«Her life was saved by rock & roll» è uno dei versi della canzone Rock’n’roll dei Velvet Underground di Lou Reed. Il testo ha una felice invenzione che da allora è stata ripresa infinite volte da chi scrive e parla di rock: «La sua vita fu salvata dal rock’n’roll».
La mia generazione è nata dentro alla musica rock, ed il rock è stato la sua colonna sonora. Non che ne girasse molto, di rock, nell’Italia degli anni sessanta. I dischi d’importazione erano pochi e la gran parte della musica era autarchica, ad eccezione dei dischi di musica classica (ho un vivido ricordo dell’etichetta gialla della Deutsche Grammophone) e di musica jazz, che a differenza del rock erano culture accettate, accademica la prima, approvata la seconda.
In realtà negli anni sessanta e per buona metà dei settanta in Italia la parola Rock non si usava neanche. Da un certo punto in avanti la chiamammo musica Pop, mentre con il termine rock ci si riferiva al rock’n’roll degli anni cinquanta, gli oldies but goodies, i pezzi fuori moda ma comunque divertenti da ascoltare. Lo stesso libro “Storia della musica Rock” di Rolf Ulrich-Kaiser fu tradotto in italiano “Storia della musica Pop”. Nei paesi di lingua anglofona pop sta per popolare, che è l’equivalente di musica leggera, mentre da noi immagino suonasse come Pop Art. Anche se in effetti anche il festival di Monterey del 1967 si chiamò Monterey Pop.
Quando cominciarono ad arrivare gli echi della rivoluzione della Swinging London, la stampa italiana li relegò alle pagine dedicate alla musica leggera. Ad occuparsene, quasi sempre a sproposito ed in chiave ironica, erano gli stessi giornalisti specializzati in Domenico Modugno e Rita Pavone. Non c’era alcuna percezione del rock come cultura. Siccome l’Italia non è mai stata un paese anglofono, ci fu chi pensò di essere spiritoso coniando il termine di scarafaggi per riferirsi ai Beatles, al posto casomai di maggiolini, dimenticando che la mitica Volkswagen Beetle in Italia era, per l’appunto, il Maggiolino. Nello stesso tempo si cominciò a parlare di musica Beat, termine di cui Renzo Arbore ha rivendicato la paternità, non considerando che era così definita anche oltremanica, per via del suo ritmo.
La musica rock mi aveva colpito fin da bambino. Le mie prime canzoni rock furono quelle di Adriano Celentano, l’urlatore nato a Milano al numero 14 di via Gluck, che contemporaneamente ai suoi coetanei americani era rimasto folgorato dalla canzone Rock Around The Clock nel film Il Seme della Violenza. Celentano ascoltò la canzone e mise assieme il complesso dei Rock Boys. Non a caso i suoi primi singoli furono cover di Rip It Up di Little Richard, Jailhouse Rock di Elvis Presley, Blueberry Hill di Fats Domino e Tutti Frutti, ancora di Richard, cantati in un inglese inventato ed onomatopeico. Anche quando cominciò a cantare in italiano Il tuo bacio è come un rock, 24 mila baci, Ciao ragazzi, Torno sui miei passi, Tre passi avanti, le sue canzoni erano ispirate ai rocker della Sun Records di Memphis. Per un bambino che come me guardava Sanremo alla TV con i genitori, quelle canzoni facevano la differenza.
Mio padre era un appassionato di musica e, anche se lui probabilmente non ne era consapevole, lo era di musica rock. Era un bell’uomo, avrebbe potuto essere un attore dell’epoca, di quell’eleganza ribelle a la Jean Louis Trintignant. Guidava una Giulietta Sprint azzurra e collezionava 45 giri che io ascoltavo sullo stereo di casa. Oltre ai dischi del molleggiato, quelli con la etichetta colorata del Clan di Celentano, ricordo fra i miei preferiti il singolo di Blue Suede Shoes nella versione originale di Carl Perkins, La bambola di Patty Pravo (un’icona del beat nazionale, al pari di Julie Driscoll e Marianne Faithfull in Inghilterra) e più tardi una densa canzone melodica, Sympathy dei Rare Bird, che avrei scoperto essere il primo disco stampato dalla Famous Charisma Label (ma l’etichetta del dischetto in mio possesso era Philips).
