Richard lavorava moltissimo e spesso tornava tardi la sera. Si era creato una carriera di tutto rispetto con le sue sole forze e proprio quando più ne avevamo bisogno era arrivata questa nuova proposta di lavoro. Una promozione presso un team di archietti conosciuti in tutto il mondo, tanto inaspettata e lusinghiera quanto gradita. L'unica nota triste di questo balzo in avanti della sua carriera era l'aspetto logistico. Non poteva lavorare da casa e nemmeno continuare a farlo nel piccolo studio che aveva avviato da alcuni anni nel paesello dove eravamo entrambi cresciuti. L'unica soluzione ritenuta accettabile dal direttore del SightStudio era un trasferimento immediato in una delle residenze da lui appositamente messe a disposizione per i suoi collaboratori. E così fu. Accettai senza mostrarmi spaventata dall'idea di lasciare la mia famiglia e tutti i miei conoscenti, felice di rendere felice il mio compagno di vita. La scoperta di una nuova scintilla di vita nella nostra famiglia rese più eccitante e euforico il passaggio a una fase della nostra esistenza. Almeno finchè non iniziarono ad accadere delle strane cose.
Dopo soli pochi giorni nella nuova casa e dopo averla annusata centimentro dopo centimentro Jeey, il nostro cane da divano, iniziò a comportarsi in modo bizzarro. Il vecchio divano da cui non eravamo riusciti a separarci e che per anni era stato il miglior compagno di pisolino di Jeey non suscitava in lui più alcun interesse, cosa da considerarsi pura fantascienza. Sembrava quasi che Jeey si fosse improvvisamente trasformato in un mastino, pronto a scattare per ogni rumore, sempre sul chi vive e udite udite, per la prima volta nella sua stimata carriera di animale da compagnia Jeey aveva iniziato a fare la guardia. «Non trovi che Jeey sia strano ultimamente?» domandai una sera a Richiard. «Deve essere l'ambiente nuovo» rispose osservandolo abbaiare contro un'ombra sulla parete della cucina. «Credo che abbia bisogno di tempo per familiarizzare con la sua nuova tana» concluse Richiard, del tutto soddisfatto della sua teoria. In effetti non potevo non ammettere che si trattasse di una spiegazione piuttosto convincente, anche se per quel che ne sapevo erano i gatti a risentire maggiormente dei traslochi. I cani di solito si legano al padrone, non all'ambiente.
Anche il nostro pappagallo, Papcock, sembrava non aver gradito quell'improvviso cambiamento. Dopo anni trascorsi nella più assoluta convinzione di vivere sulla spalla di un pirata a bordo di una nave a forma di appartamento (Papcock ha sempre sofferto di disturbi di personalità, una specie di pappagallo diversamente abile), nella nuova casa si dimostrava guardingo e sospettoso. Alle solite frasi tipo "Levate le ancore", "Avanti tutta" oppure "Corpo di mille balene" aveva sostituito un repertorio del tutto nuovo, di cui peraltro non mi spiegavo l'orgine, costituito da frasi raccapriccianti che mettevano i brividi al solo pensiero. Quella che andava per la maggiore era "Sarete tutti maledetti", seguita a ruota da un'altrettanto spaventosa sentenza che più o meno suonava così: I morti nooon parlano. No! Ma vanno ascoltàti. Ascoltààti! Non chiesi l'opinione di mio marito a proposito del nuovo comportamento di Papcock per paura che si mettesse a psicanalizzare anche il povero cacatua, ma notai che anche Richard, come me, rimase almeno un paio di volte colpito, per non dire stupefatto, da alcune frasi udite per caso mentre passava da una stanza all'altra. Ero molto occupata durante quel periodo per via della casa, della gravidanza, degli ormoni e della miriade di piccole migliorie che stavo apportando all'arredamento. Per non parlare della ricerca di un nuova redazione presso cui inziare a scrivere una volta che fosse nata la bambina. Sì, perchè nel frattempo io e Richard avevamo scoperto di aspettare una bambina, la mia pancia cominciava a crescere vistosamente e il suo cuoricino a battere sempre più forte.
