Come le Lamie e le Empuse, anche le Mormo fanno parte del seguito di Ecate e talvolta ne annunciano l’arrivo o la rappresentano con il loro palesarsi. Dall’epoca antica ci sono pervenute ben poche informazioni, ma pare accertato che avessero un ruolo iniziatico consistente nei culti misterici di Ecate. Nelle commedie di Aristofane troviamo citate queste creature, ma pare che il commediografo greco utilizzasse il termine alla stregua di “uomo nero” o di “spauracchio”. In questi casi Aristofane faceva riferimento a una tipologia di maschere particolari, le mormolykeia, modellate appunto sulla figura della Mormo con le quali si spaventavano i bambini. Il teologo cristiano Ippolito di Roma (Asia, 170 circa – Sardegna, 235) nel suo Philosophumena redasse un paragrafo sulla forma di divinazione della piromanzia in cui accanto a Ecate e altre dee ctonie o lunari (Bombo, Gorgo, Luna) veniva invocata Mormo. Da ciò possiamo presumere che le Mormo avessero connessione con i poteri del fuoco.
Altre divinità simili, utilizzate nell’antichità dai genitori come spauracchio per i bambini che non volevano dormire – analoghe al più moderno uomo nero – erano, oltre a Mormo, anche Eurinome – tra le tante della mitologia greca, ci riferiamo alla divinità infera dedita a divorare i corpi dei morti – Gello, Alifto e Acco. L’etimologia di quest’ultima è affascinante: deriva probabilmente dalla radice del verbo akkìzomai (“faccio smorfie”, “ghigno”). Presso i romani divenne Acca, che significa “madre”, “tata” e quindi allude a una vicinanza molto stretta, quasi intima alla dimensione domestica e del bambino dalla quale addirittura veniva o poteva venire accudito.
Il personaggio più importante in riferimento a questa tradizione è sicuramente Acca Larenzia (o Larentia), figura semidivina romana. Probabilmente essa è ancora più antica e la mitologia romana la eredita da quella etrusca. Si tratta di una prostituta protettrice del popolo. Secondo la tradizione del filosofo romano Macrobio, la donna rimase in preghiera nel tempio di Eracle un’intera notte e il dio la ricompensò facendole trovare marito il mattino successivo. La prostituta convolò così a nozze con il ricco etrusco Taruzio, del quale ereditò gli inestimabili beni alla di lui morte. I beni vennero da lei donati al popolo romano che in suo onore istituì le feste Accalia o Larentalia il 23 di dicembre presso la tomba della donna. Di questa versione è di particolare interesse la data scelta per festeggiare la benevolenza della prostituta, periodo dell’anno in cui si festeggiava la luce divina che tornava alla superficie dopo un lungo soggiorno nelle tenebre. Allo stesso modo si nota come il luogo scelto per la festa fosse quello di sepoltura della festeggiata. Una seconda versione, più interessante se in relazione alla figura della Mormo, è quella che invece cita Lattanzio. Si dice, a riguardo, che Larenzia fosse la moglie del pastore Faustolo, l’uomo che trovò nel fiume i gemelli Romolo e Remo e li portò a casa propria, crescendoli come figli. Ecco che Larenzia – che prende anche il nome di Faula o Fabula – diventa non solo la madre di Romolo e Remo, pur non essendola di sangue, ma si sovrappone alla figura dolce e feroce della lupa, animale spesso associato all’oltretomba, ma che allatta e cresce i due fanciulli. La lupa è allo stesso modo associata alla lussuria, all’arte femminile della prostituzione sia sacra che profana, all’ambiente carico di sessualità del lupanare.
Si ritorna alle Lamie, alle Empuse e alle Mormo. E così alle feroci Baccanti che allattavano cerbiatti al seno e divoravano carne umana. Come Ecate, la triplice dea delle streghe e della morte; come Lilith e Lamashtu, divinità matrigne e malevoli demoni; come Acca Larentia che si prostituisce e fa da balia ai fanciulli, scopriamo alla fine che la luce e le tenebre, nell’immaginario antico, hanno confini estremamente labili.
Scilla Bonfiglioli