Probabilmente non è proprio sensato dirlo oggi, ma mi sento vicino a Adriano Celentano. Provo solidarietà per i suoi deliri, comprensione per le sue pause imbarazzanti. Trovo garbata la sua prosa e agili i suoi epiteti sparati a caso.
I capi carismatici come Celentano hanno un nemico comune a tutti gli uomini – il proprio ego, nello specifico, smisurato - e uno speciale e assai peggiore, ovvero il famoso senso di responsabilità. Al peso dell’amor proprio si somma il fardello delle pubbliche attese. Quello che è andato in onda non era più il Festival di Sanremo, ma un sermone di Joan Lui. Quell’autentica prigionia che è la vita di un predicatore, minaccia così di diventare un ergastolo.
Così, quando ho visto che, finalmente, ha lasciato il palco dell’Ariston ho pensato istintivamente che era evaso. Me lo sono visto appena uscito dal teatro come in certi film americani con il vestito a righe e la lima ancora in mano, che corre a perdifiato verso il confine con il Messico. Poi, la seconda immagine, metafisica, è lui che dà un’ultima occhiata al Paese, una timida sbirciatina al triste spettacolo di Pupo e Morandi con il microfono ancora in mano e Pappaleo vestito da maggiordomo (cosa si fa per campare...) e via, verso il polveroso orizzonte, E scorrono i titoli di coda.
Il primo che mi chiede adesso (e qualcuno l’ha già fatto) un giudizio politico e etico sullo spettacolo di Celentano lo mando affanculo senza passare dal via.
Vorrei solo un cammeo, una particina minore nel film di “Adriano l’evaso”. Solo un piano sequenza, io e lui, in un baretto dalle parti di Tijuana. Gli offrirei un doppio rum.Alla salute, companeros, gli direi.Alla tua salute...