Ad un certo punto ottenni in regalo un mangiadischi, marchiato Irradiette Deluxe, che era il precursore dei mangiacassette degli anni settanta - ma anche delle enormi radio degli anni ottanta, dei walkman (e dei CD walkman) degli anni novanta e degli iPod degli anni duemila. Con il mangiadischi non eri obbligato ad ascoltare i dischi in casa: te li portavi in giro, persino in spiaggia. Ti sedevi sui gradini circondato dagli amici (e dalle amiche) ed infilavi i 45 giri nella fessura. La canzone che preferivo era Ma che colpa abbiamo noi dei Rokes, resa esotica dall’accento inglese di Shel Shapiro (che si seppe poi essere stato uno dei Blue Caps di Gene Vincent, l’eroe dei rocker inglesi). Anche se io avevo solo nove anni, le parole, che poi erano di Mogol: «Sarà una bella società fondata sulla libertà, però spiegateci perché se non pensiamo come voi ci disprezzate, come mai, ma che colpa abbiamo noi» già mi facevano sentire uno di questi “noi”. Ero definitivamente parte della scena rock.
La scena “bit” italiana era costituita da complessi del circuito pop che banalizzavano gli hit dei gruppi inglesi ed americani con arrangiamenti leggeri. I Dik Dik fecero Sognando la California (California Dreamin’ dei The Mamas and The Papas) e Senza Luce (A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum), l’Equipe 84 incise Bang Bang (Cher) e Tutta mia la città (Blackberry Way dei Move) ma aveva coverizzato anche Kinks e Stones. C’erano Patty Pravo con Ragazzo Triste (But You’re Mine di Sonny & Cher), i Corvi con Un ragazzo di strada (I Ain't No Miracle Worker dei Brogues), Bambolina (Any Day Now di Burt Bacharach) e Datemi un biglietto d’aereo (The Letter dei Box Tops). Caterina Caselli con Sono bugiarda (I’m a Believer dei Monkees) e Tutto nero (Paint It Black degli Stones), i Camaleonti con L’ora dell'amore (da Homburg dei Procol Harum), i Califfi con Ti giuro è così (da You Really Got Me dei Kinks), i Profeti con Rubacuori (Ruby Tuesday degli Stones), Sole nero (Call My Name dei Them) e Ho difeso il mio amore (Nights In White Satin dei Moody Blues).
I Nuovi Angeli con La caverna (I Can't Control Myself dei Troggs), L’orizzonte è azzurro anche per te (Sunny Afternoon dei Kinks) e Per vivere assieme (Happy Together dei Turtles) e persino Gianni Morandi con Se perdo anche te (Solitary Man di Neil Diamond). Anche la celebre Bandiera Gialla cantata da Gianni Pettenati era la cover di una canzone intitolata The Pied Piper di Crispian St. Peters. Stranamente, cantata in italiano non ebbe successo nessuna cover dei Beatles.
Pietre di Gian Pieretti, un successo del còrso Antoine, era quasi un plagio di Rainy Day Women #12 and 35 di Bob Dylan da Blonde On Blonde.
Erano canzonette che non meritavano di meglio dei juke-box di provincia, e che con il rock avevano poco da spartire, ma i long playing di Beatles, Stones, Dylan, Creedence non si trovavano nei negozi di dischi, di sicuro non in una città di provincia come la mia. Al limite si recuperava qualche 45 giri, mentre i long playing si sarebbero trovati regolarmente solo negli anni settanta. Con il senno di poi mi accorsi che i primi grandi singoli del rock’n’roll li avevo ascoltati per la prima volta sull’autoscontro. Allora non ci facevo troppo caso, anche perché i luna park erano posti frequentati da attaccabrighe e cattivi soggetti e non era il caso di distrarsi ad ascoltare la musica se non volevi tornare a casa con il naso sanguinante, ma successivamente riconobbi distintamente canzoni come Molina e Satisfaction come colonna sonora di quelle giornate.