Dopo qualche mese Papcock riuscì a spevantarmi sul serio. C'è una strrega! Iniziò a ripetere. In continuazione, con quella sua voce gracchiante e acuta. C'èè una strregàa... c'èè una strregàa! Adèedaaide! Adèedaaide! Mentre cucinavo. Adèedaaide! Adèedaaide! Mentre sistemavo la biancheria. C'èè una strregàa... appollaiato sul suo trespolo accanto alla finestra. Un'atmosfera decisamente inquetante. Proprio mentre una sensazione sinistra stava per avvolgermi, sinuosa, come un funesto abbraccio trascinandomi in vortice di paranoia e sospetti, il telefonò squillò. Il display indicava che era Richard, dal suo ufficio. Decisi di approfittarne per parlargli di Papcock, ma il tempo di tirar su la cornetta non fu sufficiente per elaborare una teoria plausibile e ancor meno per trovare un modo ragionevole tramite cui sottoporre a mio marito il problema e le mie paure. Qualsiasi cosa avessi detto sarebbe suonata strana, avrei dato l'impressione di essere pazza o esaurita che più o meno è la stessa cosa, perciò dovevo essere cauta nello spiegare a Richard che il pappagallo mi aveva spaventata.
«Stasera non torno per cena» esordì Richard.
Ci rimasi veramente male.
«Devo finire un progetto entro domani mattina. La soluzione che sto adottando è un po' azzardata, ma estremamente funzionale e innovativa. Posso conquistarli, ma devo perfezionare alcuni passaggi» spiegò, palesemente orgoglioso di sé.
Non potei fare a meno di farmi travolgere dal suo entusiasmo ed essere fiera di lui perciò finsi di non sentirmi trascurata e lo incoraggiai a dare il suo meglio.
Lo avrei aspettata alzata e gli avrei parlato di Papcock di persona. Nel frattempo anticipai le ore di sonno del nostro pappagallo applicando con un certo sollievo e un pizzico di astuzia il coprigabbia per le ore notturne. Speravo pensasse di essere al riparo, magari in un nascondiglio sicuro in un albero, e che si tranquillizzasse.
Stranamente funzionò.
Libera di pensare in silenzio e fiera di aver riconquistato la pace, la mia scatola cranica mi ringraziò con una serie di brillanti idee per i miei prossimi articoli. Mi diressi nello studio (ancora faticavo a capacitarmi di avere uno studio tutto mio) e accesi il computer sorseggiando una spremuta d'arancia. Dio solo sa quanto mi mancava il caffè. La bambina iniziava a dare qualche calcio, la schiena accennava le prime proteste per il sovraccarico a cui la stavo sottoponendo e perciò apprezzai con estrema dolcezza la miracolosa sedia massaggiante, ultraimbottita, super morbida e soffice che Rchard aveva insistito a comprare pensando a quanto tempo avremmo trascorso lissù, io e la bambina, mentre lavoravo e a come saremmo state comode. Controllai la mia posta elettronica e risposi a un paio di mail piuttosto urgenti, pagai un paio di bollette e controllai i conti della settimana, poi procedetti con la stesura di un nuovo articolo. Continuavo a smangiucchiare frutta davati al monitor, ma per quanto nutriente non riuscivo mai a saziarmi. Mi ero appena abbandonata alla libidine di una fettina di torta alle pere e al cioccolato quando mi trovai a corto di una parola. Non volevo un sinonimo, cercavo proprio quel preciso sostantivo che continuava ostinatamente a sfuggirmi. Era lì, sulla punta della mia lingua, ma non si decideva a uscire. Diressi la freccetta bianca verso la pagina iniziare di Google per arrendermi e chiedere aiuto al sanca sanctorum dei motori di ricerca quand'ebbi un'idea. Perchè non chiamare in causa proprio Mr. Google e chiedere a lui cosa ne pensasse di Papcock? Abbandonai il mio articolo e la parola scivolosa come una bolla di sapone per scoprire che i pappagalli possono soffrire di disturbi psicologici o comportamentali esattamente come le persone. I casi più tragici vedono pappagalli che si autodeplumano o stanno così male da tradurre il loro dolore in malattie infettive, ma Papcock, ovviamente, non non era a questi livelli. Tuttavia, il suo comportamento, quella giornata, non era stato normale. In base a quanto era stato insistente e fastidioso fin dal primo mattino, qualunque cosa infastidisse Papcock doveva essere per lui così irritante da voler trascinare con sé ogni abitatente della casa. Jeey, infatti, aveva protestato per quel baccano in almeno un paio di occasioni, abbaiando verso il trespolo con il naso all'insù, sicuramente pensando di poterlo zittire. Adèedaaide, naturalmente, non produsse nessun risultato a eccezione della città australiana, Adelaide. Ma potevo essermi sbagliata nel trascrivere quel suono grezzo e immateriale. Dopotutto, chi conosce il pappagallese?
