Saracena: storie senza storia

Creato il 02 settembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno


Chiunque voglia ricostruire la storia di un piccolo centro di provincia, la prima difficoltà che incontra e con la quale deve fare i conti è la scarsità delle “fonti scritte”, e, se diamo ascolto a un vecchio e noto adagio crociano, una storia senza relazione con il documento scritto è una storia inverificabile[1]. La storiografia di stampo idealistico sosteneva che senza documenti scritti è impossibile verificare gli eventi di qualsiasi epoca storica. Quando si pensa alla storia si ha in mente un certo tipo di storia, quella, ad esempio, appresa sui banchi di scuola, la storia delle nazioni, dei grandi imperi, o delle grandi correnti economiche e culturali. Quando si ha a che fare con queste realtà macrostoriche, la storiografia diventa una questione di «interpretazione», poiché in discussione non sono tanto gli eventi narrati, quanto il modo in cui, a secondo del contesto storico in cui si vive, quegli eventi vengono interpretati. Ed è in questo circolo interpretativo che entra in gioco il ruolo assegnato alla memoria. Per citare alcuni esempi, si potrebbe verificare come, sollecitate da circostanze contingenti, siano cambiate di “senso”, nelle diverse epoche storiche, le lotte dei Comuni contro l’Impero oppure il significato delle Crociate.
L’errore di prospettiva che si commette in questo tipo di esercizio storiografico è voler applicare un modello storiografico, elaborato per comprendere realtà ben più complesse e articolate, a realtà circoscritte e di proporzioni piuttosto modeste. La tendenza messa in atto è quella di voler assimilare la storia di una piccola comunità a realtà, appunto, di tutt’altre dimensioni e complessità, come se anziché parlare di un piccolo paese stessimo parlando di chissà quale grande metropoli o entità statale. Saracena è un piccolo comune della Calabria, che oggi arriva a contare poco più di quattromila abitanti, pertanto non è concepibile credere che sia possibile occuparsi della sua storia come se si trattasse di una grande nazione. Ogni piccolo “centro abitato”, e Saracena non fa eccezione a questa regola, rientra in una qualche citazione o memoria storica soltanto quando viene sfiorato o partecipa, per una ragione o per l’altra, a un processo di ben altre dimensioni. Altrimenti, raramente si conservano e si tramandano ai posteri i loro documenti “scritti”, attraverso i quali diventa possibile interpretare, almeno nelle sue linee essenziali, un quadro storico attendibile.
Non sempre possiamo addebitare questa incuria al disinteresse o al disamore per il passato del proprio luogo natìo. Il più delle volte è accaduto che tale incuria sia dovuta a ciò che si definisce mancanza di “senso storico”. Appare evidente che senza profondi mutamenti, tali da provocare degli scarti tra il presente e il passato, è difficile avvertire i passaggi cruciali della propria storia, senza i quali, nella coscienza di una piccola comunità, non si può formare il senso storico. Con ciò non voglio dire che in questi piccoli paesi non ci fossero dei sostanziali cambiamenti, ma soltanto che essi erano talmente lenti e quasi impercettibili che non suscitavano in chi li viveva il bisogno di registrarli e di tramandarli ai posteri. Difatti, l’unico avvenimento degno che i nostri antenati hanno considerato di essere tramandato oralmente è, in generale, quello legato alla propria fondazione, forse perché, come sospettava lo storico francese Lucien Febvre, sono proprio «i periodi delle origini che attraggono lo storico», in quanto «vi pullulano misteri da chiarire, resurrezioni da tentare»[2]. Ma, purtroppo, le scarse e lacunose notizie tramandateci dalla tradizione orale restano avvolte da una coltre leggendaria, che impedisce allo sguardo dello storico di chiarire quale nucleo di verità essa sottende. La leggenda, a cui, oltre alla tradizione orale, si richiama uno stemma dipinto su un polittico cinquecentesco – che oggi è riconosciuto come lo Stemma ufficiale del Comune – e che sin da bambino ha attirato la mia curiosità, si riferisce proprio al momento della fondazione di Saracena. Si narra, infatti, che il nostro paese abbia preso il nome da una Donna Saracina che, a capo di un manipolo di saraceni, aveva occupato quel sito, e che sorpresa nel cuore della notte dall’arrivo dell’esercito bizantino, abbia dapprima tentato una difesa e che poi sia stata uccisa non senza mettere in salvo una parte della popolazione. I pochi superstiti hanno costruito il paese nel luogo in cui lo vediamo adesso e in memoria della eroica resistenza della donna lo hanno chiamato “La Saracina”. Non v’è dubbio che anche a una superficiale analisi dei fatti una tale “storiella”, variata in diversi modi, non sia sostenibile, come vedremo analizzandola nel dettaglio, tanto da far dire a qualcuno che si tratti di una storia partorita dall’immaginazione secentesca degli eruditi del tempo. Sta di fatto che per arrivare a una verosimile soluzione ho dovuto abbandonare gli strumenti e i metodi della storiografia tradizionale e abbracciare i metodi e gli strumenti dell’antropologia culturale, trattare in sostanza quella leggenda come un “mito” delle origini e considerarlo come un fatto realmente accaduto ma completamente trasfigurato dall’immaginazione collettiva.
