Città fenicio-puniche
di Carla Del Vais
Questo articolo è frutto di appunti annotati nel corso di un'escursione a Tharros con la Prof.ssa Carla Del Vais. Si tratta di una mia elaborazione, eseguita trascrivendo le frasi dell'autrice. Mi scuso per eventuali errori, imputabili esclusivamente a mia imperizia nel riportare gli appunti.
La storia fenicia di questa città si svolge a partire dal IX a.C. circa, quando controllava il golfo di Oristano, insieme ad altre due città: Othoca, che si trova in corrispondenza del paese di Santa Giusta, e Neapolis, in territorio di Guspini. L’abbandono dell’area in età medievale ha favorito la conservazione del sito. La presenza di due necropoli che da molto tempo restituiva materiali preziosi ha attirato, dal Cinquecento in poi, cercatori di tesori che hanno saccheggiato le tombe. Le necropoli si trovano nel villaggio di San Giovanni di Sinis e a Capo San Marco. La prima è parzialmente coperta e rovinata da un villaggio per le vacanze impiantato negli anni Cinquanta. L’abitato punico si trova al centro, presso il colle sulla cui sommità si trova la collina di San Giovanni. Il villaggio era protetto dal maestrale, un forte vento che arriva da nord-ovest e investe il versante orientale del colle. La frequentazione di quest’area precede la fondazione della colonia da parte dei fenici. Con gli scavi condotti nel tophet, a partire dagli anni Ottanta, sono stati rinvenuti frammenti di tradizione cipriota e micenea che suggeriscono una frequentazione dell’area già alla fine del II Millennio a.C. L’insediamento era presente in età nuragica, e ciò costituisce un’ulteriore prova dell’interesse da parte dei nuragici per il mare. Abbiamo, infatti, un villaggio nuragico importante proprio nell’area in cui poi sorgerà il tophet, ma altri nuraghe si trovano su Capo San Marco e, probabilmente, sotto la torre di San Giovanni. Non conosciamo il rapporto fra i primi arrivati dall’Oriente e i nuragici. I materiali trovati sono fuori contesto e le prime certezze, quelle che riconducono ad una fondazione della città di Tharros, sono cronologicamente attestate all’ VIII a.C. I Fenici, che arrivarono prevalentemente dalla città di Tiro, non hanno lasciato tracce documentarie. Ad esempio nel tophet, che si sovrappone allo strato nuragico, non ci sono materiali riferibili alla fase di arrivo dei fenici, e il villaggio nuragico sembra essere stato abbandonato prima. La prima impressione è che nel momento in cui i fenici arrivano nel sito, i nuragici sono presenti solo nell’entroterra. Un segno importante è quello recente di Monte Prama, dove è presente una importante necropoli nuragica databile sempre intorno all’ VIII a.C. Questa necropoli ha restituito un manufatto di produzione orientale che si trovava dentro una delle tombe nuragiche, a dimostrazione di un contatto fra le due popolazioni in quel periodo.
