Sant’Efis sballiau

Creato il 01 maggio 2014 da Lacagliaritana

di Mario Salis

Non si tratta di un epiteto irriverente, né di un anatema profano. Ma di una delle tre statue di Sant’Efisio, la più sconosciuta che vive in un regime di semi clausura e col rispetto parlando, la meno prestante Sicuramente la più antica, deve la sua denominazione all’errore del suo artista che pose nella mano destra, e non nella sinistra come la tradizione vorrebbe, la palma simbolo del martirio, il simbolo della croce sul palmo della mano sinistra; databile nella seconda metà del Cinquecento, di probabili origini bizantine come testimoniano la foggia de suoi calzari, veste un mantello a coprire la spalla sinistra che ricade sul braccio sinistro, sotto una tunica legata in vita lunga fino ai polpacci. Sembra pensare ad altro con uno sguardo serafico illeggibile in avanti. Ma Sant’Efis Sballiau nella phraseologia karalitana, è volto anche a definire l’aspetto di un viso contornato da mustacchi e mosca alla Handlebar and Chin puff, tanto da sembrare una brutta copia del Santo che li porta guizzanti ed eleganti alla catalana. Ma il simulacro più noto, di un autore sconosciuto è quello portato nella processione del 1° Maggio, che abitualmente dimora nell’altare della Cappella di Sant’Efisio. Dopo cinque restauri più o meno autorizzati, non sempre a regola d’arte, di due solamente resta traccia. Nel 2010 passato ai raggi x, il pezzo unico di tronco di pioppo su cui è scolpito, si è proceduto ad una profonda ripulitura, sotto il controllo della Soprintendenza dei Beni Storici Artistici della Provincia di Cagliari ed Oristano, riportando alla luce i suoi antichi colori: l’armatura in foglia d’argento e oro, il gonnellino azzurro oltremare e non più verde, gli stivali color oro, non più rossi. Il viso probabilmente non ha le stesse fattezze ideate dall’autore, forse anche le gambiere, ma per il rispetto dei fedeli non si poteva certo sconvolgerle le auguste sembianze, mentre lo stato di conservazione raggiunto è a prova d’usura delle migliaia di mani dei fedeli che toccano il Santo. Il suo sguardo è rivolto verso il cielo, nell’estasi della visione della croce. La statua attribuita a Giuseppe Antonio Lonis, scultore di Senorbì con bottega in Stampace, dimora in sa Coccera, la stanza dov’è riposto il cocchio dorato, interessato anch’esso da un recente restauro conservativo. Il lunedì dell’Angelo abbandona la chiesa di Stampace per raggiungere il Duomo non prima di aver sostato nella cappella del convento delle monache cappuccine di clausura. Le sue notevoli dimensioni non permettono il suo ingresso nel cocchio, il suo breve viaggio cittadino con l’elmo piumato, scioglie il voto fatto per scongiurare l’assedio dei francesi del 1796, mentre quello che inizia il primo maggio si occupa della grande peste del 1652. Questa statua, durante l’assenza del Simulacro in viaggio verso Nora, viene esposta al centro della chiesa. Tutto è pronto per la 358° edizione della Sagra di Sant’Efisio i due imponenti esemplari di buoi modicani S’Amigu e Pagu Fidau di Sarroch, domati magistralmente per girare su una pianella, come quando accadrà nella piccola piazzetta di Stampace, hanno preso il testimone da Mancai ci Provasa e non ci Arrenescisi che lo scorso anno hanno condotto e poi riportato Efis, con loro passo da parata tremolante in città e di gran carriera, sostenuto lungo il percorso. La Sagra si annuncia sfarzosa e multicolore nei suoi aspetti cromatici dei costumi variopinti e di gala. Avviato il dossier dall’Amministrazione Comunale di Cagliari per l’iscrizione nel nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità, secondo appunto i principi stabiliti dalla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO, il Santo sbarca anche in rete e diventa Social con foto, post, tweet. Sui social network, si potranno seguire le tappe del suo viaggio verso il luogo del martirio. La Sagra già da anni dispone di una sapiente e collaudata regia, che non sempre fa fede delle tradizioni più autentiche, ma rappresenta un significativo ambito di necessaria ricomposizione e di un dignitoso ordine, che una processione religiosa richiede. Si ripropone il dibattito a Cagliari come ad Oristano con la Sartiglia, a Siena con il Palio come alla moltitudine di analoghe manifestazioni che si svolgono nelle più antiche contrade del Paese, sulla salvaguardia dei più antichi riti e consuetudini, talvolta messi in serio pericolo dalle esigenze scenografiche dei mass media, e dalle virtuose implicazioni di natura turistica e di ricadute economiche. Si possono certamente condividere tali sollecitazioni, ma d’altra parte non si può interdire un nuovo corso di valorizzazione delle tradizioni, se ciò avviene nel rispetto dei suoi valori fondamentali.

