Buone prassi comunitarie per lo sviluppo della salute mentale
Simone Bruschetta, Raffaele Barone
“La salute mentale è un bene a rischio. La sua promozione e tutela richiedono una nuova generazione di interventi che sappiano coniugare strategie di sviluppo locale, coesione sociale, tutela e promozione dell’ambiente e che siano basati sul principio che le persone con bassa contrattualità sociale e i territori indeboliti ambientalmente e socialmente da forme critiche di sviluppo siano risorse da validare e da cui partire per definire un nuovo progetto di sviluppo sostenibile”.
Così si apriva “profeticamente” la Dichiarazione di Pratorotondo approvata dall’Airsam nel 1995, su proposta di Lucilla Frattura. Ma cosa si intende oggi per salute mentale, a distanza di quasi vent’anni da quel pionieristico documento? Come viene declinato e riconosciuto questo corpus di conoscenze teorico-cliniche innanzitutto dalle comunità professionali che vi si riconoscono? Come si rappresenta questa comunità professionale nel confronto con le altre che scambiano servizi e che animano percorsi di ricerca ad essa attigui? Ed infine, cosa ne pensano le numerose e sempre più vaste le comunità di stakeholder rappresentate dai pazienti, dai familiari, dai committenti, dai ricercatori, dagli amministratori, ecc.
Sembra infatti ormai chiaro che Salute Mentale non sia più sinonimo di Psichiatria tout court, e contemporaneamente inizia anche a diffondersi la consapevolezza che neanche le Aziende Sanitarie Pubbliche possano più essere considerate gli unici referenti amministrativo-professionali della “tutela” della salute mentale di un territorio e, men che meno, dello sviluppo della salute mentale di una comunità sociale.
Un nuovo assunto antropologico-culturale, che si sta ormai diffondendo anche attraverso ricerche empiriche sul campo e atti di indirizzo normativo, sostiene a proposito che la salute mentale si fonda su una serie di dinamiche relazionali e di campi mentali, solo alcuni dei quali possono essere considerati attivati e sostenuti da servizi professionali. La gran parte di queste dinamiche invece attengono a processi di scambio e di sostegno che coinvolgono reti sociali più intime, più solidali e più informali.
Alcune definizioni tratte dalla moderna teoresi sulle reti sociali.
Le reti di intimità, dette anche di prossimità, sono rappresentate da quei legami socio-relazionali che sostengono lo sviluppo degli affetti familiari e amicali. Le reti solidali sono quelle socio-tecniche costruite dagli stessi pazienti e dai loro familiari, e quelle socio-politiche che organizzano la società civile, la partecipazione politica e lo sviluppo culturale. Le reti informali infine sono costituite da quei legami socio-economici che tessono gli scambi di beni tangibili e intangibili di una comunità e che ne garantiscono la salvaguardia di beni comuni.
Da questa intrigata rete di relazioni, e dai campi mentali che esse sottendono, dipendono in gran parte le possibilità di promuovere la salute mentale nelle comunità di vita e di lavoro, di prevenire in esse le più gravi manifestazioni di disagio psichico, di promuovere la partecipazione e l’inclusione sociale e di attivare pratiche di recovery e percorsi di guarigione.
Un po’ di storia recente può farci orientare meglio!
Nel rapporto Nuova visione, nuove speranze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2001), la salute mentale veniva definita “uno stato di benessere nel quale il singolo è consapevole delle proprie capacità, sa affrontare le normali difficoltà della vita, sa lavorare in modo utile e produttivo ed è in grado di apportare un contributo alla propria comunità”. Ma già nel successivo Libro Verde (Eur. Com., 2005a), che la Commissione Europea ha redatto su indicazione dell’OMS nel 2005, si propone un approccio bio-psico-sociale alla salute mentale e visione community based, e si fornisce una nozione di salute mentale fondata sul rapporto individuo-contesto, in particolare sulle relazioni tra la salute mentale dei cittadini e quella della società nel suo complesso. La relazione individuo-contesto si fonda sulle seguenti definizioni di salute mentale.
“Per i cittadini la salute mentale è una risorsa che consente di conoscere il proprio potenziale emotivo e intellettuale, nonché di trovare e realizzare il proprio ruolo nella società, nella scuola e nella vita lavorativa” (Eur. Com., 2005a).
“Per le società una buona salute mentale contribuisce alla prosperità, alla solidarietà e alla giustizia sociale. Le patologie mentali al contrario comportano molteplici costi, perdite e oneri per i cittadini e la società”. (Eur. Com., 2005a)
La definizione salute mentale del Libro Verde ci spinge quindi ad interrogarci, a quale soggettività, e quindi a quale campo mentale, tale concetto si applica. La salute mentale, come sappiamo, può appartenere ad un individuo; ma anche ad un gruppo umano come la famiglia; ad altri gruppi sociali più o meno spontaneamente costituiti; ad agenzie sociali più grandi come le organizzazioni di lavoro rappresentate da associazioni, cooperative o aziende; ma appartiene anche alle comunità sociali. Anzi, la salute mentale di una specifica comunità sociale indica proprio il livello di benessere relazionale, di sviluppo culturale, ma anche i sentimenti di coesione, di appartenenza e di libertà dei suoi membri. Essa rappresenta quindi un fattore di sostegno allo sviluppo del sentimento identitario dei singoli individui ed un possibile fattore di sostegno al superamento delle loro crisi esistenziali ed evolutive.
