San Berillo, le cose che ho visto

Creato il 19 marzo 2014 da Violentafiducia0

Non ho alcun titolo o laurea prestigiosa da esibire, non ho fatto nessuna conferenza, non ho vinto nessun concorso di bellezza, e non ho particolari meriti. La mia presentazione è piuttosto banale. Non ho nulla di particolare per essere orgoglioso di me stesso. Ho condiviso amori, sogni, esperienze drammatiche con le prostitute e con i travestiti. Saranno aggressivi, non usano mezzi termini e nel linguaggio sono sgradevoli e volgari. Ma quando amano qualcuno danno la loro carne, quando sognano hanno desideri da adolescenti. All’interno sono fragili come farfalle, ma si mostrano come ricci.

Francesco

*

San Berillo è una periferia al centro di Catania, tra Corso Sicilia e via di Sangiuliano. La raggiungiamo da piazza Spirito Santo, attraversando via Giovanni di Prima. Via Giovanni di Prima è questo: una strada larga. A sinistra, per un tratto breve, grandi palazzi e una pista ciclabile, a destra, per un tratto breve, piccoli negozi. Il tratto più lungo è questo: a destra e a sinistra negozi case palazzi degradati. Quelli che abitano qui vengono da altri paesi e parlano altre lingue. Noi camminiamo in direzione del mare. C’è caldo, qualcuno di noi si toglie il giubbotto.

A San Berillo Roberto è venuto ad abitarci dieci anni fa, si è sposato e ha fatto due figli. Fa parte di un comitato che si occupa della riqualificazione sociale del quartiere, si incontrano tutti i martedì a casa di Francesco. Mentre camminiamo ci parla dei vuoti urbani che si sono creati dopo il ’57, quando per interessi congiunti di Stato e amministrazione comunale sono state rase al suolo intere abitazioni e al loro posto non è stato costruito niente. Io e Marcello parliamo di architettura finché non ci divide un telo bianco, lungo e stretto, steso sul marciapiede come un tappeto o un lenzuolo. Da sola vedo meglio. La luce che separa i palazzi. Le donne che ci guardano dall’altra parte della strada. I palazzi che assorbono la luce. Una sedia di plastica gialla con sopra una chiave inglese.

In piazza Giovanni Falcone c’è la Parrocchia della Buona Morte. Nello stesso edificio c’è una chiesa ortodossa. C’era anche una moschea, prima che ne costruissero una più grande vicino piazza Cutelli. Tutte le domeniche vengono a messa le prostitute, i senegalesi, gli indiani, i catanesi e tutti quelli che vogliono pregare pregano nel posto in cui vogliono pregare. Davanti la chiesa c’è un piccolo piazzale. Nel piazzale c’è un parcheggiatore. Si avvicina e ascolta. Ci dice che la moschea di piazza Cutelli però è nuova, ‘a ficiru uora. È basso, ha gli occhi stretti, la faccia dura e un incarnato scuro. Penso che dovrebbe continuare a parlare, ma nessuno lo ascolta e quelli che lo ascoltano non lo capiscono. La stessa lingua, solo più radicata, e nessuno lo capisce. Io capisco, se gli guardo la bocca sottile mentre si muove, se gli guardo le mani mentre gesticola, io so cosa dice. Roberto dice adesso vi mostro la prospettiva dei vuoti.

Due piazzali grandissimi dove prima c’erano case e poi ci sono state baracche, zingari, bulgari, finché qualcuno non ha deciso che se ne dovevano andare. Prendo Giulio sottobraccio, gli dico che le periferie mi piacciono, i luoghi dove sembra non esserci un centro, dove la tristezza non è mai del tutto tristezza.
Anche a me piacciono. Di questo cosa ti piace, quello che vedi o quello che potrebbe diventare?
Quello che mi sembra che fosse. Questo mi piace, dei posti, mi piacciono le ombre che si portano dietro. Mi piacciono i fantasmi che abitano questi vuoti.
Da San Berillo sono state deportate trentamila persone nel quartiere San Leone. Vi facciamo delle case nuove, delle case con le fognature, delle case comode. Questo hanno detto loro, vi portiamo in un posto migliore.

Per raggiungere San Berillo vecchia (San Berillo vera) attraversiamo via Opificio, dove c’è un’officina che ripara bicilette, davanti c’è un locale, si chiama ZeroNove, sulla porta del locale c’è un ragazzo. Andrea lo guarda e gli dice Davide, possiamo venire per un’invasione pacifica? I tavoli sono fatti con le ruote delle bici, tagliate, incastrate, saldate. Nella stanza si sente l’odore dei copertoni. Gomma nera. In fondo al locale c’è un cortile, una volta era un passaggio stradale, gli archi, le porte sono stati murati, mani di cemento spesse. Su un muro c’è scritto “Giusi ti ammo”. Sul cortile affacciano balconi di altre case, vestiti stesi, donne che chiudono le finestre, vedo tutti i dettagli e non riesco a vedere l’insieme.