La Sagra è in assoluto una delle manifestazioni sarde più immortale nelle immagini, e più filmate, così fin dai primordi delle riprese cinematografiche. Basta vedere alcuni resoconti filmati dal 1955 al 1958, laddove si vedono sfilare traccas insolitamente con gioghi di mucche, con il corpo decorato da coccarde colorate, che sul giogo espongono un cinghiale imbalsamato. Addirittura un carro è addobbato come un’improbabile nave, più consona ad una sfilata del carnevale viareggino che ad un’austera processione. Inoltre si assiste al lancio di ogni ben di Dio: goliardica artiglieria di pistoccheddus e pirichittus che s’infrangono sul pubblico divertito; esibizioni di audaci cavalieri, degni del circo itinerante del colonnello William Cody alias Buffalo Bill, nell’intento di sfidare i butteri maremmani, oppure evocando le gesta equestri della battaglia di Little Bighorn. Ora per fortuna non è più così. Ma se voliamo trovare l’anima più intima ed intensa della festa di Sant’Efisio dobbiamo andare alle immagini del 1° Maggio 1943, dove proprio nulla c’era da festeggiare. Un documento storico etnografico eccezionale, e grande è il tributo che dobbiamo al concittadino e cineamatore Marino Cao autore con la sua Kodak 8 mm. di quel prezioso cortometraggio. Sue e solamente sue, sono quelle immagini esclusive, le altre sono suggestive ma inattendibili sequenze, realizzate con la tecnica dello stop motion. Ma Cao non fu un semplice e coraggioso cineoperatore, in quei tempi era severamente vietato fotografare, figuriamoci filmare, la connivenza col nemico era punita severamente con la pena capitale, tanto è vero che altre immagini sulla Cagliari bombardata furono girate al riparo di una custodia di un’ingannevole busta di carta straccia. Ma seppure visto, quel giorno chi non poteva tollerare? Sull’affascinante bianco e nero di quei fotogrammi, riverbera il chiarore sinistro abbagliante, emanato dalla continuità del cumulo di macerie. Due uomini appositamente comandati, provvidero al loro sgombero per consentire il transito di quel triste corteo, che neppure lontanamente ricordava un’antica festa. Cao era convinto che Efisio avesse bisogno di vedere la città irriconoscibile, come i suoi fedeli di invocarlo ancora una volta. Attraverso il segretario aggiunto del Prefetto Leone, il Signor Augusto Tamponi, fu possibile rintracciare il sacerdote che deteneva le chiavi della chiesa di Stampace. Appena dentro, mentre dalle finestre quadrate dell’imposta della volta, penetrava la luce alimentando l’effetto irreale della polvere sospesa, trovarono Efisio balzato fuori dalla nicchia, scaraventato prono a terra, miracolosamente illeso se non un per un dito rotto. Tracce impercettibili del particolare, appena visibile anche dopo il restauro. Non si ha notizia delle altre statue, anche loro scampate al disastro. E’ allora che Cao si convince di quella che già si delineava un’impresa, sciogliere il voto anche in quel tragico 1943. Del resto gli imprevisti nel corso del rito pluricentenario non sono mai mancati: la sua partenza fu rinviata di circa un mese, un’altra posticipata di sette giorni, poi con il corteo solo a piedi, miliziani e guardiania a pei in terra; mutamenti di percorso attraverso i paesi dell’interno e da Capoterra di nuovo a Maddalena Spiaggia; immediatamente dopo la Grande Guerra furono le spalle dei reduci del 1915/18 a trasportarlo. Più di recente nel 1958 un cavallo nevrile con sopra un malcapitato mazziere, esce pericolosamente di gran carriera dal Comune, frenato a stento da un palafreniere, sicuramente un carabiniere dello squadrone a cavallo d’istanza in città, vestito come altri suoi colleghi da miliziano, riconoscibili dagli “originali” per il fatto che calzavano al posto delle ghette, lucidi stivali neri. Negli anni Sessanta una foto del sito stampacinidoc.it a cura di Giuseppe Marcialis – una straordinaria galleria del quartiere di Stampace – mostra un solo mazziere affianco dell’Alternos sostituito da Tore Melis decano della Guardiania, infatti poco prima un recalcitrante cavallo – piuttosto che i brachiformi mansueti cavalli di Masnata – da tiro agricolo pesante, aveva spedito all’ospedale il secondo mazziere, quando impennandosi poco dopo la piazzetta della chiesa lo aveva rovinosamente disarcionato. Cao in quei giorni, incurante dei bombardamenti del 31 marzo, nella fine aprile del ’43, fu allora che decise di intercedere presso il Vescovo Monsignor Ernesto Maria Piovella, sfollato a Nurri. A quell’istanza il prelato esitò esclamando – ma come fa Efisio a partire senza la sua pompa! Replicò subito – Eccellenza, Efisio ha bisogno di vedere la sua Cagliari martoriata e la sua gente di invocarlo – Piovella con la sua proverbiale bonomìa, impartì come una benedizione: Cao va, fai partire Sant’ Efisio! Né cocchio di città di legno dorato, neppure quello di campagna del Settecento come pure il crocifisso ligneo dello stesso periodo, Guardiania e Milizianus, chissà su quale fronte soffrivano, senza nemmeno i ciondolanti Lantioneris. Il mezzo più idoneo si rivelò il camioncino Millecento cassonato, quello si in nudo legno, di Giannetto Gorini – nulla di quel fasto già annotato da Alberto Della Marmora nel suo Itinerario dell’Isola di Sardegna pubblicato nel 1860, con la cornice del corteo disegnata con il caracollare di cavalli focosi. Inchiodato sul pianale, avanzò con una insolita fissità, piuttosto che col sussiegoso incedere tremolante del cocchio, impresso dal passo cadenzato de is mallorus arrubiusu. Si fece comunque largo tra le macerie. Sono le prime luci del mattino, prima della puntuale ora che uccide delle fortezze volanti, dalle dieci alle undici del mattino. Una panoramica sulla facciata sberciata di Sant’Anna, le cupole sventrate ridotte a metà come una semplice esedra, la scalinata danneggiata dai detriti, sono l’omaggio tragico di una città ferita. L’imbocco in via Azuni fa angolo con alcuni ragazzini a pantaloni corti, uno scalzo, da dietro un altro che prima di segnarsi la fronte con la croce, sembra accennare ad un rapido saluto da balilla.

