Era il fermento di giovani intellettuali, di squadre di ragazzi impegnati a garantire l’ordine. Ognuno aveva un compito: sorveglianza, organizzazione delle attività, volantini, comunicati per presidi e organi di stampa. L’entusiasmo e lo spirito d’iniziativa sembravano il segno di nuovi ideali che non avrebbero tardato a cambiare il mondo. Quasi ogni anno queste occupazioni si ripetono. C’è sempre una riforma dell’istruzione da contestare, un governo da criticare, una tassa da rifiutare. Qualche tempo fa, ebbi l’occasione di assistere di nuovo ad una di queste assemblee. Il clima era lo stesso. Grandi proclami, una certa confusione generale ma lo stesso fermento di idee. Chiedendo informazioni sui motivi delle occupazioni in corso in quei giorni all’università e nelle scuole fui aggiornato sui diritti da garantire e le libertà da riconquistare. Dietro a un piccolo banco, volenterosi e armati di kefiah intorno al collo, due ragazzi esponevano diversi libri, per lo più usati ma ricchi di tradizione.
“È un piccolo mercatino del libro”, mi dissero. “Serve per finanziare alcune piccole spese e far riscoprire tanti grandi pensatori”.
Ricordo ancora i titoli più in vista: Marx, Engels. C’era un’edizione del Compendio del Capitale di Carlo Cafiero. E poi I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, Il grande crollo di Galbraith, ma anche La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, Liberismo e liberalismo di Einaudi. Non mancava Max Weber e nemmeno Le conseguenze economiche della pace di Keynes. Lo studente, vedendomi incuriosito, mi spiegò che il loro tentativo era non solo quello di criticare ma anche di accrescere il potenziale intellettuale delle loro iniziative. Mi venne in mente allora un libro che non riuscivo a vedere. Chiesi informazioni.
“Avete il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini?”
“Non lo conosco”.
Il secondo studente aveva studiato, per un esame, un teorema sul comportamento dei prezzi dovuto al grande economista italiano ma non aveva mai sentito parlare di questo saggio. Eppure c’erano libri molto più complicati su quel banco. Libri pieni di filosofia, di concetti difficili, di formule e analisi storiche complesse.
Il Saggio sulle classi sociali è invece scritto con grande chiarezza e parla di una società ancora molto “vicina” a noi. La prima edizione, uscita presso Laterza, è del settembre 1974. Non ci sono formule sul plusvalore, programmi filosofico-politici su spettri vari che si aggirano per l’Europa. È scritto con la consapevolezza scientifica di un grande economista e parla della nostra società. Il linguaggio è diretto, accessibile e fa spesso riferimento a tabelle che raccolgono dati sulla disoccupazione, il reddito, la formazione scolastica e universitaria. Ma sono sempre riferimenti per illustrare una tesi o interpretare una situazione, mai teoria fine a se stessa. Per chi vuol cambiare il mondo armato di kefiah, dibattiti e assemblee un libro come questo dovrebbe essere manna dal cielo, un propellente per mettere in moto la mente e farla girare realizzando proposte, cambiamenti. Altre volte ho chiesto a persone di cultura medio-alta, escludendo ovviamente gli specialisti, se conoscevano questo libro. La risposta è stata quasi sempre negativa.
Mi sono chiesto se il motivo non andasse ricercato nel fatto che dall’anno della prima edizione tantissimi cambiamenti hanno stravolto la nostra società: dal 1974 a oggi il mondo ne ha viste di cose. Il terrorismo, le guerre, le crisi internazionali, la fine della contrapposizione est-ovest, l’undici settembre, la Prima e la Seconda repubblica.