Per strada si sente l’odore dell’urina contro i muri, rivoli scuri su pietre scure. Si alzano sciami di moscerini. Abbiamo il sole contro, tutte le figure umane diventano uguali, si stagliano su un punto di fuga invisibile verso cui converge l’intero quartiere. Su certi palazzi senza numero civico sono cresciute piante, foglie, radici scoperte con la prepotenza che ha la natura quando decide per l’uomo. In un vicolo c’è un museo di arte contemporanea, deserto. Aperto la sera dell’inaugurazione prima delle elezioni, chiuso il giorno dopo. Sul balcone al primo piano c’è un tronco secco, piantato nel nulla, calvo. L’uomo che sceglie per la natura deforma tutto ciò che tocca.

Sulla porta murata di una casa chiusa c’è una scritta, dice Fraternità Uguaglinza. Senza la a. Da altre porte si affacciano prostitute e travestiti, ci guardano, si coprono, sorridono, si ritirano in casa, escono per controllare meglio, chiudono le porte rientrando. Non c’è bisogno che vi nascondete, dice Roberto, le saluta tutte per nome. Fraternità e ugualianza. Un travestito esce, ci sorride forte, dice mi chiedevo che fossero tutti questi bei maschioni, queste belle signorine, non smette di sorridere, si sfrega i seni, vorrei dirgli che ha delle bellissime calze, vorrei che parlasse ancora, ma ci guardiamo e basta, sorridendoci e basta. Fraternità e ugualinza. Forze private dell’inizio, della prima lettera dell’alfabeto, della possibilità di esistere.

A San Berillo non ci sono panifici, non ci sono farmacie, non ci sono botteghe, non ci sono bambini, non ci sono palloni, non ci sono fiori, non ci sono macchine, non ci sono luci, non ci sono lampioni, non ci sono dottori, non ci sono cestini dei rifiuti, non ci sono marciapiedi, non ci sono alberi, non ci sono bar, non ci sono preti, solo edicole con immagini di Madonne. Tra Corso Sicilia e via di Sangiuliano.

Roberto ci porta a casa di Francesco, sede del comitato. Entriamo in una stanza piena di icone sacre, una ventina di sedie disposte in cerchio. Ai muri piastrelle nere, lucide. Sul muro davanti alla porta una croce col Cristo. Accanto una scritta in legno: “Ho sete”. Ci sediamo. Sul muro davanti a me una carta del quartiere, nell’angolo in alto a destra, scritto a mano, “Legenda. Voi siete qui”, un bollino verde. Sopra la carta un quadro raffigura la sacra famiglia, Gesù vicino a Giuseppe, Maria in un angolo ricama. Lo stesso quadro è il capezzale dei miei genitori.

Francesco è un travestito, ha i capelli biondi e la frangia, è piccolo, ha le mani tozze, delle cicatrici sulle guance, il sorriso imperfetto, occhi buoni. Quando parla arrossisce. Dice che in un certo periodo della sua vita aveva deciso di non esercitare più. Dice che ha conosciuto delle suore, che ha messo a loro disposizione questa casa. In questa casa una volta a settimana si riunisce il comitato, e una volta a settimana si fa un’ora di adorazione al Signore. Dice che il Signore opera anche attraverso il peccato, che lui ama le persone e questo gliel’ha insegnato Dio. Dice che la prostituzione è un problema sociale, poi si corregge, dice è un fatto sociale, non lo sa se è un problema.
Io voglio che questo posto sia abitato, che ci siano dei bambini, che vengano i tuoi figli, che sarebbero anche figli miei, se ci fossero dei bambini nessuno dovrebbe dirci di coprirci perché basterebbe il loro sorriso. Noi siamo persone normali, facciamo un lavoro che è questo lavoro, soddisfiamo gli istinti più bassi, ci prendiamo addosso le infelicità degli altri, lo sappiamo perché gli uomini si confessano, quando si rivestono, dopo aver finito e prima di andare via, ci parlano delle loro case, delle loro mogli, dei loro figli, ci innamoriamo, siamo persone normali.
Qualcuno gli chiede se vengano sfruttate. Lui risponde di no, siamo tutti poveri e tutti liberi, se qualcuno provasse a sfruttarci lo denunceremmo. Hanno preparato dei biscotti per noi, bianchi, al cioccolato, fritti. Stanno tutti su un tavolo ai piedi della croce, vicino ai tovaglioli di carta e a una bottiglia di Pepsi. Francesco ci dice di tornare, saluta solo alcuni di noi, quelli che dopo sono stati ad ascoltarlo ancora, ci stringe la mano uno per volta, sorride ma non ci guarda negli occhi.

Quando usciamo dal quartiere usciamo su via di Sangiuliano. Gente che parla. Le luci dei locali. A un passo dal Teatro Massimo. Pizzerie raccomandate dalle guide turistiche. Ragazzi che si baciano. Uomini coi loro cani. Tabaccai. Mariti con le loro mogli. Manifesti pubblicitari. Duplici file di lampioni che dal mare raggiungono via Clementi, ininterrotte.

Dove siamo stati?
E dove eravamo stati fino a oggi?


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