Per questo motivo la Dichiarazione sulla salute mentale per l’Europa, con la quale la WHO, (2005a) istituisce la commissione di lavoro del Libro Verde, propone interventi community based volti a:
a) “migliorare la coerenza degli interventi nel settore sanitario e tra questo settore ed i settori non sanitari, primi fra tutti i settori economico, sociale, educativo, produttivo, giudiziario e penale” (WHO, 2005a);
b) “promuovere la partecipazione di un’ampia gamma di persone, agenzie ed istituzioni interessate alla ricerca di soluzioni, soprattutto fra le organizzazioni dei pazienti e la comunità dei ricercatori” (WHO, 2005a).
Importanza programmatica assumono quindi, non soltanto il miglioramento della qualità della vita dei cittadini, ma anche lo sviluppo sociale, economico e culturale dei territori nel loro complesso.
In quest’ottica, la promozione della salute mentale prevede di incentrare l’attenzione sui gruppi sociali più vulnerabili, sulle fasce di popolazione più svantaggiata e più a rischio di emarginazione, veicolando un lavoro clinico-sociale volto a promuovere:
a) l’inclusione e la partecipazione sociale delle persone affette da patologia mentale, affinché lo stigma ed i pregiudizi non facciano diminuire l’efficacia delle loro richieste di aiuto ai servizi sanitari,
b) delle azioni di tutela, dei loro diritti fondamentali e della loro dignità, portate avanti insieme agli stessi servizi che li hanno in carico.
Questo nuovo punto di vista prevede inoltre che le azioni di tutela del diritto alla salute mentale dei cittadini, ma anche di tutti gli altri diritti civili, vengano programmate e realizzate attraverso la partecipazione diretta degli stessi utenti e di tutti gli altri portatori di interessi; a cominciare dalla gestione dei servizi e delle agenzie che operano sul bene comune salute mentale. Sembra infatti ormai chiaro come questo bene, tanto intangibile dal punto di vista della sua quantificazione economica, rappresenti in realtà una variabile pesante dal punto di vista dello sviluppo, anche economico, di tutte le comunità sociali ed i gruppi umani.
Non è un caso infine che l’azione politica sullo sviluppo amministrativo delle aziende sanitarie abbia incrociato la ricerca teorica economica sui beni collettivi portata avanti dagli economisti e quella clinica, portata avanti oltre che dagli operatori sanitari anche dagli stessi pazienti, ad esempio attraverso il movimento della recovery per quanto riguarda la guarigione dalla grave patologia mentale e la ricerca user-led.
La salute mentale come bene comune
A proposito di diritti civili come l’uguaglianza e le pari opportunità!
Nel 2009 il Premio Nobel per l’Economia è stato assegnato, per la prima volta, ad una donna, Elinor Ostrom. Questo riconoscimento le è stato dato per i suoi contributi allo sviluppo di una specifica metodologia inter- trans- e multi-disciplinare nelle pratiche di gestione dei cosiddetti beni comuni o collettivi.
In genere con il termine bene comune si intende una bene di proprietà di una comunità o del quale la comunità può liberamente disporre. Ci si riferisce in questi casi ai commons goods della tradizione giuridica anglosassone, come i boschi, le montagne, gli oceani, ma anche le falde acquifere, l’atmosfera, l’etere, ecc. Ostrom (1990) fornisce invece una definizione più problematica in quanto intende per bene comune una risorsa condivisa da un gruppo di persone e soggetta a dilemmi sociali, ossia interrogativi, controversie, dubbi, dispute, mai risolvibili a priori o definitivamente, che possono essere affrontati solo attraverso buone strategie di gestione collaborativa. Solo questo tipo di gestione comunitaria può evitare sia lo sfruttamento eccessivo dei beni comuni (concezione privatistica), sia costi amministrativi troppo elevati (concezione pubblicistica). In questa nuova definizione di bene comune rientrano così concetti come quello di clima, di ambiente, di sistema, ecc., e vi svolge un ruolo fondamentale la gestione politica, prima ancora che economica, del bene stesso; il quale esiste solo in quanto appartenente ad una collettività che ne può legittimamente disporre.
L’edificio concettuale di Ostrom poggia sul fondamento della distinzione tra bene comune inteso come “res communis omnium” e bene comune inteso come “res nullius”. Nel primo caso, esistono confini chiaramente definiti dello spazio collettivo e della comunità titolare dei diritti di proprietà o di uso. Nel secondo caso siamo in assenza di una entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi. A fare la differenza è quindi l’esistenza di una comunità, l’appartenenza che impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune (a livello individuale o operazionali), ma anche determinati doveri (livello collettivo o di amministrazione) di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione; sanzionati dalla comunità stessa attraverso l’inclusione di chi ne rispetta le regole e l’esclusione di chi non le rispetta. In particolare, Ostrom inserendosi nell’ampio dibattito in merito allo sfruttamento delle risorse naturali, sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché la gestione comunitaria delle risorse appartenenti ad soggetti collettivi, possa rimanere sostenibile a lungo termine; riconoscendo l’importanza della polis, intesa come il luogo fisico e mentale della mediazione tra legittimi interessi contrapposti, della democrazia partecipativa, intesa come la forma di governo che meglio possa garanti i diritti di cittadinanza, della società civile organizzata, intesa come dimensione partecipativa degli individui ai processi di sviluppo sociale, e delle regole condivise e rispettate in quanto percepite come giuste, e non per un calcolo di convenienza privatistica.