Allora l’ho riletto e sono stato costretto a rispondere a me stesso che l’autore analizza una società molto diversa da un punto di vista sociale e culturale. Ma non ho potuto fare a meno di notare che l’analisi e la potenza critica di questo saggio conservano un’attualità imperiosa e straordinaria. Nell’introduzione l’autore fa subito un’illuminante dichiarazione di metodo:
«Lo studioso di discipline sociali nella sua attività intellettuale e politica è necessariamente condizionato dall’educazione che ha ricevuto, dall’ambiente dal quale proviene, dalle sue preferenze circa i movimenti della società in cui vive, in una parola dalla sua ideologia. Di ciò egli deve essere ben consapevole, proprio per ridurre le distorsioni che nelle sue analisi, addirittura nella scelta stessa dei rami da studiare, può provocare la sua ideologia. Lo studioso di discipline sociali che si crede orgogliosamente obiettivo, neutrale, fuori della mischia, è tutto sommato un personaggio patetico, perché è vittima di una ideologia senza saperlo e senza possibilità di contrastarne le pressioni».
Pensiamo a quanta straordinaria lucidità di analisi avremmo a disposizione se nella formazione delle nostre opinioni sul mondo in cui viviamo fossimo in grado di far nostro l’insegnamento espresso da queste parole. Sfogliando il libro, sono tante le analisi socio-economiche che colpiscono per la precisione con cui fotografano una situazione. Ad esempio, l’autore individua tre cause fondamentali per spiegare la crescita della piccola borghesia impiegatizia. In primo luogo il progresso tecnico e organizzativo ha portato ad una dimensione sempre maggiore delle imprese. Sono aumentati gli uffici per gestirle e sono di conseguenza aumentati gli apparati pubblici dello Stato che hanno dovuto occuparsi delle nuove imprese con varie attività di trasferimento. In secondo luogo molte imprese sono state salvate negli anni dall’intervento pubblico e i dipendenti, formalmente ancora lavoratori del settore privato, nella sostanza sono entrati nella sfera di una gestione statale. C’è poi un terzo motivo e vale la pena di citare letteralmente il testo.
«Un numero crescente di persone, che erano riuscite a conseguire un diploma o una laurea, poi sono riuscite a entrare nella burocrazia centrale o locale grazie a pressioni clientelari o politiche: non i funzionari a servizio del pubblico, ma il pubblico a servizio dei funzionari. In questi casi gli stipendi non sono altro che larvati sussidi di disoccupazione». Sono parole potenti e attualissime se pensiamo anche al dibattito di questi anni sugli insostenibili costi della politica e della pubblica amministrazione.
A proposito di questo argomento l’autore cita Adam Smith:
«Gli emolumenti dei funzionari sono forse, nella maggior parte dei paesi, più elevati di quanto occorrerebbe, poiché coloro che amministrano la cosa pubblica sono in generale inclini a remunerare se stessi e i loro immediati dipendenti piuttosto troppo che troppo poco». Tutto il saggio è una spietata fotografia della classe borghese con le sue sfaccettature e le diversità che la contraddistinguono. Più volte viene sollevato un problema culturale, prima ancora che economico o sociale.
«L’instabilità politica e la superficialità culturale che caratterizzano numerosi strati della piccola borghesia, insieme con l’acuto desiderio di sfuggire ad una vita mediocre e squallida e di emergere ad ogni costo, possono contribuire a spiegare i salti acrobatici compiuti da certi individui» da una parte politica all’altra. Tutto il libro mi appare di una lucidità impressionante. Mi viene in mente un discorso di Pasolini sull’omologazione di un nuovo fascismo.
Sylos Labini mette inoltre in evidenza che, al momento in cui scriveva, il problema politico centrale era costituito dall’ascesa della classe operaia, sempre meno subalterna in termini economici e intellettuali. Oggi, imparando dalla sua riflessione, forse, uno dei fondamentali problemi politici potrebbe essere individuato nell’esigenza di una classe media sempre più bisognosa di acquisire una reale e profonda coscienza critica e di non essere vista solo come collettore di consenso elettorale. Ma torno a pensare agli studenti dell’assemblea, quelli con kefiah e megafono.
Quanto è scomoda per loro una coscienza critica vera? Quanto è scomodo il Saggio sulle classi sociali. Forse sentire parlare di sé alla fine fa sempre un po’ male. Forse è più facile affidarsi ancora a Hegel, Marx e Marcuse.
Media: Scegli un punteggio12345 Nessun voto finora