Salvare il Rock in Italia? Ci Pensano i Blastema

Creato il 13 novembre 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Blast in inglese significa scoppio, esplosione, raffica. E i Blastema (nome che invece significa “germoglio” in greco) con Lo stato in cui sono stato, il loro secondo album uscito il 16 ottobre, hanno fatto il botto. Negli ultimi anni il quintetto di Forlì si è fatto apprezzare in maniera crescente nei circuiti indipendenti – anche grazie a performance live intense e travolgenti – e ha messo a punto una miscela di pezzi pronta a infiammare palchi sempre più importanti. Il sound energico, potente e raffinato dei Blastema è un rock che, soprattutto col nuovo lavoro, si mescola all’electro-rock: il gruppo ama utilizzare anche sintetizzatori e tastiere, pur mantenendosi fedele alla linea della melodia e dell’armonia. «È un disco che ci rappresenta in tutto e per tutto, una specie di superuomo bionico musicale», ha affermato il cantante Matteo Casadei. Il quintetto delle meraviglie è completato dal talentuoso chitarrista Alberto Nanni, a cui si deve anche l’ottimo lavoro di produzione dell’album, Michele Gavelli, che dona estro e precisione alle tastiere, e il cuore pulsante della sezione ritmica: Daniele Gambi (batteria e percussioni) e Luca Marchi (basso). Il cd appena pubblicato, disponibile anche negli store digitali, segue di due anni l’ottimo esordio Pensieri illuminati, del quale non si può non dire nulla. A parte consigliarne l’ascolto, è d’obbligo citare una canzone che è simbolo della perizia dei Blastema, tanto nella creazione di splendide melodie quanto nella scrittura di testi che svettano sulla stragrande maggioranza di quanto ascoltabile nelle produzioni italiane. Il brano s’intitola Paura mi fai: una ballata che è desiderio, è aspirazione, è mancanza, è invocazione, è timore, è preghiera, una preghiera tutta terrena, però. Cos’altro è la preghiera, in effetti, se non tutto quello che abbiamo appena elencato? E non serve neanche un dio in una ballata i cui versi sono un capolavoro di intertestualità in cui convergono Cappuccetto Rosso e il Padre Nostro, perché anche questo è possibile se l’amata diventa al contempo lupo famelico e divinità da invocare. Nelle liriche di Lo stato in cui sono stato scorgiamo la decostruzione e rielaborazione di miti e modelli della cultura moderna. Sono poesia e attualità trattate, filtrate e riproposte con guizzi arguti che destano sempre particolare attenzione e interesse. I testi dei Blastema si piazzano subito fra i più belli nell’attuale panorama italiano. E se possiamo già dirlo anche con solo due album all’attivo, vuol dire che qui la stoffa c’è davvero. Non è un caso, infatti, che la band abbia riscosso l’immediato entusiasmo di due addette ai lavori che con testi-poesie di altissimo livello convivono da sempre, dato che si chiamano Dori Ghezzi e Luvi De André, che ci hanno confermato: «È stato amore al primo ascolto». Ed è stato così che i Blastema, attivi già dal 1998, hanno pubblicato Lo stato in cui sono stato con la Nuvole Production, casa discografica di Fabrizio De André, ricevendo la piena fiducia di Dori e Luvi.

Arthur Rimbaud diceva: «Lavoro per rendermi veggente». E la band forlivese sa creare grandi canzoni, dalla poesia maledetta all’osservazione della realtà. Istinto, destino, necessità, hanno tramato insieme per darci la fortuna di ascoltare anche il loro secondo album, per il quale davvero si fatica a trovare parole riassuntive e sintetiche. Rock italiano figlio di una viscerale passione per la musica e per la vita, che viene osservata e trasfigurata in liriche potenti e immaginifiche, concrete ma anche eteree, decise e nette, oneste e uniche. Rock italiano frutto dell’ascolto di tanto rock americano sin dall’adolescenza, quando poi i Marlene Kuntz e gli Afterhours hanno indicato la via, segnando un’altra strada, una bella strada, che si poteva percorrere per andare dove i nostri connazionali difficilmente vanno. E, come suggerisce la celebre poesia di Robert Frost, la strada meno battuta è spesso la migliore. Su questa strada oggi troviamo i Blastema, che ci regalano un gioiello assoluto, capace di ergersi sull’italico panorama musicale che offre un mainstream agonizzante. Sarebbe il caso di non concludere il 2012 senza aver ascoltato questo disco, per me il più bell’album dell’anno. La sveglia arriva con Intro: sin dalla prima nota vieni colpito da un blast, appunto. E non è per giocare col titolo del disco che ti domandi: “Ma in che Stato mi trovo?”, perché non è l’Italia a cui si è abituati, il sound viene dall’altrove, è un’esplosione di fuoco e meraviglia, con la voce di Matteo Casadei che dà solo un assaggio di ciò di cui è capace. Un minuto e mezzo di Blastema “at full blast”, cioè a tutto volume. Se il buon disco si vede dalle prime note, già i primi secondi di questa Intro (è proprio il caso di dire, “breve ma intensa”) infondono molte speranze. Meno speranze appaiono nel testo, che ci dice che a te, caro povero mondo, resta solo da subire un’ecatombe, un’apocalisse palingenetica necessaria prima di poterti dichiarare guarito. Arriva subito Synthami, che già conoscevamo perché è il primo singolo che ha anticipato l’uscita dell’album. Elettronica, synth, bellissima chitarra che non tradisce le attese, e un cantato con un incedere ipnotico che procede quasi come una marcia e un po’ filastrocca, e non esce più dalla testa. E ciò è un bene, data la qualità del pezzo, sia per il tappeto sonoro che regge strofa e ritornello-ponte sia per la qualità del testo, che si appoggia alle assonanze e alla plurisemanticità della parola “stato”. Il tutto dosato con sapiente abilità e un velo ironico che rende ancora più acuta la consapevolezza di quanto si dice: «Anima mia non sei più tornata / te ne sei andata dallo stato in cui sono nato e che mi è costato quasi tutto».