In terza media ero con i compagni di scuola in settimana bianca a Madesimo. Le gite scolastiche erano una invenzione di cui andare riconoscenti. Per un tredicenne con un crescente spirito d’indipendenza e sull’orlo di una esplosione ormonale erano il massimo. Già in quelle prime occasioni d’indipendenza mi resi conto di una regola valida per il futuro: nei viaggi lontano da casa la vita sembrava concentrarsi. Tutti quanti, ma specialmente le ragazze, sembravano prendersi una sosta dalle consuetudini borghesi. Ragazzine che in città non ti avrebbero degnato di uno sguardo, e a cui d’altra parte non avresti avuto il coraggio di rivolgere la parola, ti promuovevano all’improvviso a simpatico, spiritoso e persino popolare. Scoprivo una parte del mondo ignota, la faccia nascosta della luna. In quella vacanza sulla neve scoprii i Beatles. Ben inteso, persino in una pigra cittadina emiliana lungo il Po era impossibile ignorare chi fossero i Beatles, ma fino a quel momento i Fab Four erano rimasti una realtà tutto sommato estranea alla mia vita. Il nome fra i quattro che aveva colpito di più la mia immaginazione era Ringo Starr, ma solo perché condivideva il nome d’arte con il Giuliano Gemma protagonista degli spaghetti western di Una pistola per Ringo e Un dollaro bucato.
Durante le serate di quella settimana bianca i più intraprendenti di noi prendevano possesso della tavernetta dell’albergo, che era fornito di un piatto da disc jockey su cui potevamo mettere i 45 giri. Uno di questi era l’ultimo singolo uscito dei Beatles, Let It Be, un pezzo melodico affascinante. Ho ancora nella memoria le due ragazzine, che rispondevano entrambe al nome di Daniela, che sulla melodia di Let It Be mi insegnarono a ballare i lenti. Ed io, rigido come un palo, feci del mio meglio per imparare a muovermi al ritmo della musica, magari non elastico come Michael Jackson ma sicuramente meglio dei cowboy che avrei visto ballare anni dopo nei locali country & western americani. Tredici anni erano pochi per baciarsi, ma avevamo l’età sufficiente per ballare stretti, accesi di un desiderio confuso.
Posso così a ragione sostenere di essere stato battezzato dai Beatles, sia pure per il rotto della cuffia.
Fu forse quell’imprinting a farmi amare le ballate lente e ritmate del glam rock a venire, ed in ogni nuovo disco che usciva andavo a cercare il lento: degli Stones (Angie, Fool To Cry), di Bowie (Space Oddity, Starman, Life On Mars?), Elton John (Rocket Man, Goodbye Yellow Brick Road), Lennon (Mind Games, Stand By Me) e tutti gli altri.
In futuro non mi sarei mai appassionato alle discoteche, ma avrei sempre fatto un’eccezione per le tavernette in legno in montagna, che ho sempre vissuto come posti confortevoli ed evocativi (e dove spesso lavorano disc jockey dai gusti autenticamente rock).
Al liceo la musica aveva un posto di primo piano. Si parlava con molto rispetto dei nuovi dischi che uscivano e si accennava a gruppi di cui noi pivelli assorbivamo i nomi come fossero stati eroi classici. Chi aveva un fratello maggiore era avvantaggiato e poteva vantare informazioni che gli altri andavano elemosinando. Il mio compagno di banco Gabriele aveva un fratello giornalista che a fianco dei dischi depressi di Fabrizio De André, aveva cose eccitanti come il live dei Creedence Clearwater Revival. Le compagne di classe, che erano più mature ed avevano fidanzati più grandi, che guidavano moto rombanti come la Morini 3 ½ o la Ducati Scrambler gialla (con il fianchetto metallizzato), potevano prestare long playing capaci di aprire orizzonti nuovi, come il disco della mucca dei Pink Floyd o Pictures At An Exhibition di Emerson Lake & Palmer - anche se alla fine i dischi che andavano di più fra le ragazze erano quelli romantici e mielosi di Cat Stevens e Simon & Garfunkel. Non a caso Nick Kent del New Musical Express scrisse che, a dispetto della successiva immagine devota «…ai tempi di Tea For The Tillerman attorno a Cat Stevens girava più figa che intorno a Frank Sinatra».