Pertanto, sul piano della ideazione e dell’implementazione delle politiche pubbliche di gestione dei processi economici socialmente ed ecologicamente sostenibili, l’apporto degli strumenti analitici elaborati da Ostrom (2005) rappresenta anche un invito alla conoscenza ed alla comprensione politico-antropologica degli assetti fondiari delle risorse economiche collettive. Il lavoro di Ostrom trova inoltre punti di contatto epistemologico con la teoria dei giochi (von Neumann, Morgenstern, 1947). In particolare con quei filoni di ricerca che attraverso il concetto di gioco ripetuto mostrano come gli esiti distruttivi e socialmente non ottimali possano essere evitati se, nella ripetizione del gioco gli attori “scoprono” il vantaggio di comportamenti cooperativi, i quali possono così assumere la funzione empirica, e dopo anche la forma codificata, di vere e proprie istituzioni operative (“equilibri di Nash” e giochi non-cooperativi – Nash, 1951 -, di cui la stessa “tragedy of the commons” è un esempio – Hardin, 1968).
L’applicazione del modello teorico del “bene comune” alla cultura ed alla salute, assume a questo punto un quadro rivoluzionario, soprattutto rispetto alla governance di tutte quelle agenzie sociali deputate ad operare nel campo delle conoscenze condivise e del benessere collettivo (Hess, Ostrom, 2006). In quest’ottica, i servizi sanitari vanno considerati come agenzie sociali che co-gestiscono comunitariamente il bene comune “salute”, all’interno di un quadro funzionale del tutto diverso sia dal modello della gestione privatistica, sia da quello della gestione pubblica. Il fine comunitario in questo caso non è il profitto, ma un utilizzo condiviso del bene che ne preservi nel tempo la disponibilità a tutta la popolazione e la sua funzione antropologico-sociale nell’evoluzione delle forme simboliche e materiali di convivenza.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità(CDSH, 2008), ad esempio, ha ben descritto i limiti della gestione privata della sanità attraverso lo studio delle speranze di vita in buona salute della popolazione (statistiche DALY, WHO, 2001 ). Da uno studio sui sistemi sanitari di tutto il mondo si è infatti dimostrata una chiara correlazione tra due variabili fondamentali: all’aumentare della quota di spesa sanitaria privata sulla spesa totale del sistema sanitario locale, diminuisce la speranza di vita in buona salute della popolazione.
Del pari, in un documento parallelo la WHO (2008b) rivela come la gestione pubblica dei servizi sanitari, oltre ad elevare al massimo i costi amministrativi, a causa del meccanismo della delega all’interno della rappresentanza istituzionale, rischia costantemente di smarrire i suoi fini ufficiali fissati istituzionalmente, come l’equità nella salute, la comunità del benessere e la centratura sui bisogni della popolazione; perseguendo invece interventi ospedalocentrici, frammentati e sempre più influenzati da politiche commerciali.
Risulta quindi evidente come la salute non possa essere correttamente amministrata né come bene pubblico, né come bene privato. Essa va considerata un bene comune, in quanto appartenete a tutti; a differenza dei beni privati che possono anche appartenere ad una sola persona e quindi avere un proprietario, o dei beni pubblici che invece non hanno alcun proprietario e quindi sono a rischio di non appartenere a nessuno.
Secondo l’impostazione economica pubblicistica infatti, se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una tendenza a sovrasfruttarlo (Hardin, 1968). L’individuo che si appropria del bene comune, deteriorandolo, gode per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo (in quanto questo costo verrà socializzato). Se tutti, per un effetto imitativo e conformistico, ragionano nello stesso modo, il risultato è allora il saccheggio del bene pubblico. Analogamente, nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il bene pubblico, poiché sosterrebbe privatamente un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi che in parte.
Analogamente dal punto di vista delle relazioni interpersonali risulta chiaro che la salute non può essere un bene privato, poiché la sua promozione o il suo depauperamento, in un suo ipotetico proprietario, non è una variabile indipendente dalle condizioni di salute degli altri che condividono con esso i contesti socio-ambientali di vita e le reti di relazioni interpersonali. Ma contemporaneamente non è neanche possibile considerare la salute una variabile completamente dipendente dalle condizioni esterne all’individuo, proprio per l’imponderabile range di possibilità rappresentate da tutti quei fattori intrinseci alla soggettività umana. L’influenza delle differenze individuali nelle possibilità di ammalarsi, e delle motivazioni personali nelle possibilità di guarigione, hanno ricevuto ormai conferme scientifiche pressoché definitive.
Come afferma quindi la Commissione sui Determinanti Sociali della Salute della WHO (2008a) “… l’assistenza sanitaria non è una merce del mercato ma un bene comune.”; e lo stesso vale per il bene comune che oggi possiamo identificare nel concetto di “conoscenza” (Hess, Ostrom, 2009).