Alcune necropoli sarde sono state indagate a fondo dagli archeologi, come quelle di Sulci-Sant’Antioco e Cagliari-Tuvixeddu. Possiamo affermare che la disciplina archeologica sarda, in particolare quella fenicio-punica, è nata proprio con gli scavi in questi siti e a Nora. Già il canonico Spano sulla base dei materiali recuperati, soprattutto nella necropoli meridionale, iniziò a parlare di colonie egiziane proprio basandosi sull’aspetto egittizzante dei manufatti. Si pensava che a Tharros, e in altre zone della Sardegna, ci fossero queste colonie, ma oggi sappiamo che gli artefici di quegli insediamenti furono i fenici, e che i materiali venivano importati o realizzati su imitazione di quelli orientali. A Tharros hanno lavorato vari personaggi importanti per l’archeologia e, oltre lo Spano, ricordiamo il generale Alberto Ferrero Della Marmora che in quel periodo controllava le torri costiere dell’isola, e soggiornò varie volte nella torre di San Giovanni. I soldati, visti gli scarsi compiti che dovevano svolgere, avevano tempo a disposizione per dedicarsi all’asportazione di ciò che trovavano nel sito. Carlo Alberto, nel 1842, venne col padre in Sardegna in pompa magna per una visita e, fra le attività che svolse, ci fu quella di scavare alcune tombe di Tharros. Nel 1850 il canonico Giovanni Spano scavò 5 tombe per una settimana e ci ha lasciato una descrizione puntuale, con disegni e schemi. Nelle foto scattate durante gli scavi si possono vedere le tombe aperte, proprio come si presentavano al momento dell’apertura. Nel 1851 avvenne uno dei fatti più gravi per la storia di Tharros: dopo l’intervento di un inglese, Lord Vernon, che fece scavi fruttuosi portando via 14 carri di materiali dei quali abbiamo perso le tracce nella zona di Firenze, si scatenò una sorta di caccia all’oro della durata di tre settimane, con oltre 100 persone del luogo che sconvolsero la necropoli. I materiali sono stati dispersi in molte collezioni private, e solo una piccola parte è stata acquisita dai musei di Cagliari e Sassari. Altri materiali sono finiti nei musei italiani e del resto del mondo. Un altro danno venne fatto da Gaetano Cara, allora direttore del museo di Cagliari, che fece scavi regolari pagati dal ministero, ma probabilmente vendette tutto ciò che trovò sotto falso nome. Erano 1700 pezzi e ancora oggi vengono battuti nelle aste a Parigi e Londra, o fanno parte di importanti collezioni. Dopo queste date, la necropoli è stata ulteriormente depredata e sappiamo che nel 1864, Filippo Nissardi, un ispettore di zona della soprintendenza di Cagliari, condusse delle ricerche nell’area e fece un primo rilievo in scala 1:500 della zona per stabilire i limiti della necropoli. Alla conclusione delle campagne di scavo, nel 1885, affermò che la necropoli era definitivamente distrutta, in modo irreversibile. Alla fine di quel secolo la situazione della necropoli era irrimediabilmente degradata. L’attività clandestina, invece, continua ancora oggi. La distruzione dei contesti delle tombe ha, tuttavia, consentito a diversi musei di acquisire molti pezzi che sono alla base degli studi. Ad esempio gli scarabei e i gioielli sono importanti per capire le vicende dell’epoca. La necropoli meridionale, in base agli studi fatti a partire dal 2001 dalle Università di Cagliari e Bologna, ha documentato qualche traccia dell’aspetto originale. In età fenicia, ossia a partire dal VII a.C., nel periodo in cui prevale l’incinerazione, le tombe erano delle semplici fosse scavate nella roccia. È stato recuperato qualche pezzo, come ad esempio un piatto. Nel 2002 è stata individuata una tomba ancora integra che ha contribuito a farci capire come era fatta la necropoli arcaica. Le tombe erano coperte con lastre in pietra ben cementate, e al di sotto c’erano i resti incinerati in deposizione secondaria del defunto con i materiali di corredo ceramico, costituito da brocche e da materiali che ricorrono spesso nelle tombe e sono utilizzati per i rituali funerari, ossia la preparazione del cadavere e la successiva incinerazione. In età successiva, quando arrivano i cartaginesi, la necropoli cambia. Nella prima fase i fenici arrivano in Sardegna fondando Cagliari, Nora, Bithia, Sulci, Monte Sirai, Tharros, Othoca, Neapolis e Olbia. Tuttavia sono entità autonome, non collegate fra loro e sfruttano l’immediato entroterra che serve per la loro sussistenza. Hanno una minima penetrazione verso l’interno, ma a partire dal VII a.C. Cartagine, una delle città fondate dai fenici, riesce a imporre la propria influenza culturale, economica e politica alle città della Sardegna, della Sicilia e di altri lembi di territorio costiero nel Mediterraneo. Si ha un passaggio culturale e rituale importante, e si va formando una politica unitaria, a carattere imperiale. La storia della Sardegna cambia, ma ci sono ancora forti legami con l’oriente.
