Da come ho iniziato il mio discorso qualcuno arguirà che si tratta di un excursus storico vero e proprio, oppure di uno studio specialistico di antropologia, di quelli, per intenderci, in cui viene passata al microscopio ogni più piccola manifestazione quotidiana, comprese le eventuali rughe d’espressione della fronte che esprimono perplessità di fronte alla realtà, come pure la piega amara del disincanto riservata alla visione del futuro personale e collettivo. No, non è così: si tratta invece del racconto di una realtà per altro non ignota, questa volta esaminata da un punto di vista estemporaneo, se non paradossale, come paradossale può essere apparso il titolo di questa comunicazione. In parole povere, è come se guardassimo alla via che frequentiamo tutti i giorni non con i piedi sull’asfalto della strada, ma da sopra un campanile o, meglio ancora, come se vedessimo la città, il nostro quartiere o il paesello dall’alto, affacciati dal cesto di una mongolfiera così che i parametri più evidenti delle cose non sono più l’altezza delle stesse e i colori, ma la distanza e la relativa collocazione spaziale, poiché il colori dominanti saranno quelli dei tetti e dei prati.
Dico subito che è un vero e proprio miracolo se questo popolo non si è ancora estinto, poiché risultava improbo venire al mondo in un luogo dove è testimoniato dagli archeologi come il primogenito venisse ucciso dagli stessi genitori allo scopo di ingraziarsi il loro terribile dio. Si può intuire la titubanza delle spose nel dare l’avvio a una gravidanza e le cose non dovrebbero essere mutate di molto, pur avendo quel popolo cambiato da tempo la sua religione, considerata l‘attuale natalità, una delle più basse nel mondo.
E non pare sia facile neppure crescervi e vivervi, poiché si hanno notizie certe di tanti abitanti, specialmente in giovane età, fuggiti via, rescindendo quel cordone ombelicale culturale che li contraddistingue comunque, ovunque trovino asilo politico e qualcosa da fare per cui essere retribuiti.
Allora, avrà già pensato qualcuno con una fuga in avanti rispetto alla mia esposizione, sarà facile, se non addirittura attraente morirvi. Purtroppo non era così tanto tempo fa, dato che si narra di come il figlio maggiore si caricasse sulle spalle il vecchio padre e lo precipitasse da un dirupo, non solo perché i vecchi conservavano il vizio di mangiare almeno un paio di volte al giorno e quivi non c’era molto da scialare, ma forse anche perché il vecchio era rimasto avvinto alle vecchie intemerate credenze che aveva trasmesso incorrotte ai propri discendenti. Siccome le tradizioni parlavano di un passato da leggenda di uomini forti e dominatori, mentre il presente appariva misero e inadeguato, davano la colpa ai padri per averli abituati a camminare con lo sguardo rivolto all’indietro, molto peggio dei granchi, che almeno si spostano di lato, tenendo d’occhio il davanti e il retro. Si dice pure che il figlio, caricatosi il vecchio padre sulle spalle, prendesse a ridere forzosamente di un riso così atroce che è diventato proverbiale, in quanto era conscio di vivere in anteprima il proprio destino, se la sorte l’avesse beneficiato di una lunga vita. Non era facile morire neppure dopo che la pratica della feroce vendetta ai danni degli avi fu seppellita quando un tozzo di pane e uno spicchio di cipolla fu assicurato per tutto l’anno anche per il genitore inabile alla produzione. Ecco che per rendere più agevole la pratica, il trapasso veniva innescato non da un figlio, ma da una donna anziana la quale, col mazzuolo di olivastro emerso da sotto lo scialle scuro, batteva un colpo sulla fronte, sulla nuca o sulla tempia del vecchio, secondo scienza, coscienza e opportunità, colpo che avrebbe causato il rintocco della campana a morto, da lì a seguire in breve tempo.
