Sabra e Shatila: 30 anni dopo

Creato il 18 settembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Sono passati trent’anni da uno dei capitoli più neri del conflitto arabo-israeliano, da quello che fu definito dall’ONU un “atto di genocidio”: il massacro di Sabra e Shatila, campi profughi palestinesi devastati – ed i suoi abitanti assassinati – nel settembre del 1982 dalle milizie falangiste. Sullo sfondo la guerra civile in Libano, un Paese che trova nella divisione e frammentazione confessionale la sua connotazione peculiare, e che proprio a causa di essa, ha sempre costituito un campo di battaglia ideale entro i cui confini attori esterni hanno “misurato” la loro forza e promosso i loro interessi sostenendo l’una o l’altra fazione.

L’invasione israeliana: l’OLP lascia il Libano

Il 6 giugno del 1982 l’Israeli Defence Force (IDF) penetra in territorio libanese – lacerato da una guerra civile che durava dal 1975 – dando il via all’operazione Pace per la Galilea, con l’obiettivo di “porre l’intera popolazione civile della Galilea fuori dal tiro dei terroristi che hanno concentrato la loro base ed il loro quartier generale in Libano”. L’Operazione è il terminale di una precisa strategia militare che, dal gennaio del 1982, aveva visto l’elaborazione di ben tre piani diversi per invadere il paese confinante. In realtà l’idea di invadere il Libano, che a causa delle sue accese divisioni confessionali è sempre stato particolarmente vulnerabile e sensibile alle sovversioni dall’esterno1 – non era nuova nell’establishment israeliano. Già nel 1954 l’allora presidente Ben Gurion ed il capo di Stato maggiore Moshe Dayan individuavano tra le priorità della politica estera israeliana quello di fare pressioni sui cristiani maroniti, storici alleati e referenti israeliani sul territorio, per la proclamazione di uno Stato cristiano in Libano con l’aiuto di un’invasione israeliana2.

Da quel 6 giugno, per tutta l’estate, l’aviazione israeliana pose sotto assedio Beirut Ovest dove erano asserragliati i guerriglieri dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat che, dopo il “settembre nero” giordano del 19703, aveva stabilito in Libano il proprio quartier generale. A fare le spese di quell’immenso spiegamento di potenza militare e tecnologica – i bombardamenti furono assai frequenti e massicci – furono soprattutto i civili. “Corsi all’obitorio – ricorda il corrispondente di guerra Robert Fisk – braccia e gambe, a decine, erano accatastate contro la parete. Sul pavimento c’erano diversi neonati morti chiusi in sacchi di plastica, ben impacchettati, con il cellofan spillato sulle loro minuscole teste, come se dovessero essere rimandati in fabbrica per riparazioni. Sul vialetto c’erano pezzi di intestino umano. Qualcuno aveva tentato di rimettere insieme i corpi. Avevano trovato una gamba, un tronco, ma accanto al tronco c’erano tre braccia. Il pavimento era sdruccioloso e puzzava di budella. Un uomo con tre braccia, continuavo a ripetermi. Un uomo con tre braccia. Quella mattina qualcuno era riuscito a creare un uomo con tre braccia”4

Dinanzi a quell’immane spargimento di sangue, la diplomazia si mise in moto. Il 20 agosto il presidente statunitense Reagan annuncia la conclusione di un accordo – negoziato dall’inviato di origine araba Philip Habib – siglato tra l’OLP ed i governi di Libano, Israele, USA, Francia e Italia (queste ultime tre impegnate nell’ambito della Multinational Force – MNF – che sarebbe stata inviata in territorio libanese), concernente l’evacuazione dei guerriglieri palestinesi (e siriani) dalla capitale del Paese, ancora pesantemente sotto il fuoco israeliano. Il coinvolgimento della MNF fu proprio uno degli elementi chiave dell’accordo, e sui cui si fondava in buona parte il consenso manifestato da Arafat. Le forze di peace-keeping avrebbero ricoperto l’importante ruolo di sorvegliare le operazioni di departure ed avrebbero, inoltre, adempiuto ad “assicurare la sicurezza dei membri dell’OLP; proteggere altre persone presenti nell’area di Beirut (soprattutto i civili palestinesi dei campi profughi rimasti senza la “copertura” dei militanti dell’Organizzazione nda); e restaurare la sovranità del governo libanese su Beirut”5. Il governo di Washington rassicurò la leadership palestinese che Israele aveva dato la sua “parola d’onore” che non avrebbe approfittato del “vuoto di potere” per avanzare nelle sue posizioni. Così, 11.500 palestinesi e 2.700 siriani, sotto gli occhi dell’MNF, si ritirarono dal Libano, dopo due mesi e mezzo di assedio da parte dell’IDF. L’evacuazione si completò il 31 agosto6.

