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Sanità. Ecco come i nostri ospedali si riempiranno di roba cinese

Creato il 23 novembre 2013 da Margheritapugliese

Siringa

I nostri ospedali rischiano di riempirsi di roba cinese. E non si tratta solo di siringhe, garze, deflussori, insomma: prodotti a basso valore aggiunto, ma anche di apparecchiature salvavita e macchinari all’avanguardia. L’imprenditoria dagli occhi a mandorla (o quella italiana che delocalizza nella Repubblica popolare) arriva nei distretti sanitari italiani, copia (spesso anche molto bene) i risultati di anni di ricerche, su cui le nostre aziende hanno investito milioni di euro, e si presenta alle gare pubbliche, proponendo prezzi da ‘discount’ e condizioni ipervantaggiose. Per le magre casse pubbliche è una manna, visto che acquistano di più e a minor prezzo.
Ma così si ammazza la ricerca e si azzoppano le nostre aziende (molte delle quali terremotate, è il caso del biomedicale). E poi non lamentiamoci se le menti vanno all’estero. La colpa della politica? Nei bandi di gara gli investimenti in ricerca e innovazione non contano un fico secco. E’ una corsa al ribasso, ormai unico criterio conosciuto dalle amministrazioni pubbliche per procedere alla selezione di forniture e materiali. A molte aziende cinesi basta così vampirizzare le scoperte di casa nostra, produrle dalle loro parti (dove il costo del lavoro è infinitamente inferiore) e partecipare alle nostre gare pubbliche. La vittoria è quasi assicurata. E a queste condizioni è una vittoria facile facile.
In origine in corsia e in sala operatoria non era difficile trovare materiale asiatico tra le cosiddette commodities (prodotti a basso valore aggiunto), ora anche le apparecchiature più avanzate si stanno facendo largo tra i ferri del mestiere dei camici bianchi. Prodotti salvavita, suturatrici meccaniche, protesi, ecografi, strumentazioni avanzate per laparoscopia (video-chirurgia). Tutte ‘griffate’ con ideogrammi, a rivelare che negli ospedali del Belpaese le commesse si vanno a cercare a migliaia di chilometri di distanza, e per selezionare le ditte fornitrici ci si fa un baffo di cose come: investimenti sul territorio, capacità di creare tecnologia, valore aggiunto del prodotto, appartenenza territoriale delle aziende, posti di lavoro creati, indotto.
Anche nelle regioni a guida democratica occupazione e ricerca non hanno alcun peso nell’aggiudicazione delle gare. E’ il caso dell’Emilia Romagna, dove da quasi dieci anni si magnifica Intercenter, l’agenzia regionale per l’acquisto di beni e servizi (la centrale degli appalti, per dirla in breve) che ha oggi trentasei persone in organico, più un direttore. Se nel 2005 – primo anno di nascita – il quartier generale bolognese spese per appalti 109 mila euro, l’anno scorso toccò quota un milione 543mila euro. Guarda caso nel 42 per cento dei casi si tratta di gare per dispositivi medici, in cui figurano anche apparecchiature ad alta tecnologia.
Il resto sono medicinali (44 per cento), diagnostica (8 per cento), servizi sanitari (5 per cento), attrezzature (1 per cento).
E in futuro la Regione – accecata da risparmi illusori e virtuali (del 33 per cento, dicono da viale Aldo Moro) prodotti alle spalle di chi investe in ricerca – intende dopare ancora di più il sistema: nel 2013 la giunta ha previsto un’ulteriore iniezione di risorse a beneficio di Intercenter di 670mila euro. Di questo passo scordiamoci brevetti rivoluzionari e nuove scoperte. Ecco come poco alla volta si “asfaltano” le nostre imprese, i nostri settori d’eccellenza, la nostra ricerca, i nostri giovani cervelli, costretti a emigrare. E poi i politici piangono lacrime di coccodrillo lamentando che le aziende delocalizzano e investono all’estero.
E’ la globalizzazione, bellezza, rispondono molti amministratori. Nossignore, è solo il gusto tafazziano di farci del male.

Filippo Manvuller

(Foto http://www.flickr.com/photos/99501756@N04/)


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