Lavorai ancora qualche ora prima di cenare e appollaiarmi sul divano in attesa di Richard. Accesi la tv e dopo soli pochi minuti mi addormentai, totalmente immersa in un sonno profondo, nella posizione più scomoda che potessi inventarmi. E quello fu un grave errore perché feci un terribile sogno. Un sogno di sangue. Qualcosa era andato terribilmente storto, le mie mani erano intrise di sangue fresco ma non riuscivo ad abbassare lo sguardo. Rosso cremisi, il sangue gocciolava in uno sfondo sfocato. Non riuscivo a vedermi la pancia. Non potevo controllare che la mia bambina stesse bene. Panico. Il panico si impossessò della mia mente e mi svegliai all'improvviso, completamente sudata. La bambina tirò un calcio che interpretai come una gradita protesta - si lamentava ma stava bene - contro le abitudini da ragazzina che la madre faticava ad abbandonare, così mi alzai, spensi il televisore, sgranocchiai un altro biscotto o due e pantofolai sonnecchiando verso la camera da letto. Eravamo in due adesso ed era meglio obbedire alle leggi biologiche della natura sistemandomi in un comodo letto, sebbene vuoto, piuttosto che su un divano a due posti, in salotto, con la televisione accesa in attesa di un marito ritardatario. Avrei sentito Richard infilarsi nelle coperte e mi sarei svegliata. Almeno questo era ciò che mi stavo ripromettendo di fare quando sentiì la macchina di Richard percorrere il vialetto d'entrata.
«È quasi mezzanotte» protestai.
«Meno male che sei sveglia» esordì spaventandomi terribilmente. «È successa una cosa».
«Mi stai spaventando» confessai. «Cos'è successo?»
«Ero rimasto solo in ufficio. Stavo lavorando da ore a quel progetto di cui ti ho parlato, ma non riuscivo a far quadrare un passaggio. Allora mi è venuto in mente che uno dei miei colleghi aveva lavorato a un edificio che avrebbe potuto presentare lo stesso dilemma in cui mi ero arenato, perciò mi diressi speranzoso negli archivi generali per dare un'occhiata a quei disegni. Ho rovinato tutto» disse guardandomi con occhi tristi. Io lo abbracciai e aspettai pazientemente che riprendesse a spiegare. «Ho aperto il cassetto sbagliato» insistette, scrollando la testa. «Il direttore è una delle persone più sporche che esistano sulla faccia della terra. Evasione fiscale, frode, truffa ai danni dello stato, corruzione... prove inequaivocabili per almeno un'altra decina di reati». Si sedette su uno sgabello in cucina, la testa piegata e un'aria sconfitta cucita addosso che non avrei mai voluto vedere. «Siamo rovinati» dichiarò.
