di Giampiero Petrucci
L’arcipelago di Santorini è situato nel Mar Egeo, nella parte più meridionale delle isole Cicladi, circa 120 km a nord di Creta. Oltre che alla bellezza del paesaggio, deve la sua fama mondiale al suo vulcano, sede di una devastante eruzione verificatasi verso la fine dell’Età del Bronzo.
Il problema della data. Gli scienziati non sono d’accordo e la datazione esatta di questo disastro, tra i più violenti di tutta la storia dell’umanità, è ancora in discussione: le evidenze archeologiche (da Creta all’Egitto) e le datazioni col radiocarbonio non paiono convergere, lasciando il campo aperto a due ipotesi fondamentali le cui rispettive date sono lontane almeno 100-150 anni. Al momento comunque la tesi più accreditata fa oscillare l’eruzione nella seconda metà del 17° secolo a.C., tra il 1650 ed il 1600 a.C.
Il vulcano. L’attività eruttiva di Santorini iniziò comunque molto prima, almeno 2-3 milioni di anni fa. Il vulcano attuale fa parte di un complesso più ampio cui appartiene anche un altro edificio vulcanico, sottomarino, chiamato Monte Columbo, situato 6-7 km a nord-est di Thera, la più grande delle cinque isole componenti l’arcipelago. Sin dalla sua nascita il vulcano ha avuto fasi parossistiche alternate a fasi quiescenti, con formazione di depositi piroclastici a più riprese e con vario accrescimento geografico dell’isola di Thera che nel lontano passato doveva certamente essere più ampia di adesso, soprattutto nella sua porzione più occidentale. D’altra parte, trovandosi nell’area di subduzione tra la placca africana e quella europea, l’intero Mar Egeo (in particolare il cosiddetto “arco ellenico” che va dallo Ionio alla Turchia) è soggetto da sempre a fenomeni distruttivi, siano essi terremoti od eruzioni. Santorini si trova praticamente al centro di questo arco e dunque il suo destino, dal punto di vista tettonico, pare segnato.
Se la datazione esatta dell’eruzione non è ancora assodata, ben più certo è quanto accadde circa 3600anni fa sull’isola di Thera, allora di una forma quasi circolare, con un diametro di circa 16 km, e definita nella lingua locale come “kallistè” ovvero “la più bella”. Molte indagini, coordinate da scienziati di fama mondiale e provenienti dai cinque continenti, si sono succedute negli ultimi 50 anni al punto da far ritenere Santorini il vulcano più studiato del pianeta. Le attività di ricerca si sono affinate col tempo e se in un primo momento è stato dato maggiore impulso ai rilevamenti subaerei, negli ultimi anni s’è proceduto soprattutto con lo studio dei fondali marini attraverso batimetria, carotaggi e prospezioni sismiche. Oggi sussistono pochi dubbi sul fatto che l’eruzione del 17° secolo a.C., definita minoica per la civiltà in auge in quel periodo nell’Egeo, si sia originata da un cratere nella parte centro-settentrionale dell’attuale caldera e che soprattutto sia paragonabile, per intensità ed effetti, a quella del Tambora nel 1815, giudicata la più devastante di tutti i tempi, con influenze climatiche sull’intero pianeta.
L’eruzione. La fase pliniana. Con molta probabilità, come attestato dagli scavi archeologici, l’eruzione fu preceduta da una serie di terremoti, alcuni anche di una certa intensità, associati a scosse più lievi, i cosiddetti “tremori”. Ciò in qualche modo avvertì la popolazione del pericolo e quando le prime ceneri iniziarono ad uscire dal cratere, gli abitanti fuggirono: prova ne sia il fatto che sull’isola non sono praticamente stati rinvenuti scheletri umani né tanto meno corpi carbonizzati come a Pompei. In effetti l’eruzione ricorda per caratteristiche quella del Vesuvio nel 79. Anche a Santorini infatti la prima fase eruttiva è caratterizzata dallo sviluppo di una colonna pliniana (termine che deve il nome a Plinio il Giovane il quale descrisse proprio il fenomeno vesuviano) ovvero di un immenso “fungo”, costituito da ceneri e soprattutto pomici (dal diametro fino a 30 cm), alto addirittura fino a 35-36 km. E’ probabile che questa fase sia diventata man mano sempre più violenta e che sia stata totalmente subaerea: non esistono infatti prove di un’interazione tra magma ed acqua. Dunque, doveva esistere già un cono vulcanico emergente dal mare. Il vento ha sospinto i prodotti eruttati esclusivamente verso est: sono stati infatti rinvenuti depositi di ceneri fino nell’interno della Turchia, a quasi 500 km da Santorini, a testimonianza dell’intensità eruttiva.