Lo stato in questione è la condizione in cui ci si trova al termine della frequentazione di non precisate compagnie sintetiche. Da qui, ipotizzeresti che il titolo possa essere una crasi francese di “synthétique” + “ami” (amico) o un imperativo del neoconiato verbo “synthare” cioè rendere sintetico. Niente di così cervellotico: si tratta, come afferma Casadei, di «una semplice sostantivizzazione di “synth”. Un luogo immaginario dell’essere, dove ti svegli la mattina e dici: “Ma cosa è successo ieri sera? Dove sono stato?”, poi ti prendono e ti ributtano sulla strada e ti dici che devi andare avanti». E se anche voi, dopo due-tre ascolti, vi scoprirete a usare “santo Brufen” come nuova imprecazione quotidiana, tranquilli: siete sulla giusta via, la blastemite vi sta infettando il cuore. Segue l’altrettanto veloce Dopo il due, in cui svetta un’ottima costruzione melodica di Alberto Nanni, energica e in grado di far trasparire rabbia e forza vitale al contempo. L’ambientazione del brano sembra quella del video di Pure Morning dei Placebo, di cui ti sembra di vedere il protagonista intento a cantare, stavolta, la pena che prova per alcune categorie di soggetti finto-attoniti, i cui argomenti spaziano da «Nick Cave-Eraclito» agli «indici puntati contro di me / proprio me che non conto niente ma conterò fino a tre». È poi la volta di Miss Allegria, energia pura che scorre velocissima su un testo bilanciato da rapidi giochi di parole, cambiamenti di stato… d’animo e un’interessante sovrapposizione di voci distorte che recitano come da un megafono: «La base d’ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore. La sua vita oscilla quindi come un pendolo fra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi». Argomentazione tratta da Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, che introduce una condizione finale di illusoria assenza di dubbi. Con Tira fuori le spine la lacrimuccia è in agguato: ballata intensa e delicata, dove una voce cristallina e limpidissima canta un testo toccante. È il secondo singolo estratto dall’album, accompagnato da un video che merita di essere visto perché ha offerto anche alla stessa band una chiave di lettura nuova e totalizzante del brano. Il titolo è ormai un motto per i Blastema, che ci tengono a dirci che siamo una rosa che deve proteggere le proprie fragilità.

In Carmilla la melodia minimal, magnetica e ariosa, e la voce limpida e chiara contrastano con un testo cupo e velato da zone d’ombra. Nel ritornello sale la tensione con un bel dialogo fra Nanni alla chitarra e Gavelli al piano. Ma è sul finale che la prima prende il sopravvento, con una splendida coda che accompagna il “disvelamento” del titolo. Casadei propone infatti la vampira Carmilla, l’antesignana assoluta del genere, creata dall’irlandese Le Fanu ben prima del più famoso Dracula di Stoker. Carmilla è un brano di assoluta classe, che arricchisce ulteriormente l’album mostrando quanto i Blastema siano a proprio agio anche nelle più consistenti variazioni di stile e registro. Ne è la riprova la canzone successiva, la riuscitissima Caos 11, uno dei pezzi maggiormente vibranti di energia e fuoco. Anche qui la premiata ditta Nanni-Gavelli sfodera melodie che non vanno più via, sostenute da una sezione ritmica martellante con Gambi e Marchi in gran spolvero. Casadei irrompe con forza, sottolineando l’interessantissimo lavoro fatto per le liriche. In un brano che inevitabilmente porta alla mente la primavera araba, non riesci a toglierti dalla testa il richiamo nientemeno che alla Mattinata fiorentina di Rabagliati (sì, quello di «È primavera… svegliatevi bambine»), in un contesto di sicuro effetto. Lo abbiamo già detto che questi ragazzi hanno qualche marcia in più della media? Per non parlare del potere delle immagini evocate da Matteo, come i bimbi-soldato che marciano sotto mitragliatori più grossi di loro, che quindi fanno ombra. In un album così riuscito è difficile individuare un eventuale podio di brani. Di sicuro, però, ci sarebbe Quale amore, dove il quintetto di Forlì esplode letteralmente, in un incedere quasi alla Soundgarden che è un piacere riscontrare in una rock band che è assolutamente italiana. L’intensa ossessione del quasi-loop del testo fa il paio con un impianto melodico e una cavalcata sostenuta da un Nanni in gran forma, qui nelle vesti del miglior Tom Morello (RATM), ma suggerisce anche, per brevi tratti, e assieme all’ottimo lavoro di Gambi e Marchi, un’idea del mood di base che colora Bullet the Blue Sky degli U2. Magari sono echi solo immaginati, ma la ricchezza delle sfumature di questa canzone è direttamente proporzionale alla varietà di colori che Alberto sa dare alla sua chitarra e all’intero sound del gruppo.