Ora qualcuno avrà mentalmente collegato questa pratica all’istituzione popolare di s’accabbadora (una sorta di antica terminator, ndr) e il pensiero lo ha disturbato, sia che abbia supposto che qualche altro popolo abbia potuto rubarci l’idea della “maestra di pietà”, sia che abbia desunto che in fin dei conti si sta tutta l’ora parlando del popolo sardo.
Voglio rassicurare immediatamente tutti: nessuno ci ha rubato e neppure copiato l’idea di s’accabbadora, neppure i cinesi che solitamente non si fanno scrupolo e hanno materia prima in sovrabbondanza; il brevetto è stato depositato negli archivi della Storia, insieme a quello de su casu marzu (il formaggio marcio). Non corriamo alcun pericolo in proposito.
Mi sia consentito dunque assentire perché sì, è tutta l’ora che parlo del nostro popolo.
Comprendo che molti non sono d’accordo con me, ma ricordino che io vedo il tutto da un punto di vista particolare, cioè dall’alto o, se volete, dal basso, proprio terra terra, in un modo comunque che distorce o annulla le prospettive consuete con cui siamo abituati a valutare la realtà.
Consideriamo innanzi tutto come questo nostro popolo abbia fatto del detto “l’erba del vicino è sempre più verde” la filosofia di riferimento. Chiunque sia il vicino e non importa quanto sia distante. A iniziare dalla religione, naturalmente. Forse che non sappiamo che i nostri avi avevano preso in considerazione un solo e unico dio, chiamato Babbai o anche Eli, o Iavè, proprio come gli Israeliti che dicono di sé essere il “popolo eletto”, mentre noi ci consideriamo un “popolo negato”? Così quando papa Gregorio Magno, nel 594 scrisse la sua epistula ad Hospitone denunciando il fatto che i suoi conterranei, come veri e propri animali, adoravano legni e pietre, cosa rispose il nostro? Non lo sappiamo. Certamente non stigmatizzò il fatto che i cosiddetti cristiani che lui capitanava, non solamente avevano saccheggiato la religione dell’unico dio, Iavè, ma si prostravano davanti a statue di legno e di pietra, pur se pregiata come quella di Carrara! Se non lo fece, sarà stato perché i sardi sapevano a malapena leggiucchiare, ma certamente non avevano ancora appreso i meccanismi della scrittura?
Abbiamo avuto dei santi sardi in questi secoli di cristianesimo? Io so di sì, anche a prescindere da quelli di pura invenzione dovuti alla competizione per la supremazia fra i vescovi di Cagliari e di Sassari. Però continuiamo a lasciarli in disparte per far posto agli onori per i santi stranieri. E non dico neppure di quelli più antichi come Amadu, Efis, Antiogu (Amatore, Efisio, Antioco), ma parlo di quelli più recenti come Isidoro di Siviglia, che terrebbe a cuore le sorti dei contadini sardi, mentre so che ha difficoltà a tener dietro ai problemi dei contadini della sua stessa terra. O un Vincenzo da Valencia che di cognome faceva Ferrèr, in sardo conosciuto come Santu Bissenti Ferréri, ferréri come fabbro, e pertanto creduto amico dell’incudine e del martello, in verità patrono di chi picchiava sì, ma con la lingua, come i predicatori, e anche santo di riferimento dei costruttori, ahinoi! pervenuto in Sardegna fuori tempo massimo, visto che il tempo delle grandi costruzioni era ormai scaduto. Per non parlare dei giorni nostri: non c’è un paese in Sardegna, per striminzito che sia, che non abbia una via o una piazza intitolata a Padre Pio da Pietralcina, confortate spesso con relativa effigie in bronzo, ormai fuse in serie e vendute a rate e a interessi zero.
Sia chiaro che non ho niente contro Padre Pio e neppure nulla in comune, si badi bene, così come lui con me, del resto: mi sono certo più vicini, per stare ai francescani, sia Annassiu de Laconi (Ignazio da Laconi), che Nigola de Gesturi (Nicola da Gesturi), tanto per far due nomi, ai quali riserviamo neppure un centesimo delle nostre devozioni. E chissà perché avviene così: forse perché i nostri hanno armeggiato al più con una bertula (bisaccia), mentre Pio più dinamicamente dava impulso a qualche S. p. A.?