La fase critica. Ad un certo punto, probabilmente da alcune fratture createsi nel cono (forse a seguito di frane), l’acqua marina entra in contatto col magma e l’attività diventa freatomagmatica ed esplosiva, con lo sviluppo di flussi turbolenti, detti anche “nubi ardenti”, composti generalmente da gas e particelle solide (ceneri e pomici) di varie dimensioni. Se prevale la fase gassosa il flusso prende il nome di surge, se invece predomina la fase solida di flusso piroclastico: eterogenei nel tempo e nello spazio, viaggiano ad una velocità notevole (da 100 a 300 km/h), posseggono una temperatura di almeno 600 °C ed un’altezza fino a 300 metri. A Santorini essi si sviluppano in tutte le direzioni, trascinando frammenti anche metrici e pomici generalmente arrotondate fino ad una distanza di 7-8 km. In una terza fase questi flussi diventano ancora più potenti ed energici: molto più viscosi dei precedenti (e quindi più pesanti) entrano in mare con grande potenza, generando depositi spessi fino a 50 metri, caotici e massicci, caratterizzati da una forte presenza di materiali litici anche di grandi dimensioni (fino a 10 metri di altezza!), vere e proprie “bombe vulcaniche”. Nell’ultima fase, proprio come nel Vesuvio del 79, la parte sommitale del vulcano collassa e crolla su sé stessa, sviluppando una caldera: l’eruzione continua, con altri flussi meno potenti e prodotti finali ignimbritici, con depositi dalle dimensioni minori. L’equilibrio rimane instabile, si susseguono le frane ed i fianchi dell’edificio vulcanico rimanente vengono poi dilavati dalle piogge. Alla fine l’eruzione, la cui durata è stimata in circa quattro giorni, termina, lasciando il paesaggio irriconoscibile e devastato, con il mare al posto della precedente isola vulcanica. Recenti studi portano a ritenere possibile che il materiale eruttato complessivamente sia di circa 60 kmc: ciò fa di questa eruzione la seconda più vasta di tutti i tempi dopo quella del Tambora (circa 100 kmc).
Lo tsunami. Se non è stato facile identificare la data esatta dell’eruzione e ricostruirne le fasi, ancora più complicato pare risalire alle caratteristiche dello tsunami ad essa associato. Già Platone, nel Timeo e nel Crizia, parlava di una favolosa isola, sede di una civiltà eletta, spazzata via da un’immane cataclisma del tutto simile ad un maremoto: molti autori hanno identificato la sua Atlantide proprio con Santorini. Altri, unendo fantascienza e fantastoria, hanno associato questo evento addirittura al passaggio del Mar Rosso da parte degli Ebrei guidati da Mosè: causa lo tsunami, le acque si sarebbero prima ritirate e poi abbattute sull’esercito del faraone. Un’ipotesi quanto mai discutibile. Gli scienziati, più opportunamente e come loro costume, hanno badato a cercare conferme tangibili, ultimamente anche sul fondo del Mediterraneo. Ne esce un quadro ancora parziale e che fino a pochi anni fa puntava soprattutto ad Est. Nessun dubbio comunque sull’effettivo sviluppo di uno (o più) tsunami, a seguito dell’eruzione. Un recentissimo studio, presentato alla conferenza di Rodi del giugno 2012 da un team internazionale di autorevoli oceanografi e vulcanologi (tra cui Sakellariou e Sigurdsson), propone un’interessante teoria riguardo all’origine dello tsunami che sarebbe provocato da più cause, non necessariamente coeve. Ricordando esempi similari a noi più vicini nel tempo (Krakatoa 1883 e Montserrat 1997-2003) e valutando la posizione dei corrispondenti depositi individuati sul fondo marino da carotaggi e prospezioni sismiche, la prima sorgente tsunamigenica è attribuita ad un potente flusso piroclastico che, dopo essere scivolato velocemente sui fianchi del vulcano, avrebbe raggiunto con violenza il mare, generando un’onda alta almeno 25-30 metri. La seconda sorgente è identificata con il collasso della parte sommitale e la formazione della caldera: l’onda così generata avrebbe un’altezza di circa 20 metri. Dunque, gli tsunami in questo caso sarebbero almeno due: resta da verificare un possibile sommarsi dei due effetti, con un’onda quindi ancora più alta.