A maggior ragione allora, anche la Salute Mentale va considerata un bene comune, proprio per la sua caratteristica, intrinsecamente comunitaria, di non poter mai appartenere definitivamente ad un singolo individuo, senza esserlo contemporaneamente anche di almeno una collettività, per quanto piccola o grande che sia. Ciò ha una ulteriore ricaduta rivoluzionaria tanto sulle metodologie di amministrazione economica del bene, quanto su quelle del suo trattamento clinico.
L’utilitarismo ed il monetarismo, fenomeni tipici delle società economicamente avanzate, e l’epistemologia positivista che sorregge gli ideali moderni della ragione e della tecnica anche in medicina, non considerano che la Salute Mentale, proprio per il suo essere bene comune, non può essere depersonalizzata, né tanto meno delocalizzata, per essere considerata un bene-prodotto delle istituzioni sanitarie, una sorta di materia prima commercializzabile o monetizzabile, come un oggetto che può avere un prezzo, un prodotto industriale o una unità di ricchezza astratta. La Salute Mentale non può neanche essere mai completamente positivizzata e assolutizzata, per essere considerata un bene-razionale degli esseri umani, come una sorta di indice di benessere valutabile e incrementabile attraverso procedure logico-empiriche, o come una sorta di indice di valore da dare alla qualità della vita e della persona che ne è portatrice.
La critica sociale di tradizione marxiana ha scoperto, nella distribuzione della salute e durante il suo processo di produzione, un meccanismo psicologico molto simile a quello della distribuzione della ricchezza nell’ambito della produzione industriale. Nelle società occidentali infatti la distribuzione della ricchezza e quella della salute di fondano su una dinamica di potere essenzialmente economico, attraverso la quale una parte del bene viene strappata agli individui e trasferita altrove tramite reti istituzionali; in modo che tali risorse si accumulano su altre persone che in tal modo appaiono più potenti, più sane e quindi più ricche (Hinshelwood, 1983). Se il paradigma monetarista prevede l’assegnazione di un valore supremo alla quantità di un bene e quindi alla sua possibilità di essere scambiato sul mercato in un’ottica di competizione commerciale, allora l’assegnazione di un valore economico alla salute è assolutamente in contrasto con la mission e con la stessa funzione antropologica delle istituzioni sanitarie, in quanto crea un incolmabile iato tra il modello della sopravvivenza del più forte, insito nel paradigma monetarista, ed il sostegno alla possibilità della sopravvivenza del più debole e quindi del meno sano.
L’epistemologia naturale ha inoltre riconosciuto caratteristiche di ipercomplessità nella definizione dello stesso concetto di salute per l’essere umano; il quale si arricchisce dei fenomeni indispensabili del disordine e della malattia, come fattori intrinseci della condizione di salute stessa (Morin, 1973). La follia e la demenza, così come le esperienze ed i processi mentali patologici, gli errori e i deliri, le ferite e le cicatrici, le virtualità potenziali e gli handicap costituzionali, l’incertezza e il fallimento, fanno parte integrante dei fattori che contribuiscono alla costituzione del concetto di Salute Mentale. I processi psicodinamici che determinano le condizioni di salute mentale sono infatti in gran parte inconsci agli stessi individui e si alimentano di relazioni tra parti diverse della personalità di ciascuno degli individui coinvolti collettivamente, al punto da far diventare impossibile la distinzione tra relazioni sane e relazioni malate, tra vincoli e possibilità. Il lavoro clinico assume così non più una funzione di normalizzazione del disordine, ma una funzione di rivelazione dell’ordine che determina le posizioni di potere nelle relazioni intra- , inter- e trans-personali. Una funzione sovversiva dei rapporti di potere, una funzione che sta alla base dello stesso concetto di empowerment.
Tracce possibili di buone prassi gestionali
Le regole di buona gestione dei beni comuni emerse dagli studi economici, condotti da Ostrom sui contesti nei quali è avvenuta la distruzione del bene per eccesso di utilizzazione dei singoli membri della comunità e da quelli sui contesti in cui il bene è stato salvaguardato e valorizzato, hanno una funzione euristica importantissima per la ricerca e lo sviluppo di nuove prassi di governance della salute mentale di comunità orientate tanto allo sviluppo locale quanto alla promozione dell’empowerment e della recovery. Da tali studi discendono cinque principi metodologici che possono così essere declinati in funzione dello sviluppo di un sistema di gestione collettiva dei processi biologici, psicologici, sociali, economici e culturali che attraversano le istituzioni deputate alla tutela della salute mentale:
- È necessario sviluppare una pratica politica partecipativa che permetta una chiara e condivisa definizione delle possibilità e dei limiti di utilizzo del bene salute mentale, a cominciare dai confini amministrativi della comunità sociale, continuando per le risorse disponibili e necessarie per le gestione del bene “salute mentale”, e per finire con le finalità e gli obiettivi di tale gestione (mission) in rapporto alla funzione che il bene “salute mentale” svolge nella comunità sociale (vision).
- Gli obiettivi di tale gestione determinano lo sviluppo di un processo collettivo di governance, che solleva inevitabilmente, questioni etiche, dilemmi sociali ed incertezza organizzativa, e che quindi non può che essere fondato su un sistema di regole che devono essere costantemente riviste e rimodellate per adeguarle alle esigenze ed alle condizioni della comunità locale ed ai servizi che essa di volta in volta attiva per la gestione del bene in oggetto.
