SANGUE E SOGNI – secondo brano

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

Ringraziando chi ha letto nel post precedente l’inizio del romanzo inedito che ho finito da poco di scrivere, pubblico qui di seguito un altro breve brano. Qui entra in scena il personaggio che sconvolge i piani e le convinzioni del protagonista: la donna di cui si innamorerà. Insieme dovranno affrontare la tortura dell’assurdo e della violenza, il dissidio tra verità e menzogna, e la ricerca, salvifica in senso stretto, della bellezza.
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Quel giorno, durante la presentazione di “Lacerti di sogni nel plenilunio boreale”, terza pubblicazione di Antonino Torcigliani, autore emergente, accanto a Dario, sulla sedia posta a dodici centimetri dalla sua mano sinistra, si pose d’un tratto una ragazza. Si sedette lì, come per caso. Iniziò ad esistere tramite il profumo. Non voleva guardarla, Dario. Era determinato a tenere gli occhi fissi sul bicchiere, o, al massimo, su qualche verso del libro di Torcigliani che qualcuno gli aveva sistemato davanti per permettergli di seguire meglio le letture. Era sicuro di farcela anche quella volta: quando imponeva a se stesso di escludere qualcosa o qualcuno dal suo campo visivo non c’era modo per quell’oggetto o quel soggetto di penetrare attraverso gli occhi nella mente. Quella volta fu sconfitto. Perse il braccio di ferro con quel profumo di donna alla seconda ripresa, dopo tre minuti e quattordici secondi. L’avversario era troppo forte, perfino per lui; aveva muscoli sinuosi e tendini flessuosi come seta. Alzò la testa verso di lei, sperando che fosse brutta. Anzi no, sperando che fosse banale, ordinaria. In tal modo non avrebbe dovuto nemmeno fare lo sforzo necessario per nascondere un moto fulmineo di ilarità. La guardò, più velocemente che poté. Non abbastanza. Non fu abbastanza rapido per riuscire a non sentire il cuore che accelerava da fare schifo, e paura, e meraviglia. Non abbastanza da non percepire fin dal primo istante l’immagine del precipizio, e, là sotto, una spiaggia assolata o una parete disseminata di spuntoni di roccia.
Con un lungo applauso finale del pubblico, forse di gioia estetica appagata, o forse di sollievo, la presentazione si concluse. Avrebbe potuto sgusciare via in sordina, Dario; nessuno lo avrebbe trattenuto e nessuno gli avrebbe chiesto niente. Fu il più ostinato dei suoi difetti, l’orgoglio, a fregarlo. Aveva scommesso con se stesso, per almeno una decina di minuti ininterrotti, che la donna che gli si era seduta accanto, scavando, indagando, andando al fondo delle cose, qualche difetto lo avrebbe messo in evidenza. Magari aveva una voce sgraziata, da pavone isterico, oppure aveva corde vocali lievi e un timbro di voce angelico e flautato, ma solo per emettere sequenze di suoni che dimostravano senza ombra di dubbio quanto fosse oca. La verifica avrebbe richiesto pochi minuti: si trattava di avvicinarsi a lei con una scusa, ai tavoli del rinfresco allestito nella sala attigua a quella della presentazione. Bastava chiederle se era del posto, o se aveva già partecipato ad altri pomeriggi letterari, o qualsiasi altra cosa. Una banalità qualunque avrebbe messo in moto il dialogo e il disvelamento.
L’approccio funzionò a dovere: la ragazza sembrava non attendere altro. Anzi, sembrava averlo tenuto d’occhio con lo sguardo, in modo discreto ma assiduo, fin dall’istante in cui era entrato nella saletta del rinfresco. Il sorriso con cui rispose alle parole borbottate da Dario, costrinse il nostro eroe a mettersi a sedere. Era diretto, preciso, forte come un pugno ben assestato, ed era luminoso, caldo come un raggio di sole nella foschia. C’era un solo tavolo in quella stanza, con due sedie poste l’una di fronte all’altra. Qualcuno aveva pensato anche a quello; il caso, il destino, o quello che sia, era efficiente anche in qualità di arredatore. La ragazza si catapultò sulla sedia di fronte a lui. Lo fece con tale gioiosa rapidità da non permettergli nemmeno di pensare di muoversi da lì, e concedendo a noi, invece, di smettere di definirla “ragazza”, chiamandola con il nome con cui si presentò, Martina. Per un istante si sentì in trappola, il nostro: alle spalle aveva un muro bianco punteggiato solo da poster e scialbi quadri, davanti aveva una bellezza che ad ogni sguardo gli esplodeva dentro, causando crolli e macerie e facendo sgorgare acqua sorgiva di piacere. C’era ancora in ballo, in ogni caso, la scommessa che aveva fatto con se stesso; e Dario era un giocatore disciplinato e scrupoloso. Si fece coraggio ed iniziò a sondarla, cercando l’immancabile magagna.
L’indagine non fu facile. Non lo agevolavano certo gli occhi di lei, profondi, fissi su di lui con determinazione serena. Per brevi istanti quelle pupille si chiudevano, come per effetto di una contrazione involontaria. Per lui non si trattava di un sollievo: ogni volta immaginava che quel contrarsi dei nervi di Martina fosse dovuta ad un dolore lontano ma ancora vivo, e tutto ciò accresceva un’attrazione che già reclamava corpo e fiato.

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