Il primo cambiamento rilevante si nota nel rituale funerario: si passa dall’incinerazione all’inumazione, e si cambia da semplici tombe a fossa scavate nella roccia di forma ellittica, a fosse ben squadrate di forma parallelepipeda, per finire con le grandi tombe a camera. Le tombe sono coperte da grandi lastre cementate con argilla, e presentano delle riseghe sui lati per favorire la copertura. Le tombe a camera hanno un vano di accesso fornito di scale (dromos) che introduce alla camera per la deposizione. Quando le tombe furono tante, si presentò il problema dei vani d’accesso e delle scale perché spesso le camere si incrociavano e bisognava realizzare modifiche, ad esempio realizzare scale più strette.
Le camere tombali sono molto semplici, costituite da un vano rettangolare posto più in basso del livello del dromos, e a volte c’è un gradino nell’ingresso per favorire la discesa. In qualche caso sono documentati i segni lasciati dai piedi delle bare. A Tharros, recentemente, è stata confermata la presenza di pittura funeraria, simile a quella di Tuvixeddu. Anche a Sant’Antioco e Monte Luna di Senorbì abbiamo trovato tracce di pittura. Essendo applicata direttamente sulla roccia, è difficile trovarne tracce perché è delicata e con il tempo scompare. Dal punto di vista culturale, queste tracce mostrano chiaramente una presenza e una influenza africana dirette.
La necropoli settentrionale, indagata nuovamente dal 2009, si trova distante da quella meridionale, in un’area oggi occupata dall’abitato, ma negli anni Cinquanta era libera. Sono visibili solo alcuni lembi della necropoli e i nuovi scavi hanno documentato ciò che rimane. Dal punto di vista tipologico e cronologico è perfettamente uguale a quella meridionale. Le tombe mostrano, oltre al bancone in roccia scavato, anche un bancone in sabbia che suggerisce una arcaicità maggiore. Il corredo funerario si trova sia sopra che dentro la tomba. Sono stati trovati anche reperti come collane in pasta vitrea e gioielli in metallo prezioso. Lungo la costa ci sono altre tracce e si è scoperto che i tombaroli, per risparmiare lavoro, sono arrivati, in varie tombe, a sfondare direttamente il muro di separazione fra una camera e l’altra, risparmiando il vano d’accesso che, quindi, rimane integro.
A Tharros troviamo numerosi segnacoli funerari, e il sito è classificato come quello che ne ha restituito in numero maggiore, a parte Cartagine. Dovevano essere presenti in tutte le necropoli, ma si sono conservati raramente. Erano posizionati sui coperchi delle tombe, oppure utilizzati direttamente per chiudere le tombe a fossa.
Amuleti, orecchini e bracciali in oro, sigilli e scarabei in pietra dura sono fra i manufatti più importanti. A volte gli scarabei avevano la montatura in oro e raffiguravano simboli religiosi egizi come, ad esempio, il sole. Sul ventre, ossia sul retro, erano riportati i simboli per sigillare i documenti. In Mesopotamia, e altri luoghi nei quali si trovavano regni importanti, i documenti erano sigillati con le cretule, cioè palline di argilla sulle quali veniva impresso il simbolo. Nel mondo punico i documenti utilizzavano un supporto in papiro che poi veniva arrotolato, chiuso con una piccola corda chiusa con una bulla, ossia la pallina di argilla, e su questa veniva impresso il sigillo. Gli scarabei sono tutti differenti e ognuno di essi doveva essere la firma di una persona diversa. Per aprire il documento bisognava spaccare la cretula e il proprietario si sarebbe accorto della violazione del documento. Forse qualche scarabeo era utilizzato come amuleto, ma la quasi totalità era utilizzata per scopi pratici.