E se succede questo per i santi, figuriamoci per gli uomini e le donne comuni. Sono certo che in Sardegna ha più lettori Dan Brown che Grazia Deledda. Succede pure che qualcuno si stupisca perché a Dan Brown non abbiano ancora assegnato il Premio Nobel per la letteratura, visto che alla Deledda…
Se invece restiamo semplicemente alla storia e allarghiamo il nostro orizzonte, possiamo ricordare come il popolo francese, persa l’importante battaglia a Sedan nel 1870, abbia addirittura cancellato il numero settanta dalla sua lingua? Dopo il 69 per loro viene il sessanta dieci e poi il sessanta undici, il sessanta dodici e così via sino al sessanta diciannove, quindi arriva il quattro venti, il quattro venti e uno, … sino al quattro venti diciannove. Poi, finalmente cento! Hanno ancora orrore a pronunciare quella parola maledetta: settanta? Non sia mai!
E gli israeliti a cui fu distrutto per la seconda volta il Tempio di Gerusalemme quasi due millenni or sono, forse che fanno i loro pic-nic all’ombra dei brandelli di muro rimasti? Lo chiamano il “muro del pianto” e là si ammaestrano dondolandosi e battendosi il petto per il dolore e la disperazione.
Il popolo sardo, che ha da sempre ignorato profondamente la propria storia, appena ne ha saputo qualcosa di più ha messo in moto la macchina dei festeggiamenti popolari, usando spesso il pubblico denaro, per celebrare due date in particolare: il 30 giugno e il 28 aprile.
La prima si riferisce al 30 giugno del 1409, il giorno fatale che vide schierati l’uno contro l’altro, l’esercito catalano di conquista di Martino il Giovane e quello sardo del Giudicato di Arborea: nella battaglia campale combattuta nei salti di Sanluri e Furtei, proprio quel giorno morirono migliaia e migliaia di sardi, soprattutto ai piedi di una collina ancora oggi ricordata col nome di S’occidroxu (il mattatoio). In ogni altro angolo del mondo si sarebbe pensato ad una giornata di lutto nazionale, anche in considerazione dei risvolti politici susseguenti all’evento, quale la perdita dell’indipendenza dell’Isola, che durava da secoli sotto i Giudici. Invece da noi si è pensato ad una rievocazione storica, con tanto di costumi d’epoca. Insomma, una festa di popolo che si sta radicando nella tradizione come miglior cosa.
Ma l’apice risulta la festa nazionale del popolo sardo, indicata al 28 aprile, in ricordo dello stesso giorno del 1794 in cui ebbe inizio un breve periodo di insofferenza popolare, ricordato dagli storici moderni come il “Triennio rosso”. Capitò che, per un episodio del tutto banale e marginale, il popolino cagliaritano si accorse finalmente di essere servo dei piemontesi, subentrati agli spagnoli come dominatori dell’Isola, grazie agli effetti di una qualche spartizione di territori e di popoli, effettuata dai governanti europei.
Semplicemente la chiassata aumentò come gli uomini e le donne accorsi in Casteddu de susu (Cagliari di sopra) dagli altri rioni e venne fuori la voce che non c’era giustizia per il popolo, che i piemontesi avevano gli impieghi migliori, mentre ai sardi non restava che fare i servi. Nacque anche la diceria che i piemontesi si andavano man mano arricchendo, spogliando quanto era rimasto dopo il trattamento riservatoci dagli spagnoli.