- Tutti gli attori ed i portatori di interesse tenuti a rispettare queste regole, devono sempre poter partecipare alla modifica delle stesse e condividere la consapevolezza che non esiste la regola perfetta che scioglie tutti i dilemmi sociali che si nascondono dietro le procedure gestionali del bene. Essi formano una comunità sociale con una autonomia speciale nello stabilire le proprie regole, la cui identità e la cui modalità di collaborazione sono da tutelare attraverso la cura di adeguate procedure interne e da promuovere verso le autorità esterne.
- Deve esistere un sistema in grado di auto-monitorare il comportamento dei membri di questa comunità sociale in modo trasparente, ma anche eticamente e scientificamente corretto; al fine di trasferire tale conoscenza in maniera efficace a tutti i membri della comunità. Nella gestione di questo sistema noetico i membri della comunità possono facilmente intervenire ampliando e approfondendo le aree di incertezza, desaturando costantemente le conoscenze acquisite per aprire sempre nuove questioni e nuovi dilemmi.
- Deve operare un sistema di sanzioni progressive, contro la trasgressione del sistema di regole, a protezione del bene in oggetto, ma anche in funzione del riconoscimento dei bisogni sottostanti tale trasgressione e dei diversi significati che questa acquisisce. Nella gestione di questo sistema di sanzioni i membri della comunità devono avere facilmente accesso a meccanismi a basso costo di risoluzione dei conflitti.
Queste regole fanno in modo che tutti i membri della comunità possono collocarsi mentalmente all’interno del sistema di costruzione sociale e materiale del bene “salute mentale” e contemporaneamente all’interno dei servizi e della rete delle risorse necessarie alla sua salvaguardia e alla sua valorizzazione; scoprendosi appartenere più intimamente alle loro stesse comunità di vita e di lavoro, acquisendo nuove modalità di partecipazione al bene comune “salute mentale” e sviluppando sempre nuovi linguaggi che permettano di rivendicare la loro competenza sul sistema gestionale dei servizi ed il loro legame personale con l’insieme di risorse del sistema stesso.
Tutti i più recenti atti normativi nel campo della salute mentale, a cominciare ad esempio dalle Linee di indirizzo nazionali sulla salute mentale in Italia, formulate nel 2008 dal Ministero della Salute, fanno proprie suddette analisi, e collocano sul piano delle comunità locali il campo di intervento delle pratiche di salute mentale. Le prassi che propongono sono tutte centrate su strumenti in grado di reggere l’impatto delle dinamiche istituzionali nella programmazione degli interventi sanitari. Strumento principe è in questo caso quello indicato della Linee di indirizzo suddette, e cioè il cosiddetto Piano di azione locale per la salute mentale (il cd. PAL), da costruire secondo una metodologia partecipativa, gruppale e comunitaria, grazie agli apporti non solo dell’Azienda Sanitaria Locale, ma anche di tutti i soggetti e le agenzie sociali portatori di interesse, primi fra tutti gli enti locali ed il privato sociale, ma anche le associazioni degli utenti e dei familiari.
Il Piano di azione locale per la salute mentale in Italia inoltre si articola programmaticamente con lo strumento sociale per eccellenza, introdotto dalla Legge di integrazione socio-sanitaria n. 328 del 2000: il Piano di zona distrettuale (il cd. PdZ). Il distretto socio-sanitario locale, come politicamente ed amministrativamente definito, viene così a ridefinirsi come il campo d’azione fondamentale di una pratica di salute mentale realmente partecipata e partecipativa, in grado di salvaguardare e sviluppare il bene comune salute mentale.
Si propone così un nuovo sistema di regole e di servizi che faccia della reciprocità, tra società civile e istituzioni amministrative, la cornice metodologica su cui, a partire dal livello distrettuale, attivare una gestione “comune” della salute mentale della comunità; mettendo in campo i poteri decisionali dei cittadini a monte (scelta delle priorità) ed a valle (valutazione in regime di terzietà della qualità, degli esiti e dei processi).
Il superamento delle difficoltà che oggi ad esempio incontrano i Dsm nel riconoscere e definire comunitariamente la propria mission dovrebbe quindi passare attraverso una forte interlocuzione con il Distretto socio-sanitario e con il contesto sociale, per re-interpretare costantemente il mandato istituzionale e le sue nuove formulazioni istituzionali, ma anche per ricercare e analizzare tutti quei dati, quantitativi e qualitativi, utili ad individuare sempre meglio le problematiche sulle quali intervenire e come effettivamente operare ( Marco D’Alema, 2010).
La mission del Dsm si realizza cioè attraverso la tessitura di una rete di agenzie pubbliche e private, sanitarie e sociali, economiche e culturali, che imparino a dialogare tra loro e con le comunità di riferimento, attraverso pratiche bottom-up di concertazione. “Il Dsm va inteso quindi come il luogo fisico, mentale, programmatico e organizzativo, attraverso cui il Distretto socio-sanitario e la comunità locale di riferimento possano pensare la salute mentale” (Barone, Bellia, Bruschetta, 2010).
Il processo richiede la compartecipazione attiva e responsabile dei servizi pubblici, della cooperazione sociale, del mondo imprenditoriale, delle associazioni dei familiari e degli utenti, dei servizi sociali degli Enti locali, degli operatori della giustizia, del mondo del lavoro, di quello sindacale, dell’arcipelago associativo, ricreativo, culturale, di tutti i soggetti, insomma, che nella comunità locale operano, sia formalmente che informalmente.
