È nato a Corleone (Palermo) nell’805 e gli fu imposto il nome di battesimo di Leone come il padre e quando, ventenne, entrò nel convento basiliano di San Filippo d’Argira, assunse il nome religioso di Luca, da qui Leoluca.
Appena fanciullo si diede all’agricoltura e alla pastorizia e a contatto con l’aperta campagna cominciò ad avere i primi e significativi contatti con il Creatore. Come accennato prima, appena giovane, essendo rimasto orfano di entrambi i genitori, abbandonò le sue ricchezze e i suoi agi per ritirarsi a vita monacale alle falde dell’Etna sotto la direzione di Filippo, priore del convento basiliano. Scrive B. Sodaro: “Filippo accolse il giovane Leoluca con grande affabilità. Dopo un breve periodo di tempo gli tosò la chioma, gli indossò l’abito monacale e gli cinse i lombi col cilicio”. Così trascorse diversi anni, non solo ascoltando anche le orazioni e le prediche dell’abate basiliano, ma imparando anche a digiunare e a fare penitenze. Dopo qualche anno di duro ascetismo nelle campagne etnee, abbandonò la Sicilia per portarsi pellegrino a Roma, passando prima per la Calabria e fermandosi per qualche tempo nel monastero di Vena di Vibo Valentia. Successivamente e per sei anni rimase, sempre in Calabria, nel cenobio presso San Sosti, ai piedi del monte Mula, in compagnia dell’egumeno Cristoforo. Insieme, maestro e discepolo, a seguito delle invasioni saracene, ripararono sulle montagne di Mormanno dove vi rimasero per ben dieci anni assorti nel lavoro e nella preghiera. Ancora insieme, quindi, ritornarono nel vecchio convento di Vena e qui Leoluca operò diversi miracoli e fra i tanti si citano: un giorno lavorando nell’orto fu morso alla mano da vipera, ma con la preghiera riuscì a rimarginare all’istante la ferita; in altra occasione riuscì a risuscitare un cavallo che era molto utile per la comunità monastica; ancora, un paralitico della città di Sassano ritornò sano dopo averlo unto con l’olio della lampada della cappella.
Dopo alcuni anni l’abate Cristoforo, sentendosi vicino alla fine dei suoi giorni, fece venire nella cella i monaci e indicò quale suo successore proprio Leoluca. Morto Cristoforo, il frate corleonese ne raccolse l’eredità spirituale e guidò la comunità monastica con santità ed equità dandosi all’assistenza morale e materiale dei contadini e dei boscaioli, riuscendo anche a fondare altri monasteri che accolsero un centinaio di religiosi. All’età di cento anni, o forse centodue, dopo ottanta anni vissuti da monaco, Leoluca sentiva vicino il giorno della fine e così chiamò vicino a sé Teodoro, Eutemio ed altri frati, comunicando loro come successore il frate Teodoro raccomandandogli di vegliare sopra il suo gregge. Tutto il giorno e la notte seguenti pregò coi frati e, il giorno dopo, alzatosi dal giaciglio, andò in chiesa, partecipò alla Messa, si accostò all’Eucarestia e diede il bacio della pace a ciascun confratello dicendo che anche dopo la sua morte sarebbe stato vicino a loro. A mezzogiorno del 1° marzo del 915 (o forse 917), lasciava la vita terrena davanti ai tanti frati genuflessi in preghiera. Gli storici asseriscono che il corpo del Santo venne tumulato a Vibo nella chiesetta del cenobio basiliano dove oggi sorge la chiesa dedicata a Santa Maria Maggiore e ad Nives. Tuttavia le ossa dell’abate non sono state ancora identificate e fra’ Gerolamo da Corleone, vissuto in odor di santità, nel 1712 predisse che il corpo del Santo sarebbe stato ritrovato quando la città di Vibo sarebbe stata afflitta da gravissime calamità.
San Leoluca è il protettore dell’antica Hipponion dal 1624 ed in occasione di tremendi terremoti e pestilenze ha sempre salvaguardato la città. Durante il sisma del 27 marzo del 1638, la vicina Soriano e il suo maestoso monastero domenicano furono quasi rasi al suolo ma Vibo rimase illesa. Anche nelle calamità degli anni successivi (pestilenza del 1743, nei terremoti del 1744, 1783, 1832, 1905 e 1908 e nel colera del 1837) il Santo palermitano ha protetto i Vibonesi che da sempre gli hanno tributato onori e grande devozione. Oggi, all’interno del Duomo vibonese nella prima cappella di sinistra si può ammirare una tela del Santo, opera del pittore Cannata e nel 1744, a ringraziamento per la liberazione dalla peste e dal terremoto, i Vibonesi fecero cesellare una statua del protettore in argento che però nel 1975 è stata trafugata. Don Onofrio Brindisi, compianto arciprete del duomo nell’opuscolo “Leggiamo insieme le Porte del Tempio” dello scultore polistenese Giuseppe Niglia, illustrando il significato del portale bronzeo della grande chiesa vibonese, così scriveva: “ed ora eccoci a loro […] i due titolari delle porte di bronzo: la Madonna e san Leoluca, titolari del duomo e titolari, giustamente, delle Porte del Tempio. Entrambi dolcemente mesti e assorti, proiettati in un tempo remoto e pur presenti, come schizzati per incanto da un sarcofago antico, gli occhi gonfi forse di pianto, forse di stria o forse dilatati e spinti in fuori da una forza interiore che si chiama amore e ancora amore, tra gli uomini…”. Ed ancora, dopo quasi milleduecento anni dalla morte del Santo, non si è nemmeno affievolita la fiamma di devozione dei Vibonesi verso il loro Patrono. Nei giorni scorsi, a cura dell’Archivio storico della biblioteca della Diocesi di Mileto – Nicotera – Tropea, del Sistema bibliotecario e del Convegno Maria Cristina di Savoia, è stata presentata “Tu vigil custos patrone fedelissime”. Si tratta di una mostra sulle fonti archivistiche e bibliografiche che riguardano san Leoluca per “far conoscere – come ha affermato mons. Giuseppe Fiorillo arciprete del Duomo della vecchia Monteleone – in maniera più approfondita il nostro Santo Patrono soprattutto ai giovani che molto spesso non hanno punti di riferimento precisi. La santità di san Leoluca è ancora in grado di contagiare la società attuale che vive nell’edonismo e nella superficialità”.