Due vigili segaligni, visibilmente smilzi come gran parte di un migliaio di figure, rimaste nel capoluogo, concentrate soprattutto nell’inviolato viale Merello, lo attorniano come un feretro se non fosse per un drappo colorato che cingeva i fianchi del mezzo. Sono il labile ricordo di quel che rimane di una munita scorta. Nello slargo di Piazza Yenne appena dietro le rovine di un palazzo imploso su se stesso – dove sorgerà il “grattacelo” del Banco di Roma, si intravvedono gli unici onori protocollari resi Santo Soldato, un ufficiale italiano di spalle, ferma al suo fianco destro la bicicletta e saluta militarmente porta la mano destra al suo copricapo. Alla sua sinistra un soldato tedesco, stende la mano in avanti con teutonica determinazione. Il corteo si allarga appena al centro della piazza della stazione, centrata dalle bombe sul lato sinistro, i suoi giardinetti furono il sudario di giovani studenti universitari vittime dei devastanti spezzona menti. La scenografia sullo sfondo è uno spettrale palazzo Vivanet con la sua architettura neogotica squarciata verticalmente, ingoiando il ristorante Moderno tra le urla di chi vi rimase sepolto oppure impotente sui piani sospesi, secondo la testimonianza del Dottor Flavio Dessy Deliperi – ancora oggi è visibile la sua ricucitura con i nuovi mattoni avvenuta nel secondo dopoguerra. L’autista Giovanni Vargiu, guida lentamente quell’insolito cocchio ad autotrazione. A Giorgino non si cambia, non ci sono abiti di campagna da indossare, ori da riporre, ci sono invece marinai e militi dell’antiarea con le loro fotoelettriche. Hanno le divise in disordine, qualcuno tenta senza convinzione di irrigidirsi sull’attenti, ma tradiscono i loro sguardi infossati, sono assenti come assorti in una composta supplica, insieme a quelli materni di alcune donne. Un uomo armeggia vistosamente con una pompa a mano, per ridare tono alla ruota destra del camioncino. Da quel momento in poi si può immaginare il proseguo del viaggio solo attraverso le parole del Cavalier Mario Atzori che grazie anche all’impegno del confratello Gigetto Boi, assicurarono continuità al consueto viaggio. La staffetta avviene su un furgone 500. Lì Efisio può essere sistemato solo supino, gli viene preparato un rudimentale lettino, a Sarroch non lo aspettavano se non dopo il suono a distesa delle campane, lo accolgono volti che parlano con la bocca cucita della madre dell’ucciso di Ciusa, oppure si aggiustano nervosamente il velo, quasi a nascondere le lacrime della disperazione che le si legge chiaramente in volto. Una processione veloce, poi a San Pietro dove lo attende un altro corteo. A Pula il parroco fa solo la messa non se la sente per la processione, ma all’uscita del paese, come un tacito ordine misteriosamente diramato, migliaia sono le persone appalas de Sant’Efis per accompagnarlo fino a Nora. Per fortuna non succede nulla, gli aerei a doppia coda non disegnano minacciosamente il cielo, asinunca unu macellu! Di nuovo verso Pula questa volta con processione, verso Sarroch e finalmente a Cagliari. Anche quell’anno Annunziata Cannas vestita da Germana seguì il Santo come da un decennio con altre consorelle, per un voto al Santo, a piedi fino a Nora e ritorno. Tornavano in condizioni pietose, assurdamente doloranti, dopo il disagio degli alloggi di fortuna, ma si narra di una donna uscita incolume pur essendo travolta da una ruota posteriore del carro. Il motivo di quel gravoso voto, neppure a distanza di oltre sessant’anni dalla sua morte, non può essere svelato, ma nelle sue preghiere sicuramente vi era la supplica per il ritorno salvi, dei suoi due figli partiti nella guerra per mare. Uno sopravviverà all’inferno dell’affondamento della Corazzata Roma, l’altro tornerà provato ma ancora vivo da un altro, più lungo e doloroso pellegrinaggio, quello nei campi di prigionia, dopo aver combattuto nei fanti della Marina del Battaglione San Marco.

Avanti in età, scendeva ancora dalle scalette di via Porto Scalas a pochi metri dal Portico dello Sperone, per salutare e ringraziare ancora il Santo, chiedendo scusa ad alta voce puitta is forzas non mi du permittinti! Riuscì ad esaudire il sogno di una vita, andare a Roma per vedere San Pietro. Nel trionfo affrescato della Capella Sistina per Maria Assunta in Cielo, opera dei migliori artisti italiani del Quattrocento, cercò ingenuamente e senza esito il suo Santo Martire, neppure l’ombra dell’umile e poco prestante Sant’Efis Sballiau. Ma Sant’Efis esti nostru et unu scetti, e se non come unu de nosus dei quartieri alti, è sicuramente come nei versi dell’autentica Crespellani: “a su sonu ‘e sa cannuga, dognunu s’inginugara preghendi: Sant’Efis gioiosu esti passendi, issu de dogna beni sciri s’arruga”. Nelle tenebre illuminate del rientro, in Stampace sarà come sempre: Alloddu Efixeddu esti torrau! Ed ogni simulacro; del Lonis, quello di autore ignoto, ognuno con la sua grazia insieme a Sant’Efis Sballiau, torneranno e resteranno al loro posto.

fonte: Cagliari Globalist


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