Naturalmente c’era la radio. Si usciva da scuola giusto in tempo per sintonizzarsi con Alto Gradimento di Arbore e Boncompagni, che era introdotta dalla sigla di Rock Around The Clock, mentre alle otto di sera sull’assolo di In A Gadda Da Vida partiva Supersonic, che mandava in onda gli hit stranieri del momento, e anche parecchi della nuova scena italiana che valeva la pena di ascoltare. Solo più tardi avrei scoperto che dopo Supersonic, alle 21:30 si aprivano le porte del Nirvana di Pop Off, il rock del mediterraneo, un’ora di sana e solida musica rock.
Nel 1973 cominciai ad avere abbastanza soldi per comprare i miei dischi. Erano 45 giri e li portavo con me anche alle feste, organizzate nei garage o nella casa di chi l’aveva a disposizione magari perché i genitori erano via. Solo era necessario tener d’occhio che qualcuno non me li rubasse (ma fu inutile: me li rubarono). Non sto parlando del tempo delle mele: uno dei primi 45 giri che acquistai era un pezzo elettronico di Walter Carlos della colonna sonora di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, un cult di quei giorni. Ero affascinato da Space Oddity di David Bowie e dalla imitazione di Elton John, Rocket Man. Uno dei 45 giri più potenti era Nutbush City Limits di Ike and Tina Turner, con un assolo di sintetizzatore su un ritmo ossessivo. Non fu per caso che quella canzone entrò a far parte del repertorio di Bob Seger e dei Silver Bullet Band di Detroit. Ancora di più mi colpì il retro, un’asciutta versione soul di With A Little Help From My Friends cantata da Ike in una interpretazione radicalmente differente da quella popolare di Joe Cocker.
Mi colpì Mick Jagger che cantava il nuovo singolo degli Stones, Angie, che allora non lo sapevo, ma era di sicuro un pezzo di Keith Richards. In una discoteca di Firenze vidi il primo video clip della mia vita, gli Stones che nella imbarazzante mise glam dell’epoca cantavano la sinuosa Ain’t Too Proud To Beg, la canzone che mi diede il battesimo del soul della Motown. Allora non sapevo che fosse una cover degli stessi Temptations di cui in discoteca si ballava la psichedelica Masterpiece.
Si era in pieno glam rock, al cinema proiettavano Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma ed un amico mi raccontò di Marc Bolan. Mi disse però che c’era in atto una competizione fra Bowie e Bolan, e siccome io ero già un partigiano di Bowie mi proposi di ignorare i dischi del secondo.
In prima liceo si è alla inconsapevole ricerca di una propria identità, di qualche cosa che mostri una frattura con il pre-adolescente che alle medie montava ancora aeromodelli in plastica e non si perdeva un film con Terence Hill e Bud Spencer. Ricordo che indossavo scarpe a punta, calzoni a gamba d’elefante, cinture dalla fibbia alta e maglioni con scritte come King’s Road, ma la mia pettinatura con la riga faceva ancora molto ora di religione. Così andai dal barbiere con una foto di Bowie e gli chiesi di pettinarmi i capelli all’indietro. Il caso volle che la mattina dopo arrivai a scuola in ritardo, ed entrai in aula a lezione già iniziata e con la classe già seduta. Fui accolto da una risata fragorosa, per la sorpresa di quello che era evidentemente un look abbastanza inusuale da non passare inosservato. In quel momento immagino che la mia reazione naturale avrebbe potuto essere quella di sprofondare dalla vergogna, ma al contrario sentii l’orgoglio di essere più avanti di quel provincialismo (un difetto del mio carattere che temo non mi abbia più abbandonato). Fui grato al mio compagno Gabriele che mi accolse al banco con un: «ciao, David Bowie».
