San Patrizio, o il Mistero in un trifoglio

Creato il 17 marzo 2012 da Senziaguarna

Reliquiario in bronzo, oro e smalto contenente un dente di San Patrizio - XIV secolo - Dublino, National Museum of Ireland.

Immaginatevi cosa possa essere la vita di un ragazzo dell’inizio del V secolo catturato dai pirati e venduto come schiavo a sedici anni.
Patrizio era un ragazzo di buona famiglia, nato nella Britannia romanizzata, nell’attuale Dumbarton, lungo il Vallo di Adriano, figlio di un diacono di nome Calpurnio. Ora si ritrova ad essere uno schiavo, un oggetto da vendere e comprare. Viene portato in Irlanda con migliaia di altri prigionieri, e lì viene comprato da un uomo, con cui rimarrà per sei anni. Sappiamo tutto questo da Patrizio stesso, che, molti anni dopo, scriverà un’opera, la Confessione, in cui racconterà la sua vita avventurosa. Ecco come parla del suo periodo di schiavitù:

Dopo essere giunto in Irlanda, tutti i giorni custodivo le mandrie e spesso pregavo, nella giornata. Sempre più cresceva in me l’amore di Dio, e anche il timore del Suo nome. La mia fede aumentava [...]. Nelle foreste, sulle montagne, mi svegliavo prima dell’alba per pregare, sotto la neve, col gelo e la pioggia. Non badavo alle fatiche. Nessuna pigrizia mi incatenava, se oggi giudico bene.

Ma, una notte, una voce gli parla in sogno. Poche parole, una promessa: «Andrai presto nella tua patria. La tua nave è pronta» Il problema è che il mare dista più di duecento miglia, e per giunta il giovane Patrizio è solo, in una terra che non conosce. Ma è un ragazzo coraggioso, fugge lo stesso: Dio mi ha chiamato, e Dio mi guiderà, dice tra sé e sé. È il 410 d.C.
E la nave effettivamente c’è, lo sta aspettando al porto: il nocchiero accetta di prenderlo a bordo. Dopo tre giorni, sbarcano sulle coste della Gallia. Finalmente, dopo quasi cinque anni, Patrizio riesce a riprendere il mare verso la Britannia, dove può finalmente riabbracciare la sua famiglia.

Croce di X secolo davanti alla cattedrale di Downpatrick, per tradizione il luogo dello sbarco in Irlanda e di sepoltura di San Patrizio, ricostruita nel 1897.

Eppure questa non è che la prima parte della vita movimentata del giovane Patrizio: e non rimarrà a lungo nella sua casa tanto desiderata. Una notte, è visitato da una visione: un uomo con un sacco pieno di lettere, sono le voci di tutto il popolo d’Irlanda che lo implora di tornare, c’è bisogno di lui. Grazie a quel sogno, Patrizio capirà in una volta il senso della sua schiavitù durata sette anni e la missione che gli è stata affidata: portare la Buona Notizia al popolo d’Irlanda.
Nonostante l’opposizione della famiglia, riparte. Si dirige di nuovo in Gallia, stavolta per studiare e prepararsi al compito che lo aspetta. Vi rimane 17 anni, studiando nei maggiori monasteri come quello di Marmoutiers (Tours), quello di Lérins, o quello di Auxerre.
Alla fine viene ordinato vescovo, forse proprio dal vescovo di Auxerre, San Germano, o dal papa San Celestino. Vescovo sì, ma un vescovo senza una sede precisa, un vescovo pellegrino.
Alla fine, nel 432, sbarca nuovamente in Irlanda: la tradizione locale ha chiamato il luogo esatto dello sbarco con il nome di Downpatrick, e ha sempre sostenuto che in quello stesso luogo Patrizio fosse stato sepolto. Su questo luogo, già nel XII secolo, venne eretta una cattedrale.

Particolare del forte di Dun Aengus sulla scogliera dell'isola di Inishmore, isole Aran, Irlanda - I-IV sec. d.C.