I gioielli erano realizzati su una lamina che veniva decorata con la tecnica della filigrana, ossia con minuscoli granelli d’oro saldati sulla superficie a realizzare dei disegni. Serpenti egizi, occhi di Orus e altre iconografie, ci rimandano all’ambito culturale orientale, ma non investono tanto la religiosità, sono probabilmente degli amuleti che dovevano proteggere le persone (bambini, puerpere, madri…) da pericoli specifici e venivano portati nella cintura o nelle vesti. Al museo di Cagliari si trova un bracciale con uno scarabeo quadri-alato, con testa di falco e, ai lati, dei motivi vegetali. Ogni oggetto aveva un valore magico specifico.
La città punica di Tharros non ha lasciato molte tracce perché si trova sotto la città romana. Ha vissuto dall’VIII a.C. fino ad età bizantina. L’abbandono è stato progressivo, ed è sancito definitivamente nel 1071 d.C. dallo spostamento della capitale giudicale e della sede episcopale ad Oristano. Ancora oggi si può notare che a livello del piano di calpestio ci sono rocce affioranti, pertanto sotto non può esserci alcuna struttura. Un elemento di rilievo sono le fortificazioni puniche presso la collina di San Giovanni.
Circondavano completamente la città, passavano sotto la torre di San Giovanni, dove ci sono dei blocchi che si riferiscono ad una struttura preesistente. Dalla torre, le mura scendevano giù con un percorso a cremagliera (a zig zag), e arrivavano a chiudere la città sul lato orientale. La torre, messa in opera utilizzando delle grappe in legno duro a coda di rondine, non si è ancora capito con certezza a quale periodo si riferisca. Al termine degli scavi nella necropoli, si avvierà una campagna proprio nella torre per accertarne la cronologia.
Le fortificazioni sono state scavate da Barreca e dal CNR negli anni Ottanta. Sono costituite da mura nelle quali si notano due fasi di edificazione: punica e romana. Le prime sono databili al V a.C. e hanno subìto una sistemazione in età repubblicana con la costruzione di un muro che determina un fossato, e un paramento murario che si addossa al precedente ed è fornito di porte. In età romana imperiale ci fu un parziale riutilizzo come necropoli perché non c’era bisogno di difendersi e l’area venne dismessa. L’abitato fenicio non è stato mai trovato, forse le due necropoli sono segno di due nuclei abitativi separati, ma l’ipotesi più probabile è che l’abitato si trovasse al centro, sotto quello punico. L’abitato attualmente visibile è di età romana, ma si impiantava su strutture puniche già esistenti. Le tecniche costruttive sono puniche, a suggerire che i romani preferirono mantenere quelle tipologie perché erano architettonicamente affidabili.
Nel 1956 Gennaro Pesce intraprese uno scavo nell’abitato di Tharros. Tutta l’area era coltivata e sfruttata anche dai pastori, ma in pochi anni venne portata alla luce tutta la città. Le cisterne sono puniche e l’approvvigionamento idrico avveniva quasi esclusivamente con l’acqua piovana. Con la pioggia si riempivano le cisterne che garantivano il fabbisogno della comunità. Sono i romani ad introdurre gli acquedotti e lo smaltimento delle acque tramite fogne. Le cisterne a bagnarola, ossia di forma allungata con i lati curvilinei, erano coperte da lastre a doppio spiovente, o semplicemente appoggiate. Nel 1993 è stata scavata una cisterna vicina al tophet, con un tipo di intonaco che corrispondeva alla tecnica più arcaica, al cui interno c’erano materiali bizantini. C’è continuità di utilizzo perché, evidentemente, erano valide e adeguate allo scopo.