Soltanto ventiquattro ore dopo che gli ultimi guerriglieri avevano lasciato Beirut – seguiti, a distanza di qualche giorno, dai contingenti dell’MNF – il presidente statunitense lancia solennemente il nuovo “piano di pace” nordamericano. E’ il Piano Reagan del primo settembre 1982, che viene reso pubblico dagli studi televisivi della KNBC-TV di Burbank, in California. L’ennesimo tentativo caduto nel vuoto dell’intermediazione politica di Washington. In breve, la proposta reaganiana non prevedeva la formazione di uno Stato palestinese indipendente – in quel periodo era ancora viva l’opzione giordana, che verrà abbandonata definitivamente nel 1988, di un governo di coabitazione giordano-palestinese a Gaza ed in Cisgiordania – l’OLP, che nel 1974 alla Conferenza araba di Rabat era stata investita quale “unica e legittima rappresentante del popolo palestinese”, non viene ancora annoverata quale soggetto politico. Israele doveva congelare la costruzione dei propri insediamenti nella West Bank per un certo lasso di tempo, al fine di creare la giusta e reciproca fiducia tra le parti.

Il premier israeliano Menachem Begin rifiuta immediatamente il piano7. Per quanto riguarda i Paesi arabi, nel meeting tenutosi a Fes, in Marocco, propongono un “contro-piano”. Esso offre una differente prospettiva delle principali questioni rispetto al progetto nordamericano. Tra tutte, spicca la previsione di uno Stato palestinese indipendente, con l’OLP come unico e legittimo rappresentante. Nonostante persistano le consuete ed ataviche “distanze” tra le parti, tuttavia, la ragione che più di tutte, probabilmente, contribuisce al fallimento del piano si può individuare nella sottovalutazione, da parte di Reagan e dei suoi collaboratori, della “polveriera” libanese e della considerazione attribuita alla “parola d’onore” del loro alleato, Israele8. La nuova strategia, infatti, si fonda sull’assunto che le ostilità in Libano, con l’accordo raggiunto intorno al departure plan del 20 agosto ed il conseguente completamento dell’evacuazione dei guerriglieri dell’OLP, fossero ormai alle spalle. Lo stesso ritorno in patria delle forze dell’MNF, prematuro rispetto al mandato originario, si può considerare fondata su tale presupposto. La convinzione statunitense, e quella che sarebbe dovuta essere la premessa stessa del piano Reagan, viene spazzata via dagli avvenimenti delle settimane successive. Il 14 settembre, una bomba comandata a distanza esplode nel quartier generale del presidente libanese Bashir Gemayel a Beirut. Eletto il 23 agosto, comandante della milizia falangista cristiano-maronita sostenuta da Israele, Gemayel aveva fatto intendere in maniera inequivocabile che in Libano “c’era un popolo di troppo: il popolo palestinese”. Ancora, nei suoi rapporti con gli israeliani, non nascose che, una volta preso il potere, uno dei suoi obiettivi sarebbe stato quello di “eliminare il popolo palestinese”, anche se ciò avesse dovuto comportare il ricorso a “metodi aberranti contro i palestinesi in Libano”9. Poche ore dopo, il corpo senza vita del neo-presidente viene estratto dalle macerie dell’edificio. L’esercito israeliano invade Beirut ovest.

Orrore nei campi

E’ nel contesto di questa nuova penetrazione dell’esercito agli ordini del generale Eitan nella capitale e della caotica situazione interna, che si consuma, tra il 16 ed il 18 settembre, il massacro perpetrato dalle milizie falangiste di Elias Hobeika – con la complicità del maggiore cristiano-libanese Sa’d Haddad, fondatore dell’Esercito del Sud del Libano, alleato di Israele – nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, il tutto sotto lo sguardo consapevole dei soldati israeliani. “Lo sappiamo, non ci piace, ma non vogliamo interferire”, fu il messaggio del comandante di un battaglione dell’esercito israeliano ai suoi uomini dopo aver saputo che stavano massacrando i palestinesi. Alle 11.20 del 16 settembre – a poche ore dell’ingresso dei falangisti nei campi – gli israeliani dichiarano a mezzo stampa che “l’IDF controlla tutti i punti chiave di Beirut. I campi profughi che ospitano concentrazioni di terroristi sono stati accerchiati e circondati”. Questo ciò che emerge dalla testimonianza diretta di Robert Fisk: “Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola “episodio” in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra”10. Le vittime stimate di quello che l’Assemblea Generale dell’ONU definirà successivamente un “atto di genocidio” attraverso la risoluzione 37/123, varia, a seconda delle fonti, da 450 a 350011.