Per gli Irlandesi, l’arrivo di San Patrizio segna il loro ingresso nella Storia.
Non che prima non ci fosse nulla, al contrario. Ancora misteriosa è, per molti aspetti, la storia antica dell’Irlanda, allora chiamata Hibernia, unica terra di cultura celtica in Europa mai toccata dalla dominazione romana. Possiamo intuire qualcosa dalle testimonianze che i suoi abitanti ci hanno lasciato, come quelle enigmatiche tombe a corridoio scavate sotto imponenti tumuli che si possono ancora vedere a Brú na Bóinne (Newgrange), o i sorprendenti forti costruiti a secco, i cui resti si possono ancora vedere sulle isole Aran, dove sembrano quasi protendersi verso l’Oceano. Possiamo leggere barlumi di questo misterioso passato tra le righe della tradizione orale, rimasta per secoli incredibilmente viva, fin quando, verso l’anno Mille, alcuni monaci non la misero per iscritto: il cosiddetto “Ciclo Mitologico”, l’epopea di Cù Chulainn, l’Eroe dell’Ulster, o le storie del re Finn MacCumhaill narrate dal mitico poeta Oisin, rappresentano le nostre fonti migliori della cultura celtica, proprio perché preservate dal contatto con la romanità. Ne emerge una società quasi immutata dall’Età del Ferro, i cui gruppi dominanti erano la veneratissima casta sacerdotale (i druidi) e l’aristocrazia guerriera, organizzata in vari clan riuniti in tribù, dette in lingua gaelica tuath; questa casta guerriera è sottoposta a un codice fatto di tabù severissimi, il primo dei quali è rendere massimo onore al re, al druido e al bardo (il poeta).
Questa società non conosce quasi la scrittura: fa eccezione soltanto l’ogham, un tipo particolarissimo di scrittura magica formata da punti e linee, utilizzata solo dai druidi e incise sulle pietre. Per il resto, i Celti rifiutano la scrittura: rifiutano qualsiasi cosa che non sia tradizione orale, trasmessa dalla viva voce del bardo.
Ebbene, è proprio con Patrizio che, insieme al Verbo, la scrittura farà il suo ingresso in Irlanda. E non si tratta solo di quella con la S maiuscola, il Vangelo che il sogno di tanti anni prima lo aveva chiamato ad annunciare in quell’isola semisconosciuta: è la scrittura comune, quella che servirà per fissare per i secoli a venire proprio le tradizioni e i poemi così cari al popolo d’Irlanda, altrimenti svaniti nel tempo.

Oratorio di San Kevin a Glendalough, ricostruito nel XVIII secolo con pietre originali.

C’è chi ha parlato di “miracolo irlandese”: l’intera isola convertita in meno di trent’anni. E una conversione duratura, tanto che della sua fede cattolica l’Irlanda avrebbe fatto, nei secoli a venire, una bandiera, soprattutto a fronte delle pressioni Inglesi a partire dal XVI secolo per imporre il protestantesimo ufficiale.
Il fatto è che Patrizio non incontrò quasi resistenza. L’unico ostacolo serio fu posto dalla casta dei druidi, dai quali fu perfino gettato in prigione più di una volta. Il che, però, non è nemmeno lontanamente paragonabile alle persecuzioni feroci scatenate dagli imperatori romani: non per nulla, l’Irlanda è l’unica terra che non conta martiri. Anzi, ad un certo punto, interi collegi di druidi chiedono di farsi battezzare, dando così vita ad alcuni dei primi monasteri dell’isola, due dei quali nella sola Armagh, nell’Ulster, dove Patrizio fonda il primo vescovato d’Irlanda: a capo, suo nipote Mel. Alla fine, Patrizio scriverà: «I figli degli Scoti e le figlie dei re sono ora, agli occhi di tutti, monaci e vergini di Cristo».
Il segreto di Patrizio? Anzitutto il suo stile di vita, che sembrava fatto apposta per affascinare quel popolo dall’immaginazione così fervida: un eterno pellegrino, che aveva scelto di condividere la sorte dei reietti, degli esiliati, fuori da qualsiasi tribù, con il rischio di essere ucciso in ogni momento. Viene coniato un nuovo termine per definire coloro che abbracciavano questa vita: deorad Dé, “esule di Dio”. Così, da “esule di Dio”, Patrizio percorre l’Ulster, il Connaught, il Meath, Munster e Limerick, attraverso colline, gole, torbiere, campi di grano e pascoli. E il suo passo è ritmato dalla preghiera e dalla penitenza, portate a un tale livello da lasciare tutti a bocca aperta. Nei secoli a venire si ricorderà con stupore come Patrizio recitasse ogni giorno l’intero salterio (i 150 Salmi dell’ufficio liturgico settimanale) con le cantiche e gli inni, e vi aggiungesse 200 orazioni. E i monasteri di nuova fondazione seguiranno il suo esempio, con la la stessa spericolatezza fervida e generosa con cui Cù Chulainn e Finn MacCumhaill si erano lanciati nelle imprese più folli per il solo gusto di tentare l’impossibile: come in Oriente nello stesso periodo erano diffusi gli stiliti (eremiti che arrivavano a vivere dieci anni su una minuscola piattaforma in cima a una colonna), in Irlanda esisteva la figura del crosfigill, il “vigile della croce”, cioè un monaco che assumeva una posizione eretta, con le braccia stese in forma di croce, e la teneva pregando per ore e ore, fino ad arrivare a giorni interi, o perfino anni, come San Kevin, eremita a Glendalough, nella cui mano si racconta che gli uccelli facessero il nido!