In assoluto una delle più belle canzoni dei Blastema, Sole tu sei dovrebbe far innamorare chiunque, a partire dalla intro dai vaghi echi pinkfloydiani di One of These Days che poi si tuffano immediatamente nel vibrante corpo del brano. Qui comandano le percussioni pulsanti come un battito di cuore e il tappeto elettronico, con una chitarra davvero notevole, dal suono luminoso un po’ à la Edge, specialmente nel ritornello. Pregevole il lavoro di Daniele e Luca nella sezione ritmica, che sul finale lascia spazio a uno splendido duetto fra Alberto e Michele che con poche, decise note, pennella la conclusione di un brano assolutamente ipnotizzante. Matteo canta sensuale un testo evocativo e immaginifico che si armonizza alla perfezione con la musica, rendendo questa canzone una vera perla. Arriva La vita sognata, con il suono del piano che domina la scena. Melodia italiana? Sì, ma… di una raffinatezza e una classe indicibili. Arrivi al brano numero 10 e ti accorgi che, traccia dopo traccia, i Blastema ti hanno messo di fronte al loro status di songwriter di livello eccellente. Una roba che ti fanno sentire stupido a inanellare una serie prossima all’infinito di superlativi assoluti. Ma come fai a evitarlo? Pensi ad esempio alla sapienza con cui il gruppo mescola parole e suoni che mantengono tutti la propria identità senza confondersi: percepisci ogni ingrediente, nessuno copre l’altro ma lo valorizza. Al testo scritto da Matteo Casadei non manca niente per essere considerato una poesia. Lo splendido piano de La vita sognata è accompagnato da una voce tersa, luminosa, pura. Assolutamente commovente. L’ultima traccia dell’album è Tristi giorni, che si apre con degli archi che accompagnano tutto il pezzo. Anche qui il testo si sposa alla perfezione con l’impianto melodico: ascolti questa canzone che ancora non ti sei ripreso da La vita sognata e dalle emozioni di tutto l’album e senti che il rock italiano che porta verso il primo ventennio del 2000 dovrebbe davvero suonare così, è davvero racchiuso in questo album. Con Tristi giorni senti che i Blastema hanno messo tutta l’Italia in questa canzone.

Ma Lo stato in cui sono stato non è ancora finito: c’è il regalino finale, la ghost track, Cara la notte. Un arpeggio delicato e incessante accompagna Casadei in una dolce ed assolutamente non banale ninna nanna in cui il risveglio al mattino è visto come una resurrezione. Adesso l’album si è davvero concluso. La ghost track ti lascia con un velo di commozione che ti mantiene lì, interdetto. Già finito? Sì. 35 minuti che in teoria uno potrebbe dire che siano filati via in un niente, ma non è vero. Non sono stati 35 minuti veloci. Sono stati densi come inchiostro, intensi e ti hanno lasciato lì, inebetito e meditabondo, perché non hai appena ascoltato un divertissement, una prova scialba o piatta come troppo spesso succede: non c’è un riempitivo, niente di “skippabile”. Hai appena ascoltato un lavoro cesellato in cui c’è tutto, ci sono la pancia e il labor limae, l’istinto e la raffinatezza, c’è una qualità indiscutibile che ti fa venire voglia di prendere questi ragazzi e abbracciarli uno ad uno e ringraziarli per aver dimostrato che diavolo di cavalli di razza si nascondono nelle viscere dell’Italia. E mi piace l’idea di togliere per un attimo questi cinque eroi dalla “provincia” che è la loro terra, e consegnarli (per ben più di un attimo) a una platea molto più estesa, che è quello che meritano senza ombra di dubbio.

Le fotografie inserite in questo articolo sono di Marco Onofri


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