Dove ha colpito l’onda? Certamente lo tsunami fu devastante, ma non è ancora completamente chiarito il suo sviluppo. Molti modelli, basati sulle conoscenze sempre più progredite, si sono succeduti ma le prove a conferma di queste teorie sono ancora scarse. Tuttavia proprio nell’ultimo lustro la caccia ai depositi di questo evento ha ottenuto buoni risultati. Sull’isola di Anaphi, una ventina di km ad est di Santorini, sono stati ritrovati livelli di pomici coperti da sedimenti alluvionali recenti a circa 350 metri dalla costa, ad un’altitudine di circa 50 metri sul livello del mare, per alcuni autori trascinati lì dall’onda di tsunami che avrebbe raggiunto quelle coste nel giro di dieci minuti. Altre evidenze simili sono state individuate a nord fino all’isola di Samotracia, ad est a Lesbo e Rodi, ancora più ad est sulle coste della Turchia, di Cipro e perfino di Israele, dalle parti di Jaffa, dove l’onda avrebbe avuto un’altezza di circa sette metri e sarebbe arrivata almeno un’ora e mezzo dopo l’inizio dello tsunami. Ipotesi quest’ultima tutta da verificare secondo altri autori, con i depositi che potrebbero essere dovuti ad altri tsunami dell’antichità. Tuttavia l’aspetto più interessante risiede a sud, in particolare nell’isola di Creta, distante circa 120 km da Santorini, dove l’onda di tsunami, viaggiando ad una velocità di circa 500 km/h, sarebbe giunta nel giro di 25-30 minuti, con un’altezza di 10-12 metri, colpendo (in modo differenziato a seconda della morfologia dei fondali) l’intera costa settentrionale. Molte evidenze, archeologiche e geologiche, portano a ritenere l’evento ormai assodato così come appare confermata l’ipotesi che l’economia della civiltà minoica, allora fiorente a Creta e nell’intero Egeo, abbia subito dal cataclisma un colpo praticamente mortale, vedendo distrutta gran parte della sua potente flotta navale e danneggiata sensibilmente l’agricoltura. Proprio per questo si parla di tsunami minoico.
E ad ovest? L’unica direzione ancora inesplorata rimaneva l’ovest. Il primo indizio importante è stato trovato sul fondo del mare tramite carotaggi e prospezioni sismiche, a diverse decine di km da Creta, in direzione ovest/sud-ovest. E’ stata individuata infatti un’unità sedimentaria molto particolare, simile al deposito di una torbidite (una sorta di frana sottomarina che scivola sulla scarpata continentale) e che rappresenta una mobilizzazione e rideposizione su fondali molto profondi di depositi pelagici non consolidati. Le nette differenze riscontrate tra la composizione di questo livello, di spessore plurimetrico, con il substrato e con il soprastante ha portato a ritenere la sua origine non legata ad un fenomeno torbiditico in senso stretto. Il fatto che stratigraficamente questi livelli occupino la stessa posizione dei depositi piroclastici di Santorini (di fatto sostituendoli), la datazione col radiocarbonio e l’evidenza che essi rappresentino la rilavorazione di una considerevole massa di sedimenti hanno portato all’ipotesi che provengano da un’origine ben precisa, comune, unica al punto da essere definiti homogeniti proprio perché derivanti da uno stesso fenomeno. In sostanza l’onda avrebbe “strappato” con violenza questi sedimenti da un fondo marino piuttosto basso per trasportarli lontano ed in profondità, verso ovest/sud-ovest. Molti autori indicano lo tsunami di Santorini, in particolare quello originato dalla formazione della caldera, come responsabile di questa deposizione mentre altri studiosi non concordano con questa teoria, preferendo attendere ulteriori analisi. In ogni caso le homogeniti dunque rappresentano una particolare tipologia di tsunamiti, altro termine entrato recentemente in voga tra gli scienziati ed atto a rappresentare il risultato di quei processi sedimentari ed idrodinamici legati allo sviluppo di uno tsunami ed alla conseguente alterazione del fondo marino e delle coste.