Del mondo punico sono rimasti anche i templi, il più importante dei quali è il cosiddetto delle semicolonne doriche. Fortunatamente è conservato nel basamento perché in età augustea è stato distrutto ed è stata fatta una gettata di terra sopra di esso per realizzare una grande piazza. Questo tempio non è costruito, ma risparmiato nella roccia dopo essere stato scavato tutto attorno. Su tre lati del basamento i punici hanno scolpito delle semicolonne di influenza ellenistica. Sopra il basamento doveva esserci una struttura, ma abbiamo perso tutto e non sappiamo ricostruirla, pur se nell’area ci sono tanti elementi architettonici smontati dal tempio e riutilizzati in strutture romane. Nella parte superiore delle colonne dovevano esserci dei capitelli di tipo eolico-cipriota sugli spigoli, mentre sui lati i capitelli erano di tipo dorico. C’erano anche dei leoni, simili a quelli di Sulci, con la coda che si attorciglia sulla coscia dell’animale. Pesce propone che sopra il basamento vi fosse un tempietto a edicola, mentre per Acquaro c’era un altare. In un’altra area ci sono i resti di un tempietto, denominato K, inserito su una struttura romana, che conserva elementi di tradizione egiziana e punici. Nel sito si nota la differenza dei materiali utilizzati dai romani (laterizio) e dai punici (pietra tenera come l’arenaria). I punici non conoscevano il mattone cotto e utilizzavano quello crudo, che purtroppo non si conserva. Barreca nel 1956 individuò un altro tempio che si trova nell’area di Capo San Marco, ben distinta dall’abitato. Si tratta di un edificio costituito da due vani affiancati. In uno troviamo un bancone , mentre l’altro è delimitato da pilastri. Nella parete di fondo c’è un altare su cui era posto un betilo. Oggi si ritiene che questo tempio sia recente, di età ellenistica a cavallo fra IV e III a.C. ed essendo visibile dal mare, pur se posto molto in alto e non si può accedere al tratto costiero, era forse legato ai naviganti o alle divinità marine.
Il santuario più importante della città è il tophet. Nell’area centrale del Mediterraneo (Cartagine, Sardegna e Sicilia) è considerato il santuario tipico del mondo culturale fenicio punico. Si ritiene che sia un’invenzione cartaginese che poi si è diffusa nella sua area di diretta influenza già prima che la città prendesse possesso delle colonie. Quello di Tharros è l’unico posizionato sopra un villaggio nuragico. È stato individuato nel 1963 ma scavato solo dagli anni Settanta. Il basamento, con gli sgabelli litici e gli altari, è ben visibile nell’area.
Il porto di Tharros, invece, non è stato ancora individuato. Si pensava fosse all’esterno, localizzato nel mare morto, perché il mare vivo è sottoposto a forti maestralate, e nessun marinaio si sarebbe azzardato ad approdare in un luogo così problematico e pericoloso. È certamente da localizzarsi all’interno del Golfo di Oristano, forse nella zona di Capo San Marco, o poco più a nord dove ancora oggi c’è il porticciolo dei pescatori. L’ultima ipotesi è che si trovi nel bacino interno, denominato mistral, a ridosso della città. L’area, dal punto di vista morfologico, è cambiata parecchio nei secoli, e gli studiosi stanno cercando di ricostruire l’antica linea di riva. Il mare, dall’epoca della fondazione di Tharros da parte dei fenici, ha subito un innalzamento di circa 150 cm e, per proporre delle ipotesi verosimili, non ci si può basare sulla situazione attuale. Bisogna anche tener conto dell’apporto fluviale dei detriti che hanno mantenuto, comunque il fondo sempre a una profondità costante. La linea di riva doveva essere notevolmente più avanzata rispetto ad oggi. La Regione Sardegna ha finanziato recentemente un progetto per delle ricerche geomorfologiche, già iniziate nel 2003. Le indagini sono state fatte dalla D.ssa Melis, dell’Università di Cagliari, in collaborazione con una equipe di studiosi dell’Univerità di Sassari. Il carotaggio ha mostrato che l’area di Mistral fino ad una profondità di 12 metri presenta contesti che alternativamente hanno indizi lagunari e segni di insenatura marina protetta. Il rilevamento del carotaggio mostra, infatti, strati alternati di sabbia fine, argilla, posidonia, conchiglie, sabbia fine con resti di faune salmastre, altra sabbia, altre conchiglie, ancora resti vegetali di fauna salmastra, e così via a strati alternati fino a 12 metri di profondità. Quando si alzava il livello del mare, si alzava conseguentemente anche quello del fondo dello stagno. Lo spazio conquistato e poi perso dal mare è stato preso volta per volta dall’apporto fluviale. Quando il mare si è alzato, la linea di costa ha subito altri fenomeni e si è delineata autonomamente.
