Tra le opere più note di Caravaggio e universalmente riconosciute come autografe, spiccano le due versioni della Cena in Emmaus. Le due tele, dipinte in momenti diversi di alterna foturna, a pochi anni di distanza l’una dall’altra, rappresentano il noto episodio narrato nel Vangelo di Luca: due discepoli si intrattengono, durante un breve viaggio a piedi, con Gesù Risorto e lo riconoscono solo a tavola, al momento della benedizione e dello spezzare del pane. La prima tela, oggi conservata alla National Gallery di Londra, viene dipinta a Roma per il marchese Ciriaco Mattei nel 1601, quando Caravaggio è ormai considerato “il massimo pittore di Roma”; la seconda, oggi alla Pinacoteca di Brera, viene realizzata nel 1606, nei feudi della famiglia Colonna a Paliano, dove Caravaggio aveva cercato protezione, in seguito all’accusa di aver ucciso Ranuccio Tomassoni.Nella prima esecuzione, la luce illumina e definisce i gesti drammatici dei protagonisti e le loro vesti colorate. Gesù ha i capelli lunghi e il volto imberbe, nella ripresa di una antica tradizione iconografica paleocristiana, che consente di esplicitare alcuni elementi di carattere teologico. Infatti Gesù, essendo risorto, appare in tutto il suo splendore di uomo realmente vivo ma nelle sembianze è diverso e per questo non è subito riconosciuto dai discepoli. Egli è vestito di rosso con un mantello chiaro su una spalla, ha gli occhi socchiusi e le mani sono ferme nel gesto della benedizione del pane. I due commensali, vestiti da pellegrini, sono rappresentati nello sconvolgimento interiore conseguente al riconoscimento: l’uno allarga le braccia come a mimare la croce, con il volto stupefatto, costruendo di fatto l’antitesi di due sentimenti contrastanti: la certezza della morte in croce e l’evidenza viva della apparizione. L’altro discepolo, posto di spalle, quasi a frapporsi tra l’osservatore e Cristo Risorto, invece si regge alla sedia come per alzarsi: questo movimento raffigura semplicemente il moto dell’animo, o vuole significare altro? La presenza dell’oste introduce un bilanciamento compositivo e, nella sua teatralità, è anche segno di una rappresentazione che vuole rimandare ad altro. Caravaggio, attraverso l’inserimento della figura dell’oste, mostra di aver ben compreso le opere cinquecentesche di Tiziano, Veronese, Moretto e Lorenzo Lotto, giacchè quell’intruso è indizio dell’ordinario che non sospetta l’inatteso, che pure in quel momento si rivela. L’oste è misura dello stato d’animo dei due discepoli che, ignari di aver camminato e parlato per sei miglia con il loro Signore, lo riconoscono nel segno della frazione del pane. Nella apertura di questo riconoscimento, tutti i segni ordinari della tavola imbandita per la cena divengono epifanie che parlano, sotto metafora, della resurrezione di Cristo e della sua Chiesa.Nella seconda opera si nota una composizione simile, ma l’atmosfera appare più raccolta; il senso drammatico del pathos risulta esaltato dalla narrazione più concisa, sfrondata di particolari, che dispone alla meditazione. Infatti, il discepolo che è di spalle manifesta di riconoscere Gesù in un modo più intimo: non sembra mosso dallo stupore, ma, allargando le braccia, appare accennare una preghiera. L’improvvisa apparizione della presenza viva di Cristo viene sottolineata dalla luce che illumina la mensa, significativamente apparecchiata solo con il pane e il vino, mentre a margine dell’evento ancora l’ordinarietà della presenza dell’oste[1] che osserva la scena, senza comprenderla. Cristo questa volta è rappresentato con la barba, come definitivamente riconosciuto dai discepoli che finalmente lo vedono presente tra loro, riecheggiando le parole del Vangelo di Luca.