Sepolcro romanico, dall'abbazia di XII secolo - Roccia di Cashel, South Tipperary, Irlanda.

Un altro asso nella manica di Patrizio è l’essere riuscito a farsi Celta tra i Celti, per parafrasare un’espressione di San Paolo che si era fatto Greco tra i Greci (1Cor 9,19-23). Il suo apostolato s’inserisce nelle tradizioni, negli usi e nei costumi dell’Irlanda, che Patrizio, in quei sei anni di schiavitù vissuti da adolescente, ha avuto modo di conoscere bene. In questo modo, non solo l’eredità celtica non venne inghiottita, ma addirittura arricchita di nuovi elementi, dando vita ad una cultura unica e originale, che avrebbe prodotto capolavori come gli evangeliari di Durrow o di Kells. Patrizio si appoggia su credenze e simboli che già esistono, e così li trasfigura. Ad esempio la croce era un simbolo ben conosciuto tra i Celti d’Irlanda, che lo scolpivano su pietre e megaliti, e rappresenta il sole; ebbene, il culto del sole è sostituito da quello a Cristo, Sol Invictus, e la croce in Irlanda manterrà quella forma anulata che la caratterizza ancora oggi.
Ma l’esempio forse più forte in questo senso, è un episodio il cui ricordo è stato tramandato dalla tradizione irlandese. Un giorno, alla Roccia di Cashel, Patrizio tiene un sermone in cui tenta davvero l’impossibile: spiegare alla folla riunita attorno a lui il mistero della Trinità. Ma come si può anche solo sfiorare il concetto che Dio sia al tempo stesso uno e tre? Sant’Agostino stesso, all’inizio del secolo, aveva speso 15 libri di trattato per tentare di avvicinarvisi senza riuscirvi, e, un secolo dopo, Boezio ne spenderà due, con lo stesso risultato; nei secoli a venire, filosofi e teologi si accapiglieranno anche ferocemente, ma nessuno riuscirà a trovare il bandolo della matassa. Ebbene, Patrizio non ha bisogno di parole: mostra un trifoglio, al tempo stesso uno e tre.
La folla è entusiasta. I Celti sono abituati alle triadi: se ne trovano dappertutto nella loro tradizione orale, in particolare le tre figlie di Ernmass, Mórrígan, Badb Chatha e Macha, un po’ l’equivalente delle Parche della cultura greca e romana; ma anche quello strano motivo così ricorrente nella decorazione della pietra e nel metallo e che poi ritroveremo ad ornare i manoscritti, in cui tre anelli sono fusi in uno solo. Questa gente non ha così difficoltà ad accettare l’idea di un unico Dio in tre Persone, che non solo l’Amore lega ma rende davvero una cosa sola.
E il trifoglio diverrà non solo il simbolo della fede degli Irlandesi, ma il simbolo stesso dell’Irlanda.

Simbolo detto "triquetra", ovvero tre ovali fusi in un nodo. Tipico della tradizione celtica e germanica, simboleggerà la Trinità nell'arte cristiana altomedievale.

Poesia detta Scudo di San Patrizio
Sulla mia strada perigliosa,
io, Patrizio, il servo di Dio,
invoco dall’alto
l’amore del cherubino…
Oggi mi rizzo armato della forza dei cieli
la gloria del sole
il fulgore della luna
lo splendore del fuoco, la rapidità dell’alba
la velocità del vento
la profondità del mare
la corsa rapida della terra
la solidità della roccia.
Avanzo per la mia strada
con la forza di Dio come appoggio.

Bibliografia
R. Pernoud, La Vergine e i Santi nel Medioevo, Rizzoli, Milano 1986, pp. 63-72;
E. Percivaldi, I Celti. Una civiltà europea, Giunti, Firenze-Milano, 2003.



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