Il podio di Sanremo 2014, con Arisa a prevalere nel rush finale sull'accoppiata Gualazzi - Bloody Beetroots e su Renzo Rubino, mette a nudo in maniera crudele una delle più colossali contraddizioni dell'elefantiaco carrozzone festivaliero. Sono arrivati a giocarsi il trionfo, escludendo addirittura dal "giro che contava" uno dei superfavoriti della vigilia (Francesco Renga), tre dei più pregiati "prodotti" sfornati nel precedente lustro dal vivaio della rassegna rivierasca, quella categoria "Nuove proposte" che invece, da troppo tempo a questa parte, non riesce più a trovare adeguata valorizzazione e viene, anzi, bistrattata oltre ogni logica: prima la riduzione di organico (solo otto concorrenti ammessi a partire dal 2011) e poi la collocazione televisiva a orari da sonnambuli, con l'unica, e tardiva, eccezione di venerdì, quando la gara degli esordienti è stata inserita a metà spettacolo. La conclusione della finalissima ha fotografato come meglio non si poteva l'inaccettabilità di questo trattamento: è uno dei principali punti deboli della manifestazione, un "buco nero" che dovranno affrontare di petto i futuri responsabili artistici: magari ricordando cosa riuscirono a fare Bonolis e Gianmarco Mazzi nel 2009, mettendo al centro dell'attenzione il concorso delle "voci nuove" con una serata dedicata, in cui i ragazzi furono "illuminati" dalla partecipazione di superbig della canzone nostrana, presenti al loro fianco nelle vesti di padrini e madrine. NON HA VINTO IL MIGLIOR PEZZO - 2009: l'anno dell'esplosione di Arisa, che ieri notte ha dunque completato il suo rapido processo di consacrazione. Un'affermazione che non desta scandalo ma che nemmeno entusiasma: "Controvento" è un brano furbo perché semplice e di impatto immediato, costruito con mestiere, quasi con un profilo basso, seguendo fedelmente la più tipica linea melodica festivaliera. Non è una delle cose migliori del repertorio della cantante genovese, soprattutto per ciò che concerne il testo, di una banalità quasi sconcertante: in questo senso, il confronto con "L'essenziale", la vincitrice di dodici mesi fa, è impietoso. Dei tre arrivati in fondo, sarebbe stata più meritata, e decisamente più significativa per l'albo d'oro e per il futuro del Festival, una vittoria di Raphael Gualazzi e del misterioso Bloody Beetroots, che hanno fornito un bell'esempio di... moderata contaminazione fra generi distanti anni luce. "Liberi o no" al primo posto sarebbe stato un emblema dello "svecchiamento" del Festival, e avrebbe avuto, storicamente, lo stesso peso della medaglia d'oro di Ruggeri nel '93 con "Mistero", una rottura della tradizione sanremese, un ampliamento degli orizzonti sonori. E anche un successo di Renzo Rubino avrebbe lasciato un segno più profondo, andando a premiare un esempio di cantautorato moderno, estroso ed ispirato. RENGA: DA PAPA A CARDINALE - Si diceva di Francesco Renga: quando Fabio Fazio, ieri sera, ha cominciato a parlare di "sorprese anche clamorose" in vista, ho pensato subito a una uscita dalla zona podio dell'ex Timoria. Si dica ciò che si vuole, ma "Vivendo adesso" fra le prime tre ci stava benissimo, sicuramente meglio di "Controvento"; anzi, senza mezzi termini, ci "doveva" stare: un pop contemporaneo, sorretto da un testo non banale e da un impianto musicale raffinato. Una canzone nel segno dei tempi come lo era stata quella di Mengoni nel 2013, forse un tantino meno immediata, e alla lunga soprattutto questo può averla penalizzata. Non se la prenda, il fascinoso Renga: non è certo il primo che entra in una finalissima da Papa per uscirne cardinale. Si prenderà la rivincita in altri ambiti, così come "Bagnati dal sole" di Noemi, che ha le stimmate del tormentone e il cui piazzamento (quinto, ma mai veramente in lizza per i primissimi posti) dà modo di annotare un'altra contraddizione di questo Sanremo 64: molti dei pezzi più "fischiettabili", il suo come quelli dei Perturbazione o di Giusy Ferreri, sono rimasti alla fine ai margini. Strano, per una rassegna canora alla quale si chiedono, da sempre, soprattutto canzoni di facile presa, e in cui persino la cosiddetta giuria di qualità ha preferito puntare sul classico sanremese piuttosto che su opere più elaborate.LIVELLO NON DISPREZZABILE - In generale, comunque, la sensazione è che il tempo darà ragione, sul piano della proposta musicale, alle scelte di Fazio e di Mauro Pagani. "Pazienza e aspettiamo", avevo scritto commentando il faticoso vernissage di martedì in riferimento alle canzoni. E in effetti, molte di esse alla fine sono uscite bene: quelle orecchiabili, radiofoniche e da hit parade sono un bel mucchietto, una percentuale persino inusuale se si pensa ad altre edizioni recenti, e i prodotti di pregio non mancano. Si è forse ecceduto, ecco, con la messe di premi attribuiti a "Invisibili", il brano eliminato di Cristiano De Andrè: la somiglianza del ritornello con il pezzo di James Taylor "Only a dream in Rio" (sottolineata con grande evidenza anche sul sito del "Corriere della sera", che non è propriamente un giornale parrocchiale) è stata frettolosamente messa da parte, laddove in passato certi giornalisti rigirarono oltremisura il coltello nella piaga in altri casi di "atmosfere musicali analoghe". D'accordo, l'intensità dell'interpretazione e il carattere fortemente autobiografico, ma che il pezzo non brilli particolarmente per originalità lo si può dire senza essere accusati di lesa maestà?