La Legge di integrazione socio-sanitaria (328/2000) che ha istituito il gruppo di lavoro per la valutazione, la progettazione e il monitoraggio del piano territoriale di coordinamento dei servizi socio-sanitari detto Piano di zona, riconosce infatti al Dsm, in sincronia con le indicazione delle Linee di indirizzo per la salute mentale in Italia, la competenza territoriale per l’attivazione di un tavolo di concertazione locale con le agenzie sociali coinvolte nella sua redazione, al fine di elaborare il complementare Piano da azione locale per la salute mentale, integrato anche con gli altri eventuali Piani strategici per lo sviluppo delle città e delle comunità urbane più complesse.
È quindi responsabilità istituzionale del Dsm la promozione di una specifica modalità di lavoro gruppale-comunitaria che preveda la definizione delle scelte prioritarie per la gestione di un budget distrettuale, descritto in termini di risorse locali disponibili e necessarie. Gli Enti locali, in particolare i Comuni, sono partner fondamentali del Dsm in questo lavoro, come conferma tutta la legislazione sociale italiana.
I Comuni, attraverso le loro unità operative dedicate ai servizi alla persona, si interconnettono ad una rete di agenzie sociali, della quale il Dsm rappresenta solo uno dei nodi, composta soprattutto dai servizi di tutela, cura ed istruzione dell’infanzia (tra cui il Tribunale per i minori, le unità operative di Neuropsichiatria infantile e le scuole), dalle associazioni di volontari, familiari e pazienti e dalle imprese sociali, al fine di promuovere interventi di prevenzione e cura del disagio mentale mirati sui bisogni specifici della comunità sociale di propria competenza amministrativa.
L’impresa sociale, in particolare nella forma della società cooperativa, si è ormai molto sviluppata nel settore dei servizi alla persona in generale ed in quello della salute mentale in particolare. Essa ad esempio rappresenta oggi il partner privilegiato dei Comuni e dei Dsm per il trattamento della grave patologia mentale. In numero di operatori che la cooperazione sociale mette sul campo per l’attivazione delle varie tipologie di dispositivi di sostegno all’abitare o di sostegno all’impiego per i cittadini con grave disagio mentale, risulta di gran lunga superiore a quello dei dipendenti di ogni singolo Dsm nel suo complesso. Naturalmente sussiste il rischio che la cooperazione sociale esasperi la propria valenza imprenditoriale, o al contrario rafforzi una mentalità assistenzialista, a discapito di quegli aspetti della propria mission, molto complessa, che riguardano la mutualità, la solidarietà, lo sviluppo delle persone e del contesto locale. Le interconnessioni con i Comuni e soprattutto la concertazione governata dal Dsm dovrebbe mitigare e bilanciare questi rischi.
La principale funzione dei servizi aziendali e dei livelli di supporto distrettuale dei Dsm, ma anche di ogni altra agenzia sociale che si attribuisce una mission di sviluppo locale, dovrebbe essere quindi quella di sostenere la “meta-organizzazione” (secondo i cinque principi sopra indicati) delle condizioni attraverso le quali i diversi attori del sistema possono lavorare bene, sostenendo il lavoro di rete, la formazione professionale, la ricerca empirica, la partecipazione gestionale, l’inclusione sociale e il coinvolgimento di operatori, utenti, stakeholder e cittadini in genere, nei processi culturali di creazione di significato e di immaginario condivisi sulla salute mentale comunitaria. Il bene collettivo “salute mentale” può così essere considerato il vero e proprio capitale sociale, o capitale umano locale comunitario.
La salute mentale di comunità
Quando ci riferiamo ad un ambito territoriale politicamente o culturalmente delimitato, come una città, un quartiere della stessa, o un qualsiasi altro contesto ambientale di convivenza socio-politica, allora il concetto di Comunità Locale ci aiuta ad identificare lo spazio mentale e relazionale in cui andare a valutare la qualità ed il livello di salute mentale che lo caratterizzano.
I referenti scientifico-professionali di quella che ormai si identifica come salute mentale di comunità non possono più essere soltanto operatori sanitari, ma professionisti in grado di operare su più complesse dinamiche di tipo comunitario.
La comunità locale rappresenta infatti il contesto relazionale ed il campo mentale su cui intervenire con pratiche, di sviluppo sociale, di partecipazione politica, di benessere relazionale, di costruzione di significato e co-visione, attraverso le quali garantire la qualità della salute mentale di tutti i suoi membri e delle reti sociali che li attraversano. Tali pratiche possono quindi essere considerate come veri e propri interventi di psicoterapia di comunità; così intese perché migliorano la salute mentale di comunità attraverso l’azione di servizi professionali community focused (Barone, Bellia, Bruschetta, 2010).
I processi terapeutici comunitari si fondano infatti sull’attivazione di spazi mentali di transito ed interconnessione tra le culture, i gruppi sociali di appartenenze e le diverse generazioni, definititi, appunto, dispositivi terapeutici comunitari. Sulle dinamiche transculturali e transgenerazionali si basano i principali fattori terapeutici comunitari: sia quando i dispositivi utilizzati prevedono l’incontro reale di persone appartenenti a culture e generazioni diverse; sia quando prevedono la costruzione di reti e matrici, simboliche o materiali, su cui tessere nuove possibilità di relazione e di scambio sociale; sia infine quando prevedono la cura di campi mentali simbolo- e mito-poietici in grado di valorizzare il potenziale etico-politico della diversità e dell’alterità.