Rabbrividii. Eravamo a un passo dal fallimento. Senza nemmeno accorgersene Richard aveva affidato la sua carriera e il nostro futuro nelle luride mani corrotte di quella disgustosa canaglia e io volevo parlargli del pappagallo?! «Calmati tesoro» furono le uniche parole che riuscii a dire. Preparai una tisana calda e mentre porgevo a Richard la sua tazza bollente, ancora fumante, suggerii che andasse ugualmente al lavoro l'indomani mattina. «Hai lavorato molto su quel progetto e ancora non sai quanti e quali dei tuoi colleghi sono coinvolti. Ti aiuterà a far vedere quanto vali e cosa sei capace di fare, prima di affondare la nave».
Richard parve colpito dalle mie parole e fui delusa di scorgere nei suoi occhi la tentazione di insabbiare tutto. Non ci fu nemmeno bisogno che parlasse, lo capii e basta.
«Non credo che mi abbia visto nessuno» spiegò. «E se anche fosse, potrei sempre dire che ero nell'archivio per cercare quei disegni... Tesoro, abbiamo lasciato la nostra vecchia casa a tua sorella, abbiamo speso molti soldi per il trasloco e per i nuovi mobili, cosa dovremmo fare? La bambina nascerà tra poco, vuoi metterti a cercare casa proprio ora? Inoltre, perderei lo stipendio...»
Il capo branco che era in Richard stava ragionando in modo molto assennato cercando di pensare all'immediato futuro e alla propria famiglia, dovetti dargliene atto, ma non mi arresi. «Non puoi sporcare la tua carriera e la tua coscienza con una macchia tanto grande. Se ti rendessi complice di quei crimini, tacendo, e qualcun'altro scoprisse tutto? Non troveresti mai più un lavoro fino alla fine dei tuoi giorni. Andremo a stare da tuo fratello il tempo necessario per rimetterci in piedi, dopodichè ricominceremo daccapo».
Eravamo entrambi esausti e sconvolti perciò decidemmo di andare a letto senza aver preso nessuna decisione. L'unica cosa su cui eravamo d'accordo, accoccolati sotto le coperte, era che dopo la presentazione del suo progetto Richard si sarebbe preso il resto della giornata libera e sarbebbe tornato a casa per ragionare sul da farsi. Mi strinse più forte a sé e accarezzò a lungo il pancione prima di riuscire ad addormentarsi.
Mi svegliai sola. Richard era uscito di buon ora lasciandomi un biglietto attaccato al frigo: Papcock ha qualcosa che non va. Dovrei tornare per pranzo. Ti amo.
Mi sarei incuriosita maggiormente su cosa potesse aver mai fatto Papcock per meritarsi un post-it quasi tutto suo se l'angoscia della notte precedente non mi avesse assalita facendomi irrigidire fin nelle punta delle dita dei piedi. Eravamo in un mare di guai e quello non è mai un bel modo per cominciare una giornata. Mentre facevo colazione pensai che avremmo potuto riaprire il vecchio studio ma la mia forza e la mia determinazione crollarono al pensiero di un tribunale dove Richard sarebbe potuto essere giudicato per atti illegali che non aveva commesso. Un sospetto si fece strada nella mia mente, insistente e incancellabile: e se la promozione di Richard fosse soltanto una copertura in caso di denuncia? L'ultimo arrivato che aveva portato così tante novità nella gestione dei progetti... Santo cielo! Lo avevano assunto come capro espiatorio, ne ero sicura.
L'ansiometro interno al mio corpo lampeggiava furiosamente suggerendomi di darmi una calmata, ma ormai il danno era fatto. Avevo capito tutto.
Decisi di chiamare Richard, ma lui non rispose al telefono. Andai sotto la doccia per rinfrescarmi le idee, ma scoprii soltanto che la giornata stava per peggiorare esponenzialmente. Sanguinavo. La mia bambina non stava reagendo bene a tutto quello stress.
Presi la macchina e mi diressi verso lo studio del mio ginecologo sola e terrorizzata dall'idea che la gravidanza si facesse complicata proprio ora che mi stavo avvicinando al termine. Fortunatamente, il ginecologo mi inserì tra i suoi appuntamenti e riuscì a ricevermi senza farmi aspettare troppo. Richard arrivò qualche istante dopo, assistendo a gran parte della visita.