Quando uno sente dire “Triennio rosso”, porca miseria!, pensa subito al peggio, lo accomuna al colore del sangue che vien fatto scorrere per le strade, perché da che mondo è mondo, se non si ammazza qualcuno non si può dire di aver fatto una rivoluzione e tantomeno chiamarla rossa. Il popolo in verità si dimostrò assai vivace e vennero lanciati epiteti molto coloriti all’indirizzo dei fresco-detestati piemontesi, però fu anche clemente. Anzi, per dirla tutta, molto clemente! Per caso c’era un piroscafo ancorato nel porto, così gli insorti invitarono i piemontesi a far le valige in fretta e a tornare alle loro case in Continente. GO HOME, grideremo oggi, mentre quel giorno fu la parola cixiri (cece) a fare da discriminante fra sardi e non sardi. Si dice che, per affrettare la partenza, is piccioccus de crobi (giovani col cestino, servizievoli di strada per una mancia) aiutassero gli stranieri a portare le loro valige al porto, bagagli dove avevano riposto quanto erano riusciti a rastrellare dei beni della città. Invece, non ostante il colore rosso del triennio, non ci fu una goccia di sangue versata tra Casteddu de susu e il porto, neanche a causa di qualche inciampo nel selciato delle strade, anche perché i partenti, pur frettolosi e spaventati, avevano tutti quanti delle calzature in buono stato. Gli scalzi, in verità, erano i cagliaritani. Niente sangue dunque, ma qualche lacrima sì, da parte delle serve, mischinas (poverine),rimaste senza padrone.
Si dirà che sto banalizzando il movimento che poi si espanse in tutta l’isola e che venne preso in mano da chi sapeva leggere, scrivere e soprattutto far di conto, il proprio tornaconto in verità, così che il malumore e il risentimento popolare diventò espressione del malessere diffuso nella casta, diremmo oggi, cioè degli Stamenti che rappresentavano i militari, i nobili e il clero. E ciascuna delle categorie sociali anzidette aveva ben ragione di mugugnare: il clero e gli ordini religiosi venivano espropriati dai Savoia dai benefici temporali accumulati nei secoli; i nobili si vedevano revocati i privilegi introdotti dagli spagnoli col feudalesimo. Da ciò si decise di porre un altolà alle riforme savoiarde sotto forma di 5 domande che furono preparate, approvate e portate all’attenzione del re di Torino da ambiziosi ambasciatori.
Capitò che il re (non mi sento neppure di farne il nome per non dargli troppa pubblicità) fece fare centocinquanta giorni di sala d’attesa prima di decidere se ricevere o no gli ambasciatori ufficiali di quell’isola, grazie al possesso della quale gli era concesso di fregiarsi del titolo di re. Raccontano gli storici che sua altezza non li ammise al suo cospetto così che le 5 preguntas (domande) sono ancora oggi inevase.
Se non considerate questi esiti una sconfitta per il popolo sardo, come può essere girata la frittata per essere valutati una vittoria, tanto importante da fissarvi la data della festa nazionale dei sardi?
Questo ci ricorda Sa dì de sa Sardigna, dai politici nostrani innalzata a valore simbolico tanto alto: ciascuno di noi, quale componente del popolo sardo, dovrebbe riconoscersi in uno di quei piccioccus de crobi che portarono i bagagli degli odiati piemontesi da Casteddu de susu sino al porto? Si sentono i nostri politici del Consiglio regionale rappresentati dagli Stamenti che cercarono di perpetuare i loro privilegi, ma non ricevettero udienza da chi di dovere? Forse che sì, forse che non…
Sarà che mi fa male la testa, sarà che mi fa male anche un ginocchio, ma io non ci sto.
La signora Annalisa Minetti, al ritorno dalle Paralimpiadi di Londra con la medaglia ancora appesa al collo, ha detto che nella sua vita non ha mai permesso che si calpestassero i suoi sogni.
Ma se il sogno attuale di un sardo medio è quello di farsi una scorpacciata dei biologici fichidindia, chi lo salverà dal disinganno del giorno dopo?
Sino a quando continueremo a celebrare le altrui vittorie che sono di difficile digestione, saremo ancora e sempre un popolo stitico e depresso: un popolo a carru abbarrau (lett. “a carro fermo”, cioè col trasporto delle feci bloccato dai semi di fichidindia di cui si è abusato, ndr).
Featured image, collage Sardi, fonte Wikipedia. Immagine decisamente ritoccata.