Sabato mattina

Da Maddalena_pr

IL MONDO È ANCORA BUONO

Il sole addosso all’autunno, scova teste già fuori casa, ombre colano dai marciapiedi, il panettiere è già al secondo giro d’infornate, aromi si mescolano con l’odore del primo mattino.

Qualcuno dice “sai di essere madre quando andare dal droghiere da sola ti sembra vacanza.”
Invece ho chiuso il mio cappottino, stretto stretto, rasento il muro come una clandestina, inseguo la strada fin dove volta, poi un gomito di asfalto e infine la piazzetta: sto andando a fare gli esami del sangue. E non mi sembra affatto vacanza.

Dovrei concedermi la prospettiva svincolata da questioni di dovere, uscire un’alba, così, magari senza dire, chiudere la porta piano, la sua maniglia che segue il lembo delle mie braghe di pigiama, un paio di scarpe che allaccio fuori, sulle scale, e via.
Nella borsa che ondeggia appesa al pugno chiuso ho un cellulare spento, una bottiglia d’acqua, un libro per l’attesa, le impegnative. E il broncio nebuloso del digiuno.

Invece non leggo: prendo il numerino, lo rigiro nella mano libera, ho una signora davanti che sta per finire, mi fermo in piedi dietro la linea gialla. Non penso nemmeno. Sto lì come l’attaccapanni alla mia destra, un albero secco senza stagioni.
Dalla tromba sottile e umida delle scale arriva lo scampanellare di due bambine: il jingle di voci infantili, salgono, siedono sui genitori accomodati sulle sedie.

Sto già pagando il mio ticket, mi volto perché i bambini mi attraggono con forza magnetica: mi pescano dal mio fluttuare come esca sapiente. Chiamano il numero che segue il mio, una ragazza tirata a lucido che sembra aver sbagliato posto e ora: forse è così da ieri sera. Una più anziana con lei, credo la madre, domanda: Vuole passare lei, che ha le bambine?
Il mondo è ancora buono. Penso al piccolo gesto, alla cortesia che prende poco e dà tanto: darebbe il posto a quei genitori, se lo accettassero, ma dà anche spazio alle cose belle, al bello che siamo.

Mi infilo nella stanza dei prelievi, il profumo agrumato di un diffusore. Porgo il mio braccio forte, la vena chiara e in rilievo sull’arto destro, un breve ago nella sostanza. Di solito ti sciolgono il laccio, ti stringono il cotone idrofilo: “Tenga premuto, fra un minuto mette questo”, ti danno un cerotto Hansaplast in mano, insieme a un saluto faticoso e te ne vai.
Invece abbiamo speso due parole su quell’aroma – “pompelmo, forse” – tiene il suo pollice premuto e forte sulla mia piccola ferita e aspetta. Leva il cotone: “Provi a piegare. Vede? Esce ancora.”
E resta lì finché serve. Poi apre la busta del cerotto, lo scarta, lo adagia su quel neo rosso. Lui. Come fosse un padre.

E il mondo è ancora buono.