Sapessi com’è strano, ascoltare Morrissey a Milano

Creato il 12 luglio 2012 da Silvietta @Silvietta

10 Luglio 2012. Voglio davvero ringraziarti, Steven Patrick Morrissey: sei riuscito a fare della placida cornice del Teatro degli Arcimboldi di Milano un tempio dell’ammmmore per la buona musica e ad ipnotizzate per un’ora e mezza il vario e variopinto pubblico di cui ho avuto il piacere di fare parte.

In pole position in una tranquilla (a parte qualche tentativo riuscito di invasione sul palco – immensa stima a chi ci è riuscito!) platea, mi sono goduta a una quindicina di metri il caro Morrissey, in una splendida e pettoruta forma, per i suoi 53 anni. Ok, non è più il ragazzino, ma, diciamo la verità, a cosa ti servono i muscoli quando hai una voce del genere? No, perché eravamo già tutti al tappeto al primo accenno di “You have killed me“,  ed ecco che Morrissey cala subito l’asso: “Still ill“. Ciao. Moz ci ha totalmente in pugno, perché in quel momento ha la forza di un mito, gli Smiths.
Ora che siamo tutti tra l’esaltato e il nostalgico (Marr?! Dove sei, Marr?!), come riportarci sul suo repertorio da solista? Con uno dei suoi pezzi più forti: “I’m throwing my arms around Paris“.  Neanche un attimo di tregua, e siamo già tutti a inneggiare alla distruzione della noiosa città di villeggiatura di “Everyday is like Sunday“.

   

Morrissey non si risparmia. Stringe la mano a tutti quelli che gliela tendono, si esibisce in inchini e riverenze, suda come pochi (e lancia anche una camicia fradicia alla folla), ma la sua voce è impeccabile, così come perfetta è l’esibizione dei suoi rumorosi  musicisti, che possono fare un gran casino nella incalzante “Maladjusted“. Dopo la potenza, momento malinconico con “Last night I dreamt that somebody loved me” e con la magica “Ouija board, Ouija board“. Ma non è il caso di stare fermi: via alle chitarre di “Black Cloud“.

Torniamo magicamente negli anni ’80 (anche se il movimento di bacino Moz non lo fa più, credo su consiglio del suo osteopata), ci uniamo ai rapinatori di “Shoplifters of the world unite“. Capolavoro, emaniamo tutti amore (e sudore) per gli Smiths (Johnny! Johnny! Dove sei?!). Per distoglierci subito da questa domanda, Morrissey ci propone “I will see you in far off places” e l’inedita  ”Action is my middle name“.

  

Mi distraggo un secondo, e il momento dopo sono emotivamente rimasta stecchita. “I know it’s over“. Non so come descriverlo: un momento perfetto.

L’alternanza carriera solista/Smiths continua con due brani degli ultimi anni (“One day goodbye will be farewell” e “People are the same everywhere“) e il volutamente disturbante momento pro-vegetarianesimo di “Meat is Murder“. Dopo la cover “To give (the reason I live)“, la setlist si chiude con un trittico di pezzi fortissimi: “Alma Matters“, l’adorabile “You’re the one for me, Fatty” e l’accorata “Let me kiss you“.

Applausi. Uscita. Bis. Luci epilettiche e l’inconfondibile attacco di “How soon is now?“. Apoteosi. Il concerto è finito. Tristezza immensa.

   

Avevo solo 2 anni quando gli Smiths si sciolsero, e sono per forza di cose approdata “in differita” a questa sorta di fede mistica in Morrissey.
In un pubblico principalmente di quarantenni, agli Arcimboldi ho avuto il piacere di scorgere anche qualche genitore sui cinquanta con figlio adolescente al seguito: un raro caso in cui il secondo sembrava accompagnare il primo. Questo mi ha confermato (se ancora ce ne fosse bisogno!) che la poesia di Morrissey, tanto negli struggenti pezzi storici degli Smiths, quanto nei suoi più energici lavori da solista, sia una lingua universale; a volte un coltello che Moz rigira nelle nostre debolezze e delusioni (brividi veri durante I know it’s over), altre un balsamo di sarcasmo verso se stessi e gli altri, per sentirsi meno diversi, meno sbagliati, meno soli. Rivendicare i propri punti deboli (“My only wickness is a list of crimes…“), senza comportarsi da vinti o sconfitti. Con una sana, energica, sexy e sacrosanta ironia british.


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