Sabato al Festivaletteratura di Mantova: tre incontri

Creato il 11 settembre 2011 da Unarosaverde

E finalmente, dopo anni che dico “questavoltacivado, questavoltacivado”, ieri sono approdata in una Mantova dal volto mutato, affollata di persone e di libri arrostiti dal sole della bassa. Domenica scorsa, mentre prenotavo gli eventi a cui partecipare, ho seguito il criterio di selezionarli nella sterminata landa delle cose a me ignote. Niente idolatria di scrittori che ho letto, niente ripercorrere frasi che mi sono familiari. E così ho fatto la mia scelta: ore 11.00 con le cellule di Henrietta Lacks, ore 15.00 allo slam di traduzione, ore 17.00 con la Signora Ava. Sono arrivata a casa in tarda serata esausta, con un turbine di pensieri in testa e con la ferma risoluzione di ritornarci anche per la prossima edizione. Ma andiamo con ordine.

La mattina, dicevo, ho iniziato con Armando Masserenti che intervistava Rebecca Skloot. L’autrice, che si occupa di divulgazione scientifica,  incuriosita fin da  adolescente e dopo anni di ricerche, ha pubblicato la storia di Henrietta Lacks. Questa donna è stata l’ignara donatrice delle cellule HeLa, utilizzate in numerosissime ricerche degli ultimi sessant’anni, per la loro rara capacità di poter essere mantenute in coltura: per esempio  sono state utilizzate  per gli studi sulla formulazione del vaccino antipolio e di farmaci antitumorali e sono state le prime ad essere clonate. La donatrice, afroamericana, è morta senza che le venisse chiesto il consenso all’utilizzo di una parte del suo corpo,  i suoi familiari non si possono permettere la copertura sanitaria, i risultati delle ricerche hanno fatto muovere milioni di dollari in giro per il mondo. Questa è la storia, in breve sintesi. Il libro “Le cellule immortali di Henrietta Lacks” è edito da Adelphi. I temi che si sono aperti, in questa ora e mezza di dialogo con un’autrice – il cui modo di comunicare, con una tranquillità che non nascondeva la passione per il suo lavoro e l’interesse per la storia e le persone coinvolte, è molto efficace –  sono molteplici. In Italia la diatriba tra la “cattiva” scienza e la “buona” etica che deve intervenire a correggerne il tiro è acceso ma, secondo il moderatore, condotto con i toni e  i presupposti sbagliati. Il libro dell’autrice ha il pregio di raccontare, in modo oggettivo, la storia secondo il punto di vista di entrambe le parti. Si è accennato a molti concetti che meritano sicuramente un approfondimento: narrative medicine, consenso informato, importanza di fare divulgazione scientifica per impedire che l’ignoranza diffusa in materie scientifiche precluda ai pazienti la possibilità di prendere decisioni ponderate, interessi economici, coinvolgimento dei ricercatori nella discussione sull’etica. Secondo un sondaggio condotto in più nazioni, sembra che le persone, una volta richiesto loro di poter usare parti del corpo per la ricerca, darebbero il consenso: l’importante è che venga loro chiesto, l’importante è che possano ricevere, in cambio, informazioni sulle scoperte.  Ho di sicuro di che ragionare e molte personali lacune scientifiche che sarebbe meglio colmare, almeno in parte.

Nel primo pomeriggio, dopo pausa con canonici tortelli di zucca e sbrisolona, ho proseguito, nella chiesetta preziosa di Santa Maria della Vittoria, con lo slam di traduzione. Ada Arduini e Gioia Guerzoni si sono messe in gioco traducendo una pagina di Geraldine Brooks, presente in sala. Ho scelto l’evento perchè ero interessata a capire un po’ meglio il lavoro del traduttore. Da utente finale del risultato raramente rifletto sui passaggi che hanno trasferito il libro nella mia lingua madre: so che esistono ma sono a me nascosti. Il 25% dei libri italiani, il 50% dei libri di narrativa ci arrivano tradotti. La percentuale aumenta se si tratta di letteratura per l’infanzia. Come il traduttore sceglie le parole, quanto il suo stesso linguaggio e “gusto” incidono in queste scelte, quanto è importante il rapporto con l’autore, quanto la fedeltà al testo originario, quanto modifica la successiva rilettura del redattore ( c’è pure un redattore di mezzo?). Fermarsi a confrontare il testo originale con le due versioni in italiano è stato curioso. Riflettere sulla quantità di lavoro che richiede la traduzione doveroso. Alla fine io avrei scelto parti di una e parti dell’altra e ne avrei originato un terzo testo a collage. Mi sono chiesta anche se si possa effettivamente decidere se un autore scrive bene o male una volta che lo si legga tradotto. Si può effettuare questa scelta? Quanto peso ha la traduzione nella trasformazione del testo? Dove riesco, leggo in lingua originale. Non conosco in modo sufficiente nessun linguaggio da poter affermare che capisco interamente il testo: qualora io sia in grado di intendere il significato di tutti i vocaboli, mi sfuggono comunque i legami e i rimandi che suscitano in un madrelingua. Torno così al punto precedente: meglio tradotto o meglio in lingua se ne perdo comunque dei pezzi per strada?  Sciocchezze, direte forse voi. Leggi e basta. Può darsi: il contenuto del primo incontro è  stato sicuramente più carico di implicazioni però, per il lettore, anche questi sono argomenti su cui ogni tanto vale la pena ragionare.

