimento economico e diplomatico. Una Russia smaccatamente monocratica e autoritaria allontanerebbe investimenti, raffredderebbe relazioni (specie con le cancellerie europee) e attirerebbe biasimo da parte degli esportatori di democrazia. La Russia putiniana ha invece tessuto rapporti energetici (e quindi politici) di primo piano con la vecchia Europa guadagnandosi il silenzio connivente del cosiddetto Occidente di fronte alle guerre cecene o georgiana. L’ideologo della “democrazia controllata” è lui, Vladislav Surkov.
Nel disegno di Surkov c’era (e c’é ancora) la creazione di un bipolarismo fittizio con un grande partito maggioritario, Russia Unita, e un antagonista. Il partito Giusta Causa sembrava quello destinato a questo compito. Ma la cacciata di Michail Prokhorov da Russia Giusta, la defenestrazione del ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, e il gioco dei ruoli tra Putin e Medvedev sembra aver complicato il quadro. In quale direzione andrà ora la politica russa? (continua)