C’era anche un glam minore, quello di Gary Glitter (il leader of the gang che molti anni dopo sarebbe stato arrestato con un’accusa infamante), degli Slade, e degli Sweet di Ballroom Bliz, che esibivano abbigliamenti imbarazzanti nel tentativo di scimmiottare gli Spiders From Mars. Fui conquistato da un 45 giri, con l’etichetta Rak Records, di una tipa incredibilmente tosta in giubbotto di pelle che suonava il basso e dirigeva una banda di duri cantando con una voce acuta come non avevo mai sentito. Era Can the Can di Suzi Quatro, americana a Londra alla corte di Chapman Chinn, la coppia di autori del glam commerciale ribattezzato heavy metal bubblegum. Il long playing di Suzi Quatro fu il primo per cui misi assieme 3500 lire (quando i 45 giri credo ne costassero mille) ed il suo ascolto fu come aprire il vaso di Pandora: c’erano I Wanna Be Your Man (dei Beatles / Stones), All Shook Up (di Elvis) e Shakin’ All Over, il super inno da garage band. Immagino che Suzi sia stata la prima ragazza del rock ad eccitarmi, se si escludono le vaghe emozioni suscitate da bambino da Sandie Shaw, la cantante scalza (anche se poi sognavo di sposare Caterina Caselli). Suzi venne prima di Debbie Harris; amai anche Patti Smith ma non dal punto di vista erotico. Assomigliava troppo a Keith Richards (non fu un caso che il suo primo fidanzato a New York fosse il fotografo omosessuale Robert Mapplethorpe). Il primo long playing ebbe l’effetto di una crepa in una diga: da allora non acquistai più un 45 giri, almeno fino all’avvento del punk.
In quegli anni si cresceva alla svelta e per soprammercato i dischi che uscivano erano tutti dei classici: il disco di Suzi Quatro fu solo l’ingresso nel mondo del rock e il suo momento di successo fu effimero tanto per la scena musicale che per il sottoscritto. La ritrovai anni più tardi nella sit-com televisiva Happy Days a fare la cugina di Fonzie con il nome di Leather Tuscadero. Alle energiche cover della Quatro, che se fosse arrivata solo un paio di anni più tardi non ho dubbi che sarebbe diventata un’eroina della scena punk, si sovrapposero quelle di Pin Ups, il disco di appunti con cui Bowie scriveva un bigino di quella Swinging London che la mia generazione si era persa. C’è gente che ha pensato per decenni che See Emily Play fosse una canzone di Ziggy Stardust (e, in cambio, che The Man Who Sold The World fosse una canzone di Kurt Cobain). Suppongo di aver sentito per la prima volta Who, Them e Kinks su quel disco di Bowie.
Il film Tommy di Ken Russel, con Pinball Wizard e Acid Queen, sarebbe uscito solo due anni dopo.
Musica e cinema erano in qualche modo legati nella nostra cultura. C’era il cinema d’autore italiano, dal Pasolini de Il Fiore delle mille e una notte, orientale e magico on the road, il Fellini di Amarcord, che affondava nelle nostre radici, il Bertolucci di Ultimo Tango a Parigi. Per riuscire a vedere quest’ultimo, vietato ai minori di diciotto anni, organizzammo praticamente un gita scolastica. Partimmo in gruppo in treno verso una cittadina di provincia dove al cinema non ci avrebbero fatto storie con la richiesta di controllare la carta d’identità. Era un film forte e visionario, ma non facile da decifrare per un ragazzino. Il mattino dopo in classe se ne parlava: le ragazze, più mature, ne avevano ricavato una comprensione più approfondita, a noi ragazzi erano rimaste impresse soprattutto le scene d’amore fra Marlon Brando e Maria Schneider, ed il provino de Quel gran pezzo dell’Ubalda (tutta nuda e tutta calda) durante l’intervallo. La settimana successiva una delegazione ristretta del gruppo precedente era in treno per assistere al film con Pippo Franco e Edwige Fenech. C’erano i film di Alejandro Jodorowsky, la Montagna Sacra e El Topo, e quelli di Walerian Borowczyk, la Bestia.
C’erano i film noir francesi, con attori duri come Alain Delon e Yves Montand, che costituivano un modello affascinante per degli adolescenti in crescita. Ma c’erano anche b-movies che parlavano il nostro linguaggio, come quelli con Joe D’Alessandro che cavalcava una motocicletta, che parlavano il nostro linguaggio. E la moto era un terzo elemento forte di aggregazione per la compagnia, che fosse una 125 c.c. da cross o una Vespa Primavera. Le moto più grandi, Honda, Ducati, Kawasaki, Triumph le guardavo passare. Ma quando a 18 anni saltai su una Fiat 500 ero finalmente comunque on the road e le due ruote per un bel po’ me le dimenticai. Le nostre auto erano Dyane, 2 CV, Mehari e Mini. Nessuno chiedeva di più.
da Perché non lo facciamo per la strada? Blue Bottazzi