I professionisti direttamente collegati da questi dispositivi terapeutici comunitari, o più tecnicamente i “colleghi” degli psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, tradizionalmente considerati gli specialisti della salute mentale, dovranno essere quindi, sempre più, “altre” figure professionali, come i terapisti della riabilitazione, gli assistenti sociali e gli infermieri psichiatrici, e spesso anche poco definite istituzionalmente come ad esempio tutte le tipologie di operatori sociali (operatori di strada, mediatori linguistico-culturali, intermediatori sociali, animatori di comunità, counselor, arteterapeuti, operatori domiciliari e di quartiere, ecc.), ma anche gli educatori e gli insegnanti di sostegno nelle istituzioni scolastiche, i medici di base degli ambulatori e dei presidi sanitari pubblici, e in generale tutti i professionisti delle relazioni d’aiuto e dei servizi socio-sanitari alla persona, senza dimenticare il mondo del volontariato sociale, dell’associazionismo culturale e della cosiddetta società civile. A tutti questi professionisti vanno poi aggiunti quelli direttamente collegati, come dice il Libro Verde (OMS, 2005), a quell’ampia gamma di agenzie e istituzioni interessate alla ricerca di soluzioni al disagio mentale, collegati cioè ai settori non sanitari, primi fra tutti i settori economico, sociale, educativo, produttivo, giudiziario e penale.
La Psicoterapia Community Focused
La Psicoterapia di Comunità (Barone, Bellia, Bruschetta, 2010; 2011) si pone come obiettivo metodologico il mettere le persone in grado di affrontare assieme ad altri i propri problemi,ragionando, riflettendo ed operando conversazionalmente, facilitando lo stare assieme ancorché nell’incertezza e l’intraprendere assieme con fiducia reciproca. Pratica clinica, questa, in realtà già anticipata in senso gruppoanalitico nei termini di una “terapia sociale” (Foulkes, 1948; 1964; 1975), che può anche essere collegata ad una pratica sociale postmoderna meglio identificata oggi come “lavoro di rete” (Folgheraiter, 2004a; 2004b; 2006).
Le attività di gruppo di auto/mutuo aiuto tra pazienti con disagio psichico, ma non solo (Steinberg, 1997), così come i dispositivi di intervento psico-socio-economico fondati sul gruppo di Microcredito (Yunus, 1997) e sul Supported Employment (Wehman, Moon, 1988; Becker, Drake, 2003), rappresentano ad esempio una prassi clinico-sociale utilissima nel sostegno e nell’incoraggiamento alla riappropriazione del proprio progetto di vita, da parte di chi soffre; da intraprendere sempre in relazione ad altri individui che hanno la stessa necessità.
I programmi di sviluppo comunitario, come ad esempio i progetti di formazione psico-sociale o quelli di inclusione socio-lavorativa, come le comunità di vita e di lavoro rappresentate dalle cooperative sociali di tipo B e dalle Fattorie Sociali, dove le persone, pur con tutti i loro problemi, hanno voglia di fare qualcosa assieme non solo per se stessi ma anche per altri nella loro comunità, producono anch’essi pratiche di salute mentale, orientate allo sviluppo umano e sociale (Barone, Bruschetta, 2008b; 2010).
Queste pratiche si fondano infatti sulla dinamica della fiducia (Luhmann, 1968), cioè sul problema delle decisioni da prendere in un ambiente complesso e sul dramma del rischio e dell’incertezza cui espone la non familiarità ed il disadattamento a tale ambiente. L’insicurezza derivante da tale condizione di disagio, impone all’individuo la necessità di reperire un dispositivo di lavoro mentale, in grado di assorbire e rendere tollerabile l’incertezza e la complessità, vissute in termini di imprevedibilità ed aleatorietà dei cambiamenti, che rischiano di paralizzare l’agire.
I contesti sociali che possano fungere quindi da dispositivo di lavoro mentale che renda tollerabile la complessità, siano essi intesi come ambienti di vita familiare e professionale, sia come setting di lavoro psicologico e terapeutico, possono allora essere considerati dei veri e propri dispositivi di intervento comunitari (Barone, Bellia, Bruschetta, 2010) e rappresentano i contesti di lavoro metodologicamente previsti da tutti programmi di sviluppo locale.
I dispositivi di lavoro comunitario sono infatti in grado di sostenere emotivamente il bisogno e la disponibilità alla fiducia dei loro partecipanti, attraverso la co-costruzione e la condivisione di rappresentazioni mentali delle relazioni umane, focalizzate essenzialmente sul tempo presente (in quanto il tempo in cui si devono prendere le decisioni), e per questo in grado di anticipare nuovo futuro (il tempo in cui la fiducia si rappresenta come investimento a rischio) (Luhmann, 1968).
I dispositivi gruppali-comunitari per la grave patologia mentale diventano quindi uno snodo fondamentale nello sviluppo della comunità locale, in quanto essi ha la grande possibilità di influenzare attivamente lo sviluppo della cultura locale (stigma, inclusione, prevenzione e promozione della salute mentale di comunità).