[2]Entrando più a fondo nella lettura iconologica, l’opera solleva interesse ancora maggiore. Qual è l’identità dei due discepoli, che riconoscono il Signore stando a tavola? Nel Vangelo di Luca si parla di due discepoli, ma ci viene detto solo il nome di uno dei due, e cioè Cleopa. Nella Legenda Aureadi Jacopo da Varazze, però, nel capitolo dedicato a San Luca Evangelista, si afferma che il secondo discepolo è lo stesso Luca, che per umiltà non scrisse il suo nome: «Era infatti lui il compagno di Cleofa lungo la strada per Emmaus, secondo quanto sostengono alcuni, come Gregorio nei Memoralia in Iob»[3]. Come riferisce ancora lo stesso Jacopo da Varazze citando alcune fonti[4], Luca non è uno degli apostoli e nemmeno uno dei settantadue discepoli, ma proprio in quella occasione si unì definitivamente al gruppo dei discepoli. Nella Legenda Aurea troviamo alcuni elementi per comprendere meglio le due versioni della Cena in Emmaus; infatti, le riflessioni sul significato del nome di “Luca” indicano non solo le caratteristiche da rintracciare per identificarlo nei dipinti, ma anche il senso degli atteggiamenti rappresentati dal Merisi: «Luca si traduce “che si eleva”, o, “si alza”, oppure, deriva da “luce”. Egli infatti si alzò dall’amore del mondo, elevandosi all’amore per Dio. Fu anche luce del mondo, perché illuminò il mondo intero..».[5]Nella prima versione del 1601, il discepolo identificabile come Luca è di spalle ed è rappresentato nel momento stesso in cui pone le mani sui braccioli della sedia e si muove nell’atto di alzarsi, in una traduzione teatrale del significato etimologico-spirituale proposto dalla Legenda Aurea. Nella seconda versione è quello di destra che, poggiando le mani sulla tavola imbandita, osservando, nello stupore dell’agnizione, il gesto benedicente di Gesù Risorto, si muove ancora nell’atto di alzarsi. Se la composizione apparentemente frontale in entrambe le versioni richiama modelli cinquecenteschi, l’enfasi narrativa è però accentuata attraverso la collocazione della figura di uno dei due discepoli al di qua della tavola, in una visione da tergo. Caravaggio mutua, elaborandolo, questo andamento coinvolgente, sicuramente dalla versione della Cena in Emmaus che Tiziano dipinge nel 1540 circa (oggi conservata al Louvre), dove la tavola è rappresentata di tre quarti e la figura di Luca, posta a destra, permette di verificare quanto lo stesso Vecelio avesse presente il testo di Jacopo da Varazze e la tradizione patristica in esso portata a sintesi.Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio. Website www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it .[pubblicato su Zenit il 5 maggio 2014]
[1]Giovan Pietro Bellori, nelle
Vite,descrive la seconda
Cena in Emmaus, che aveva potuto vedere quando ancora era conservata nella collezione dei marchesi Patrizi a Roma: «vi è Cristo in mezzo che benedice il pane, ed uno de gli apostoli a sedere nel riconoscerlo apre le braccia, e l’altro ferma le mani su la mensa, e lo riguarda con meraviglia: evvi dietro l’hoste con la cuffia in capo, ed una vecchia che porta le vivande».
[2]«Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?"» Lc 24, 30-32.
[3] Jacopo da Varazze,
Legenda Aurea, a cura di A. e L. Vitale Bravarone, Torino1995, cap. CLVI, pag. 855.
[4] «Luca era siro di origine. Nacque ad Antiochia, fu medico di professione, ed era uno dei settantadue discepoli del Signore. Tuttavia Gerolamo sostiene che non era discepolo del Signore, ma degli apostoli, e la
Glossa sul capitolo XXV dell’
Esodoosserva che non si unì al Signore mentre stava predicando, ma che soltanto dopo la sua resurrezione giunse alla fede: è da ritenere piuttosto che egli non fu uno dei settantadue, benché alcuni abbiano sostenuto questa opinione » Jacopo da Varazze,
Legenda Aurea, cit., Cap. CLVI, pag. 852.
[5] Ivi.