Come in tutte le culture in cui prevale l’oralità sulla scrittura, la memoria condivisa è affidata alle leggende e ai miti, che agli occhi di chi è estraneo o lontano da quella cultura si presentano come una sorta di geroglifici, di cui si è persa completamente la chiave di lettura, poiché la funzione del mito, e per taluni aspetti anche della leggenda, è trasfigurare a tal punto i fatti realmente accaduti da renderli del tutto irriconoscibili. Questo accade perché un mito, come ha insegnato René Girard, documenta una violenza collettiva, cioè i miti sono testi di persecuzione collettiva. Queste persecuzioni non lasciano tracce nei documenti scritti, ma si sedimentano in una memoria collettiva che di generazione in generazione subisce una serie di trasfigurazioni, per rimuovere il senso di colpa che le ha originate, sino a convertirle addirittura nel suo contrario: «Il trasgressore si trasforma in restauratore e persino in fondatore dell’ordine che egli ha trasgredito in un certo senso in anticipo. Il supremo delinquente si trasforma in pilastro dell’ordine sociale»[3].
Ora ciò che meglio fa risaltare l’effetto della leggenda è propria la quasi totale assenza di documenti scritti. Questa mancanza provoca questo effetto perché la scarsità di documenti scritti rende quasi inevitabile la scelta dello storico di concentrare tutti gli sforzi delle sue ricerche soprattutto sul problema delle origini. Ed è propria la mancanza di questi documenti scritti, a volte parziale altre volte quasi totale, a rendere difficile il compito dello storico di scrivere una storia interpretativa, perché non si ha modo di controllare la veridicità delle scarse e frammentarie notizie che ci sono state tramandate oralmente. Per quanto “misera” e “insignificante” appare la storia di un piccolo centro agli occhi degli storici di professione, anche questa storia può rivelarci dei lati sorprendenti, perché ci costringe a riflettere non solo sul significato da attribuire al valore delle ricostruzioni storiche, ma anche a prendere coscienza del fatto che, se si vuole operare una ricostruzione storica di uno di questi piccoli e “insignificanti” centri abitati, occorre elaborare un approccio storiografico diverso rispetto a quello usato per le realtà macrostoriche.
Il nostro modello storiografico non è quello di una storia interpretativa, valido per quelle realtà ricche di documenti, bensì quello di una storia congetturale, cioè una ricostruzione “ipotetica” che, basandosi sugli scarsi e labili appigli documentali, possa approssimativamente immaginare come i “fatti” si siano verosimilmente svolti, senza avere perciò la presunzione di acclararli come certi e inconfutabili.
In effetti, è proprio la scarsità delle fonti che ci induce a scrivere una storia congetturale, diversa rispetto a quella che solitamente siamo abituati a leggere e a studiare sui banchi di scuola. Per citare ancora Febvre, “la storia si fa, senza dubbio, con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare... Quindi, con parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari e con i collari da tiro”[4], e, a tutto questo, possiamo aggiungere i nomi toponomastici, le strade, i nomi delle contrade, delle famiglie, ecc.; poiché ogni nome conserva una traccia del nostro passato. Tutte le invasioni che si sono succedute nel corso dei secoli hanno lasciato una loro traccia del loro passaggio, non solo nei costumi e nelle usanze, ma anche negli oggetti di uso comune, nelle relazioni familiari, nei nomi delle famiglie, nei toponimi, ecc. Questa ricostruzione congetturale si potrebbe basare sull’assunto: “fino a prova contraria”, nel senso che la ricostruzione è attendibile e plausibile sino al momento in cui non spunti qualcosa che possa correggerla o confutarla in parte o in toto. In più aggiungo che, allo stato attuale, alla mia ricostruzione congetturale non si può opporre che un’altra ricostruzione congetturale, basata magari su altri elementi, magari che presenti un quadro storico più valido e attendibile, ma non è possibile uscire da questo modello fino a quando non verranno alla luce una miriade di ulteriori fonti inconfutabili scritte e non scritte. Inoltre, immaginare “come i fatti si sono verosimilmente svolti” non vuol dire affatto inventarli di sana pianta, ma soltanto svilupparli secondo una loro coerenza interna, mettendoli costantemente a confronto con i pochi dati certi che la cronachistica ci ha messi a disposizione.


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