In un anno di sfide elettorali americane, prima tra Barack Obama e Hillary Clinton, poi tra Obama, John McCain e Sarah Palin, usciva in Italia un romanzo brasiliano del 1926 (“Il presidente nero”, Controluce, 2008). L'autore, Monteiro Lobato, servendosi di elementi di fantascienza (peraltro spicciola: un marchingegno che permette di vedere il futuro come in un kinetoscopio), azzeccava una serie di previsioni, tra cui l'avvento di qualcosa di molto simile a Internet. Ma soprattutto narrava una campagna elettorale in cui, a contendersi la Casa Bianca, c'erano un conservatore bianco, una donna e un nero; coincidenza che aveva riportato in testa alle classifiche brasiliane questo titolo dimenticato di uno scrittore popolarissimo grazie alle sue storie per l'infanzia. Un po' come se da noi si riscoprisse un inedito di Collodi in cui l'omino di burro del Paese dei balocchi diventa primo ministro, si balocca con le minorenni e nomina ministri il Gatto, la Volpe, Mangiafuoco e tutti i suoi burattini.
Ma la preveggenza di Lobato crucciava più lui che noi: confrontato anche con l'epistolario dell'autore, il libro tradiva i timori di un intellettuale bianco in un'America, da Rio a Washington, sempre più meticcia, in cui i processi di democratizzazione avrebbero prima o poi dato voce a gruppi etnici neanche tanto minoritari. Eppure, mentre in Brasile si rileggevano anche le sue storie per l'infanzia alla luce di quell'ambigua visione delle “razze”, mi sembrava possibile (va detto che quella pubblicazione l'avevo curata io) prendere un testo inedito e presentarlo in Italia come metafora delle nostre democrazie imperfette, dove l'alternativa vera è illusoria e il nero va al potere solo a patto di sbiancarsi. Non si trattava di escludere il paratestuale in nome di un'interpretazione tutta immanente al testo, perché il corto circuito fra testo ed extratestualità (le presidenziali americane in corso) era lì e la lettura veniva preceduta da una proposta di lettura: una prefazione del 2008 messa come “soglia” (per continuare con la terminologia genettiana) al testo del '26. Si trattava solo di eclissare il cuoco, ingombrante in casa ma da noi ignoto, e rivoltargli la frittata usando le stesse uova: il presidente non era sufficientemente nero.
Questo preambolo brasiliano serve a dire qualcosa su una polemica che negli ultimi tempi coinvolge Roberto Saviano (di cui si dà conto anche qui), ma che in fondo potrebbe riguardare ogni atto di lettura nell'era della comunicazione globale.
Forse anche Saviano non è che un capitolo del nostro dannunzianesimo di sinistra, con la vespa ad attraversare Scampia al posto dell'aereo su Vienna (una certa idea di “eroica bellezza”, sia pur rivoltata come un guanto rispetto al vate, non gli risulterebbe estranea neanche dopo un'analisi lessicale della sua opera). Del dannunziano lo diedero anche a Pasolini, che però finì a Ostia e non al Vittoriale. Saviano è finito in tv, luogo di mausolei più aggiornati ed effimeri. E si torna alla solita colpa che qualcuno sotto sotto gli rinfaccia: quella di essere troppo vivo per meritarsi l'aureola di martire. Si sa che all'Italia, sebbene ricca di mafie che non meritano avversari dilettanti, il professionismo dell'antimafia non piace finché non finisce nel sangue.
Resta pur vero che tv e giornali provocano dei riverberi nella lettura dell'opera maggiore (il libro rilegato). Saviano, nei suoi numerosi interventi ̶ sporadici o seriali, sulla pagina untuosa dei quotidiani, sul piccolo schermo del laptop o sul grande schermo televisivo ̶ riproduce in pillole temi e figure del Libro (maiuscolo) e accelera così il processo di istituzionalizzazione di un testo poco prima recepito come rivoluzionario. Gli fa in qualche modo perdere un po' della sua aura, proprio come accade all'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Cosa imperdonabile in un paese di romanzieri auratici, come l'Italia, dove nel secolo d'oro del romanzo europeo, mentre tanti geni sgobbavano per pagarsi le bollette (dote che Baudelaire notoriamente apprezzava in Balzac), Manzoni passava decenni a riscrivere lo stesso libro (peraltro bellissimo, intendiamoci: ognuno fa quel che vuole e sa).
A proposito di libri unici, forse anche Saviano soffrirà di “angoscia dell'influenza” per un'opera irripetibile (dovrebbe ritornare l'anonimo ragazzo di un tempo, ed è più facile che Pierre Menard diventi Cervantes e riscriva il “Chisciotte”). Tuttavia ai brasiliani del futuro ci sentiamo di dire che, per comprendere perché ci parve (a torto?) rivoluzionario, “Gomorra” andrebbe letto in parallelo con un libro costruito sullo stesso materiale narrativo: “Sandokan” di Nanni Balestrini, pionieristico eppure già vecchio, specie per quel suo soverchio impasto linguistico. Saviano, provenendo dal mondo che narra, non ha bisogno di cercare improbabili mimesi linguistiche. Oggettivare quel mondo sulla pagina significa già dominarlo, sia pure illusoriamente. E la sua è una scrittura a suo modo già prepotentemente classica, al di là delle accuse professorali di chi dice “scrive male” (l'hanno detto di Svevo e di tanti altri; i cimiteri letterari son pieni di gente che scriveva bene). Attraverso questo ritratto sociale con autoritratto sullo sfondo, Saviano ha scritto un “reportage dell'io” mascherato da romanzo di malavita senza cadere nella prosa d'arte imbrattata... ad arte. Rispolverando il non-fictional novel americano e perfino l'ormai vituperato romanzo d'idee, si riallaccia a una tradizione italiana che va ben oltre d'Annunzio e arriva a “Jacopo Ortis”, ossia alla necessità di adattare i migliori esiti letterari internazionali al “sacrificio della patria nostra” ora e sempre consumato.