Aspetto.Cose piccole, microscopiche, in questo post-cogitum in cui la pace dei sensi riesce ad occupare quasi tutto lo spazio che c'è.Quasi.E ancora rimango affascinata dalla millimetrica, silenziosa precisione con cui l'attesa smaglia i fili delle cose quando sono ancora nuove.Come con le calze.Il ginocchio si flette, la fibra si slabbra, il foro si allarga.Le notti si inseguono, il tempo si crepa, l'attesa si gonfia.L'hic et nunc ha la stessa pindarica consistenza del futuro.Non ce la si può fare, noi che funzioniamo a pile per un'ottantina d'anni, quando va bene.Si mangia la torta e si aspetta il caffè, la tazzina alla bocca e la sigaretta già scalpita, nicotina nei tubi e lo stomaco sogna di avere i piedi per potersi alleggerire.E la fascinosa prepotenza con cui l'attesa dà senso a quel che verrà, a volte, può respirare autonomamente, egocentricamente, nella masturbatoria e narcisistica soddisfazione di sé stessa.Può essere così dolorosamente piacevole qualcosa che ha a che fare con l'insicurezza, la mancanza, l'insoddisfazione, il bisogno?Avrei detto di no.Ma dove c'è una trama c'è un ordito, intessuto, questa volta, di possibilismo, speranza, sogni e preghiere.Il sottile logorio, l'insistenza piacevole di una carezza, l'elettricità, i nervi tesi un attimo prima di baciare qualcuno, l'apnea dei respiri e dei pensieri.Sa di tutte queste cose, l'aspettare.Credo sia la prima volta che realizzo la portata di questa parola.Improvvisamente, le sale d'attesa mi sembrano luoghi straordinari.
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