«Il cuore batte forte e la bambina sta bene» confermò il dottore, togliendomi un gran peso dalla coscienza. «Tuttavia, perdite di sangue nell'ultimo trimestre non sono mai da sottovalutare. Preferirei che facesse qualche ulteriore esame in ospedale, oggi pomeriggio».
Io e Richard ci guardammo spaventati a annuimmo. Non ebbi il tempo di parlargli della mia nuova teoria e di quanto fossi preoccupata per lui, viceversa, Richard era talmente preoccupato per me e per la bambina che non mi parlò della sua presentazione.
In ospedale mi fu data una camera dove riposarmi nell'attesa di poter cominciare gli esami. Al mio fianco una donna di origine argentina aveva appena partorito uno splendido maschietto e tutta la sua famiglia si era riunita per festeggiare il lieto evento. Mi congratulai con la neo-mamma e gioii per loro, ma constatai anche che tutto quel baccano non mi avrebbe certo aiutato a riposare. Fu per quella ragione che iniziai a fare due passi nei corridoi di ginecologia finendo per sconfinare nel reparto adiacente, ossia rianimazione. Un'infermiera mi spintonò verso il muro, al passaggio di una barella, constatando quanto fossi ingombrante con la mia pancia e che non mi sarei dovuta trovare là.
«Deve scusami» dissi paonazza dall'imbarazzo. «Ma credo di conoscere quella donna» spiegai, indicando la barella che era appena passata.
L'infermiera sembrò sorpresa, ma il suo viso si riaddolcì. «Qualla donna è arrivata ieri notte in pessime condizioni. È stata picchiata a sangue. Non abbiamo trovato nessun parente in vita e non abbiamo ancora potuto avvertire nessuno. È sicura di conoscerla?»
«Credo di sapere chi è» risposi, ma non riuscii ad aggiungere altro perchè l'infermiera del mio reparto era riuscita a trovarmi e disse, sgridandomi e brontolando a gran voce, che doveva riportarmi immediatamente in ambulatorio per gli accertamenti che mi erano stati prescritti. Obbedii sentendo comunque che dovevo fare qualcosa per quella donna.
Mentre mi prelevavano il sangue e mi preparavano per una flussimetria materno fetale per verificare la normale crescita e nutrizione della mia bambina, cercai di ricordare il nome di quella donna. Ero ovviamente nervosa e mi imposi di cercare di non pensare che la mia bambina fosse in pericolo mentre l'equipe di ginecologi dell'ospedale monitorava la situazione.
L'avevo vista in una sola occasione, eppure la ricordavo abbastanza bene. Eravamo a un ricevimento di benvenuto in onore di Richard, una delle prime settimane dopo il nostro arrivo. Claire, credo che fosse quello il suo nome, era inciampata proprio davanti a me rovesciandomi addosso il contenuto del bicchiere che aveva in mano. «Sono desolata» disse, accompagnandomi in bagno. «Ultimamente sto lavorando così tanto che non so più quel che faccio. Ora mi tocca pure pranzare e cenare con il mio capo, non ce la faccio più» disse sfogandosi. Fu così che scoprii che lei era la segretaria del direttore di Richard. Giovane, avvenente e dall'aria intelligente, se non fossi stata assolutamente sicura di mio marito avrei anche potuto provare un moto di gelosia nei confronti di quella sexy e distratta assistente.