CROZZA, LOW PROFILE - La serata finale è filata via sostanzialmente senza picchi particolari, nel solco di un'edizione fiacca, le cui debolezze sul versante spettacolare abbiamo già sufficientemente passato in rassegna nei giorni scorsi. A meno che non si voglia considerare "picco emozionale" la performance di Ligabue: la speranza, lo ripeto per l'ennesima volta, è che mai più venga concesso a un cantante italiano sulla cresta dell'onda di andare all'Ariston a cantare, fuori concorso, due canzoni tratte dal proprio recente e vendutissimo album; è stata, semplicemente, un'ospitata senza senso, poco rispettosa dei canoni festivalieri e degli altri artisti in gara. E non c'è stato da spellarsi le mani nemmeno per Maurizio Crozza. Deludente, perché se accetti la sfida di tornare a Sanremo dopo la tempestosa esperienza del 2013 devi correre il rischio fino in fondo: invece l'entrata in scena con uno scudo (per parare eventuali nuove contestazioni) non è stata solo autoironia, bensì l'annuncio di ciò che sarebbe effettivamente accaduto dopo: un monologo col freno a mano tirato, costruito su una difesa a spada tratta del genio italiano in confronto a quanto prodotto dalla cultura di altri Paesi: non molto elegante, e nemmeno troppo innovativo. Gli unici personaggi politici sfiorati dalla satira sono stati Giovanardi e Razzi, bersagli fin troppo facili, oltre alla piccola parentesi dedicata a Renzi, peraltro l'uomo del giorno, trattato senza affondare i colpi; meglio la performance conclusiva che ha esaltato le notevoli qualità tenorili del comico genovese, da lui sfruttate sempre con eccessiva parsimonia. BRAVO STROMAE, MA LA GARA SU TUTTO - Del tutto superflui i passaggi di Claudia Cardinale e Terence Hill (perché non si è tenuto per l'Ariston il divertente sketch del duello in stile "Mezzogiorno di fuoco", messo in scena con Fazio a "Che tempo che fa"?), il migliore fra le guest stars è stato decisamente il belga Stromae, un autentico animale da palcoscenico, uno che ha saputo rielaborare in chiave modernissima un classico genere musicale alla francese. Ma il vero sale, nella finalissima, lo ha portato proprio la gara, a dispetto di chi vorrebbe eliminarla e di chi si ostina, con scelte artistiche discutibili, a metterla in secondo piano rispetto alla cornice di ospiti più o meno prestigiosi: una gara emozionante, impreziosita da performance sempre all'altezza (tutti i cantanti sono parsi molto in palla, pochissime le sbavature di esecuzione) e resa avvincente da un'incertezza che non si vedeva da anni: nelle ultime edizioni, alla sfida conclusiva era arrivata sempre una canzone più accreditata di altre, anche se di poco. E quando il pathos della tenzone aumenta, ne guadagna in godibilità lo spettacolo. Spettacolo da rivedere profondamente in futuro, nelle sue linee generali: in conferenza stampa, ieri, il direttore di Rai Uno Giancarlo Leone ha "abbozzato" alla domanda di un giornalista che metteva sul tappeto la possibilità di un Fazio ter, ma credo che ripartire dall'anchorman savonese dopo un'edizione così tormentata sia un rischio che né l'ente televisivo di Stato, né lo stesso presentatore possono permettersi di prendere. Ne riparleremo.