L’onda in Sicilia. La caccia alle tsunamiti è in pieno sviluppo per tutto il Mediterraneo ed anche sulle coste italiane. A questo proposito risulta particolarmente importante un recente studio, condotto tra gli altri dal dott. De Martini e dalla dott.ssa Smedile dell’INGV, relativo alla baia di Augusta, in Sicilia, storicamente interessata da diversi tsunami, come già ripetutamente descritto da MeteoWeb nell’apposito Speciale Tsunami Italiani. In questo sito sono stati individuati diversi livelli di tsunamiti sia sulla costa che offshore attraverso carotaggi e sismica a riflessione. Questi depositi, di spessore inferiore ai 20 centimetri, sono generalmente costituiti in prevalenza da sabbie, con presenza (talora abbondante) di bioclasti, microfauna e frammenti di conchiglie dall’evidente provenienza marina. Nell’interno della costa sono stati rinvenuti anche ad alcune centinaia di metri dall’attuale linea di riva. Per i sedimenti offshore appare particolarmente rilevante la presenza di foraminiferi epifitici cioè di microorganismi che vivono sulle alghe flottanti, dunque facilmente trasportabili da un’onda. Trovare i depositi con questi foraminiferi ad una profondità maggiore di quella in cui i microorganismi vivevano, è chiaro indice di uno spostamento provocato da un evento di grande energia, capace di trasportarli (anche con un’onda che “torna indietro” dopo aver colpito la costa) in altra sede. La datazione col radiocarbonio di questi livelli è la prova finale che porta ad attribuire ogni strato ad un particolare evento di cui si conosce la data più o meno certa. Ebbene, il livello più antico di tsunamiti riscontrato nella baia di Augusta corrisponde, con buona approssimazione, all’età in cui si sviluppò l’eruzione di Santorini. Dunque è molto probabile che l’onda dello tsunami minoico sia arrivata fino in Sicilia: è questa la prima evidenza dell’evento riscontrata ad ovest delle coste greche.
Situazione attuale. Oggi a Santorini arrivano turisti da tutto il mondo, con centinaia di migliaia di presenze all’anno, senza considerare le numerose navi da crociera che attraversano la caldera, in particolare da marzo a novembre. In effetti l’arcipelago rimane un’attrazione unica ma non si deve dimenticare che il vulcano è attivo e, come dicono molti studiosi, ancora “in buona salute”. Prova ne siano i numerosi crateri idrotermali, presenti soprattutto nella zona del Monte Columbo, a conferma di un vulcanismo ben presente e di un magma non troppo lontano dalla superficie. Nell’ultimo anno, tramite misure GPS, è stato inoltre notato uno spostamento di circa 5 cm della porzione settentrionale di caldera che lascia ipotizzare un’espansione (dunque una ricarica) nella camera magmatica e qualcuno ha lanciato un allarme cui però in pochi hanno dato credito. L’ultima eruzione è datata 1950 è comunque fu di dimensioni limitate: da oltre 60 anni dunque tutto è tranquillo e nessuno sembra particolarmente preoccupato. Ma il vulcano di Santorini appare ancora potenzialmente molto pericoloso: lo sanno bene gli scienziati mentre i turisti (e soprattutto chi li conduce) non dovrebbero mai dimenticarlo.
Fonte: Meteoweb