Attraverso di essi è possibile sostenere una cultura del lavoro di rete al servizio dello sviluppo delle agenzie della comunità locale e dei processi di convivenza civile della popolazione (di cui il paziente e gli operatori fanno parte), e di sviluppare il Capitale Sociale (delle organizzazioni in cui pazienti e operatori vivono e lavorano e della comunità locale nel suo complesso) promuovendo gruppalità e progettualità sociale al servizio delle innovazioni terapeutiche e culturali.
Il movimento della Recovery
Diventa così fondamentale lavorare in un’ottica di “guarigione sociale”, al di là della totale remissione dei sintomi previsti dalla definizione di “guarigione clinica” prevista a lungo termine, si riferisce ad un arco di tempo diagnostico molto più breve (di solito definito 2 anni), all’interno del quale osservare i processi di ripresa o di recovery. Cioè l’acquisizione a tempo pieno o part-time, di uno stile di vita indipendente e senza assistenza caratterizzata da un soddisfacente numero di contatti sociali e relazioni amicali, la riassunzione di un sentimento di potere e controllo sulla propria vita e la ricostruzione di un’identità positiva, nonostante la malattia.
Il movimento del recovery, è diventato così una nuovissima tradizione di ricerca, sostenuta e partecipata dagli stessi pazienti che mira a ritarare su queste nuove acquisizioni empiriche, non soltanto le classiche ricerche sugli esiti, ma anche i dispositivi terapeutici ed i programmi di intervento clinici e sociali (Davidson et al., 2009). Da tale movimento è emerso il concetto di recovery personale, che non prevede necessariamente un ritorno a uno stato precedente alla malattia, ma piuttosto, il forgiarsi un nuovo modo di vivere sotto il proprio controllo, sulla base di un rinnovato senso di auto-efficacia. Recovery è quindi diventato il nome di un processo di guarigione dalla grave patologia mentale fondato sulla possibilità di superare il trauma della malattia, le conseguenze dei trattamenti e spesso dei mal-trattamenti, la perdita delle capacità e delle opportunità di accesso ad attività che hanno un significativo valore personale. L’auto-mutuo-aiuto e l’associazionismo partecipativo, sono diventate attività fondamentali non solo per confermare e/o recuperare reciprocamente l’autostima, ma anche per affermare il proprio diritto a partecipare alla costruzione degli stessei programmi di cura.
Dalla parte degli operatori ciò ha comportato una riflessione straordinaria sulla infusione, trasmissione e elaborazione della speranza di guarigione e/o di benessere come componente essenziale del processo terapeutico, ed ha richiesto un immane sforzo sistematico, ancora non concluso, sull’impostazione della cura basata sin dall’inizio sull’assunzione del rischio, piuttosto che il suo evitamento metodologico (Slade, 2009). Il diritto del paziente di sbagliare è quindi parte integrante del processo ed implica uno spostamento del focus dal modello di una malattia da curare a quello di una vita da vivere. Ciò rappresenta una vera e propria rivoluzione sia sul piano dell’organizzazione dei servizi, sia sul piano sociale, culturale, politico, attraverso la quale le persone con disturbi mentali rivendicheranno sempre più il proprio diritto a una piena cittadinanza, malgrado il persistere della patologia.
Essere in recovery indica quindi ciò che una persona con patologia mentale fa per gestire la sua malattia mentre
a) continua a perseguire i propri sogni e obiettivi
b) si costruisce o si ricostruisce una vita sicura, dignitosa, significativa nella comunità in cui decide di vivere
c) continua a occuparsi delle conseguenze di avere un disturbo mentale
Gli interventi clinici orientati alla recovery si basano a questo punto su ciò che i vari operatori della salute mentale possono offrire, attraverso i vari dispositivi attivati, a sostegno degli sforzi che già per conto proprio la persona fa per iniziare e portare avanti il suo percorso di recovery. I principali processi terapeutici saranno tutti fondati sul sostegno all’accesso delle persone a tutte le opportunità di vivere, lavorare e partecipare alla vita sociale, offrendo loro il supporto in vivo affinché possano approfittare al meglio di tali opportunità.
Il grande movimento internazionale fondato sulla recovery si richiama così esplicitamente ad una Salute Mentale Community Focused, nelle cui pratiche il sostegno più efficace è in fondo quello scambiato reciprocamente tra i pazienti (auto-mutuo-aiuto), sotto varie forme ed all’interno di diversi setting, che hanno così il fondamentalmente il compito di garantire al loro interno lo sviluppo di questa tipologia di relazioni di scambio.
I pazienti smettono così di essere “utenti” per essere “risorse”, e quindi contribuire alla co-costruzione degli interventi e dei dispositivi orientati sui loro valori e le loro necessità. Invece di “ricevere” soltanto, potranno anche “restituire”, in termini di energie, idee e sostegno.
Il prossimo futuro dei programmi di sviluppo locale comunitario prevedrà anche un ri-orientamento dell’organizzazione di tutti i servizi alla persona, non solo di quelle dalla salute mentale, al paradigma della recovery. A partire dalle funzioni cliniche ed amministrative che si occupano dei meccanismi di finanziamento, del monitoraggio degli esiti, delle misure di performance, nell’implementazione degli interventi, nella composizione degli organi gestionali.