"Sarabanda" di Salvatore Veca

Creato il 14 giugno 2011 da Sulromanzo

Autore: Jacopo Mariani

A te lettore, che come me stai pensando di avvicinarti per la prima volta a Salvatore Veca, dono un avvertimento, come Dante lo diede a chiunque volesse entrare nei gironi infernali. Un avviso, certo, non della stessa entità, ma che a mio parere dovrebbe essere ben stampato sulla copertina di questo libro. Perché la percezione che si ha dalle prime pagine è di avere fra le mani un libro dal linguaggio molto alto, a volte irraggiungibile. Non mi ritengo una persona che “sa tutto”, ma ritengo di avere una comprensione a 360 gradi, eguale a una qualsiasi persona che legga tutto sommato più di un libro al mese.

Eppure in questo libro io mi sono perso: se l'inizio è accattivante, la mia voglia di arrivare ad un “finale” (in seguito capirete le mie virgolette) si è dissipata durante la lettura.

Il tema attraversato da Veca è indiscutibilmente attualissimo, ovvero l'immigrazione. Fondamentalmente un argomento come questo, al di là del genere o della modalità di narrazione, dovrebbe tirare fuori qualcosa di duro, di violento. Una fuga dal paese natìo non è mai una cosa presa a cuor leggero, soprattutto se i protagonisti di queste storie di immigrati vengono da Iran, Afghanistan, ecc, ecc.

Dovrebbero essere un pugno nello “stomaco emotivo” del lettore, e invece le loro tragiche storie (anche se abbastanza banali e già viste) si perdono nella “prosa” forzata di Veca.

Non posso esimermi dal fare un esempio di ciò che intendo:

"Che dal sermone del Risvegliato, che dal gesto di Arjuna, che dalle parole di Krishna, lui ha guadagnato il succo, che è il pensiero della pietas e della compassione, ed è l'azione che ne consegue. E questo - per amore della verità -, solo questo ora è quello che resta. Dixit. Che lo consoli, nella confusione, nel dubbio e nelle molte perplessità, la voce ferma del Maestro del giusto mezzo".

Scrivere di immigrazione in termini così aulici e così poco raggiungibili dalla grande massa mi fa tornare in mente una frase del film Matrix Reloaded recitata dal Merovingio (qui il video) in cui dice una serie di parolacce in francese quasi come fossero una poesia, concludendo con la frase epica: “è come pulirsi il culo con la seta”.

Ed è quello che secondo me fa Salvatore Veca, il quale con le sue ampollose parole e il suo fornitissimo vocabolario tocca un argomento “sporco” con i guanti, senza sporcarsi. La prosa di questo libro è inesistente e la poesia è troppo lunga per avere la forza della poesia. Insomma, né carne né pesce. Riesce solo ad annoiare su di un tema che solo i leghisti erano riusciti a rendere meno interessante e stereotipato.

Tutta la struttura della narrazione è affidata ad una figura un po' enigmatica, un vecchio, un saggio, che a tratti prende la forma di Dio, a volte diventa lui stesso un naufrago, per certi versi un registratore di storie di immigrati: un classico caso, non di figura completa, ma di un protagonista che rimane nel limbo del divenire senza mai dare nessun tipo di pathos.

Il "finale" di cui prima parlavo, è virgolettato per il semplice fatto che non è un finale.

È un finale aperto? No.

È un finale interpretabile? No.

È un finale? No.

Si avvicina molto di più ad un poema dettato sotto l'effetto di un'estasi mistica provocata da qualche dio minore che prende possesso della scena e che porta soltanto una confusione che ci era stata risparmiata, ma non troppo, fino allo sbarco dei clandestini sulla terraferma. Sì, perché dopo che gli immigrati sono finalmente giunti a destinazione, l'autore, invece che concludere questo romanzo, incomincia uno sproloquio vaneggiante del vecchio protagonista che tira le somme (ma le tira molto lontano visto che personalmente non le ho trovate) di tutte le storie che gli sono state raccontate dai profughi.

Se questo libro voleva trasmettere qualcosa, viaggiava su frequenze troppo alte per me. Forse sono io che sono ignorante, ma fatemelo dire. Per un momento ho avuto nostalgia di Bossi che alza il dito medio in risposta ad un giornalista.

Poi, per fortuna, la nostalgia svanisce ma il libro rimane lì, nella mia libreria.


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