Quando mi presentai, dichiarando di essere la moglie di Richard, Claire si scusò nuovamente per aver dato l'impressione di partecipare controvoglia alla sua festa di benvenuto. «Richard è un brav'uomo» esordì, struzzicando ulteriormente la mia gelosia. «Un pomeriggio tornavo dallo studio di un geometra piena di scatoloni e scartoffie. Richard era nell'ufficio del direttore in quel momento e lo sentì ordinarmi di riportarli al piano terra, nell'archivio. Avevo appena terminato di inerpicarmi per ben quattro rampe di scale solo per sentirmi dire di riporlarli abbasso, senza mennemo degnarmi di un'occhiata, così Richard si alzò, disse che stava scendendo pure lui e si offrì di darmi una mano. Nessuno lo aveva mai fatto prima, assistenti compresi. È stato piacevole scoprire che esistono ancora brave persone».
«Richard aiuta sempre tutti, quando ne ha l'occasione. Cerca di rendersi utile» confermai.
Vidi nei suoi occhi un'ombra di rimpianto, spazzata via da un sorriso alla vista della mia pancia. Parlammo della gravidanza e tra noi si instaurò un forte sentimento di simpatia e complicità femminile. Non mi parlò di lei e quando uscimmo dalla toilette tornò ad essere la segretaria frustrata e agressiva del direttore di sempre. Più o meno questo era tutto ciò che ricordavo.
Il dottore mi disse che potevo rivestirmi e che mi avrebbe richiamato non appena i risultati fossero arrivati. Mi rassicurò e disse che per ora andava tutto bene. Dovevo riposare e non caricarmi di lavoro fino al parto. Siccome Richard non era ancora tornato, raccolsi le mie cose e mi precipitai in cerca di Claire. Scoprri che era stata spostata e mi feci dare il numero della sua stanza.
Superai qualche protesta in accetazione confermando si non essere sua parente e insistendo sul fatto che ero l'unica conoscente che poteva farle visita. Mentii anche, gonfiando la nostra amicizia. Una persona al suo fianco in un momento tanto difficile non avrebbe che potuto farle bene.
Cristo Santo, l'avevano gonfiata di botte. Non era cosciente, ma sono sicura che in ogni caso non sarebbe riuscita a parlare. Aveva le labbra rotte, le mancavano alcuni denti e il suo bellissimo viso era un unico ematoma violaceo. Le presi la mano, delicatamente, per comunicarle che non era più sola e rimasi lì a pregare per lei. Quando Richard mi trovò era scortato da un'infermiera che non fu per nulla felice si scoprire che avevo tra le mani la sua cartella clinica.
«Il quadro della paziente è critico» disse, strappandomela dalle mani. «Ha subito una delicata operazione, ma non crediamo che supererà la notte. Dovete lasciarla riposare» suggerì, mentre ci spingeva delicatamente, ma con fermezza, fuori dalla stanza.
«Chi era quella donna?» domandò Richard, in macchina.
«Richard, devo dirti una cosa. Sono successe delle strane cose ultimamente e credo che in un qualche modo lei ne sia responsabile»
«Meno male che possiamo dare la colpa ai tuoi ormoni, cara, sennò inizierei a preoccuparmi».
«Quella donna è Claire Adelaide Moss, la segretaria personale del tuo direttore».
Richard sbiancò e accostò la macchina in un parcheggio. Avevo la sua attenzione ora.
«Come l'hai trovata nell'ospedale?»
«Non importa. Il fatto è che credo che sia in quelle condizioni perché ha scoperto ciò che hai scoperto anche tu. È stata picchiata a sangue per i segreti che aveva intenzione di confessare. E che forse ha confessato. Dobbiamo andare alla polizia e denunciare tutto prima che tu venga coinvolto. Le eri simpatico e credo stia tentando di avvertirci dell'intenzione del direttore di dare a te tutta la colpa».
Richard non dubitò mai delle mie affermazioni e non mi chiese mai come fossi riuscita ad arrivare da sola a quelle conclusioni. Ma avevo ragione.
Lo studio fu messo sotto sequestro e il direttore arrestato. Ci lasciarono la casa perché per far sembrare il tutto più credibile il direttore aveva pensato di rogitarla a nostro nome. Claire-Adelaide morì quella notte e quando tornammo a casa Papcock disse soltanto Adedàide in pace adeèsso. Adedàide in pace adeèsso.
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