La reazione statunitense si concretizza nella decisione di inviare nuovamente proprie forze nell’ambito, ancora, della Multinational Force. Nell’imbarazzo dell’amministrazione nordamericana, il 29 settembre, 1200 soldati sbarcano per la seconda volta in Libano, certificando una condotta, quella adottata nei giorni precedenti, avventata nelle scelte, in cui i proclami e la pomposa quanto vuota coreografia allestita dalla diplomazia, come spesso accaduto nella politica mediorientale degli Stati Uniti, avevano percorso una corsia preferenziale rispetto ad una reale comprensione della realtà, in questo caso quella libanese. L’atteggiamento dell’alleato “disobbediente” – che non lesinò dure reazioni a Washington, tra cui quella dello stesso presidente Reagan – aveva giocato un ruolo fondamentale nei drammatici risvolti di quei giorni. Ma anche questo non costituiva una dinamica inedita nella storia del conflitto arabo-israeliano.

La Commissione Kahan

Il massacro e le immagini del cumulo di cadaveri di Sabra e Shatila provocarono sdegno e rabbia in tutto il mondo. I vertici politici e militari, a cominciare dal Primo ministro Menachem Begin ed il Ministro della Difesa Sharon, si trovarono sotto il fuoco incrociato delle critiche che provenivano dall’opinione pubblica internazionale, così come una vasta mobilitazione riempì le strade delle stesse città israeliane, in cui si chiedevano a gran voce le dimissioni dei responsabili, primo fra tutti proprio il capo dell’esecutivo. In questo clima, in cui la retorica dell’isolamento e dell’accerchiamento ridondava nelle dichiarazioni di Begin e Sharon, quale principale strumento di difesa dalle accuse, viene costituita, il 28 settembre – poco dopo che quattrocentomila persone erano scese in strada a Tel Aviv – la Commissione Kahan, ad oggi l’unica indagine ufficiale sui fatti. Si tratta di un organo di inchiesta israeliano “sugli eventi dei campi profughi a Beirut” presieduta dal presidente della Corte Suprema Yitzhak Kahan e completata dai giudici Aharon Barak e Yona Efrat. Dopo una serie di audizioni che coinvolsero membri dell’esercito, medici e i vertici politici e militari israeliani, nel febbraio del 1983 la Commissione rende pubblico il suo rapporto. Asse portante dell’intera struttura risiedeva nella distinzione tra responsabilità diretta ed indiretta. La prima ricadeva sulle milizie falangiste, che avevano valicato fisicamente l’ingresso dei campi e per quarantotto ore posto in essere un massacro di inenarrabile atrocità, non risparmiando donne e bambini perché “le donne incinte partoriranno terroristi e quando cresceranno i bambini diventeranno terroristi”, come argomentò un falangista all’equipaggio di un carro armato israeliano il 17 settembre del 1982. Per quanto riguarda Israele, secondo la Commissione, la sua responsabilità era solo indiretta, nel senso di non aver saputo prevedere le conseguenze che sarebbero scaturite dall’ingresso dei falangisti nei campi palestinesi, e per non essere intervenuti immediatamente nel momento in cui ciò che stava accadendo nei campi era evidente. Ma ciò che secondo la commissione costituiva un dato incontrovertibile era che in base alle testimonianze raccolte “l’etica di combattimento dei falangisti differisce notevolmente da quella dell’IDF”, isolando l’episodio del massacro, che pure giustificherebbe in modo assai parziale questa conclusione, senza considerare il contesto della guerra libanese in cui è stato perpetrato. “Il Rapporto Kahan – sottolinea il giornalista franco-israeliano Amon Kapeliouck – non chiude questa orribile vicenda. Tutti quelli direttamente responsabili devono essere puniti. E contrariamente a quanto afferma questo documento, non sono esclusivamente libanesi”12. Sharon fu ritenuto dai tre giudici personalmente responsabile per aver permesso ai miliziani di fare il loro ingresso nei campi e fu costretto a dimettersi. Nel 2001 diventerà Primo ministro d’Israele.


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