Fino a quando si costruirono la diga del Tirso, e le moderne canalizzazioni, era sufficiente una forte pioggia per scatenare un allagamento di vaste proporzioni in tutta la zona. Per questo motivo le valutazioni della morfologia antica sono particolarmente difficili. Il problema del carotaggio è ricostruire la cronologia: si procede con il metodo C14 e altri metodi scientifici. La carota mostra il livello nuragico, il punico, quello fenicio, il romano e quelli più recenti. Con il carotaggio si hanno forti indizi utili per ricostruire la storia del sito. Nel 2009 c’è stato uno scavo subacqueo, pur considerando che il fondo misura circa mezzo metro. Con una pompa sono stati aspirati i detriti, è stato fatto un rilievo delle strutture sommerse, è stato grigliato tutto il materiale e si è documentato graficamente un muro costruito con grandi blocchi, lungo 200 metri e spesso 4 che, probabilmente, non è riferibile al porto di Tharros. Probabilmente si tratta di una struttura medievale.
L’area occupata in parte dalla laguna di Mistral e in parte da sedimenti recenti, è chiusa da una striscia di sabbia aperta solo in prossimità della peschiera. Fino agli anni Trenta la laguna era in collegamento con lo stagno di Cabras. Dalle foto aeree è stato individuato un muro che attraversa l’acqua e si è cercato di capire se potesse essere collegato al porto di Tharros. L’Università di Sassari avrebbe individuato nella zona il porto fenicio, ma è un’ipotesi da confermare e bisogna essere molto prudenti. L’area lagunare è visitabile parzialmente solo in estate, perché nella stagione invernale il terreno cede ed è pericoloso avventurarsi in auto nelle sabbie circostanti. Effettivamente la zona si presterebbe per accogliere un porto, ma al momento non è stata individuata alcuna struttura. In un’altra zona, poco distante, affiora un basamento, e gli archeologi contano di fare un’indagine di scavo per studiarla, ma al momento non possiamo sapere di cosa si tratta. Il muro lungo 200 metri che collega la linea di sabbia all’isolotto (sul quale nidificano alcune specie protette e pertanto non si potrà scavare), presenta caratteristiche interessanti ed è stato oggetto di due piccole campagne di scavo, sul lato esterno e sul lato interno. Con sistemi non invasivi si è letta la stratigrafia delle strutture sotto il livello del fango, tenuto conto che si tratta di una zona privata e, comunque, un’area protetta. I materiali sono stati accuratamente grigliati e i residui sono stati scaricati in un’area ben precisa per evitare l’intorbidimento dell’acqua. I metodi utilizzati hanno richiesto una notevole delicatezza operativa per rispettare l’ambiente circostante. I carotaggi hanno documentato un muro in grandi blocchi non rifiniti, costituito da due paramenti, con all’interno pietrame e terra pressata, che presentava delle strutture in legno sul lato esterno, quello verso il mare. Erano dei pali posti a distanza regolare. Il muro alto 80/90 centimetri, che in una fase cronologica ha chiuso Mistral, poggia su uno strato di sabbia marina (lo ha rivelato la granulometria), e questa struttura, che è più moderna dello strato punico, ha determinato un cambiamento della situazione ambientale. All’interno abbiamo residui lagunari, all’esterno doveva esserci una linea frangiflutti. Sotto lo strato marino all’esterno del muro, ci sono gli strati punici, ossia un’area di pertinenza del porto punico di Tharros, che devono ancora essere trovati e indagati. La Regione Sardegna ha finanziato uno studio con carotaggi ed ecosonar, così da capire la geomorfologia della zona.