Il terzo incontro è stato sorprendente: Chiara Valerio e Donatella Di Pietrantonio  alle prese con la lettura vintage di Signora Ava. Ho letto i libri di entrambe, non le avevo mai ascoltate. Non ho ancora finito di leggere Signora Ava, conoscevo Jovine per Le Terre del Sacramento che mi aveva morbosamente attratto al liceo. Mi aspettavo quattro chiacchiere tranquille e forse pure noiose,  intessute di riflessioni sul periodo storico e sull’importanza del testo. Ne sono uscita divertita dopo un’ora che è letteralmente volata. Bella la contrapposizione tra la pacata ma puntuale Di Pietrantonio, che dal testo di Jovine lancia rimandi a Fontamara e a Verga, e la passione quasi nervosa ma irresistibile e non trattenuta di Chiara Valerio che sottolinea gli aspetti comici del romanzo. “Non l’avevo ancora letto e mi aspettavo il solito libro sul Risorgimento” – ha esordito – “mi ha invece divertita moltissimo” ha ripetuto più volte. Ci ha regalato una lettura del brano della purga a Don Matteo che ha scatenato l’ilarità sotto il tendone e ha lanciato pure lei i suoi ami: a Stevenson, a Virginia Woolf, a Benedetto Croce e alle scelte che portano ad ignorare un testo nelle scuole per la “pericolosità” del suo contenuto. La rivoluzione che non si può fare per gli altri, lo scrittore che può solo dare un nome alle cose sperando che i lettori lo utilizzino, l’ignoranza (e qui sono tornata ad uno dei temi del primo incontro) che impedisce al cafone il riscatto dalla propria condizione: sono solo alcuni degli spunti che l’evento ha fornito. “Ci sono ancora i cafoni?” ha chiesto una signora a Donatella Di Pietrantonio. L’autrice ha raccontato di un suo recente incontro con due conterranei per i quali recarsi in ospedale è un compito al di là delle loro forze: sono analfabeti, parlano solo dialetto, dicono che non saprebbero come orientarsi. Siamo nel 2011, parliamo di digital divide e ci dimentichiamo che esistono ancora situazioni di questo tipo. Non sono tanto rare, sapete. Due anni fa è capitato anche a me, qui nel profondo evolutissimo nord. Ero stupefatta: quarantacinque anni, analfabeta, famiglia a carico, disoccupato. La sua storia non ve la so raccontare. Cosa questa incapacità comporti per lui invece sì: è completamente tagliato fuori dal mondo del lavoro, non solo dal mondo dell’informazione. Tanto vintage, Signora Ava non è.

E così al di là dell’incredibile ressa che assedia il centro di Mantova, del fatto che non mi spiego l’incoerenza tra i dati delle  statistiche che mostrano che in Italia non si legge mentre ieri facevo fatica a camminare tra la folla, della voglia che mi è venuta di chiedere a chi stipava i luoghi: “quanti libri leggete in un anno” per togliermi la curiosità, della sindrome da rigetto che arriva immancabile dopo una giornata così, del perchè in questo festival ci siano le folle sotto i tendoni mentre agli incontri con l’autore durante l’anno spesso ci stiano solo file di sedie vuote, delle polemiche sul si potrebbe fare questo e non quello che affliggono tutti gli eventi che in Italia qualcuno si prende la briga di organizzare, di alcune forme di idolatria reverenziale  e un poco ridicola nei confronti di certi autori, di quanto conti la capacità di saper trasmettere cultura per fare cultura, al di là di questo, dicevo, me ne sono tornata a casa ricordandomi, una volta di più, del perchè non posso fare a meno di perdermi in un buon libro, come scrive Jasper FForde.


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