Magazine Diario personale

Schegge Omanite – Epistemologia liquida di un rientro in europa (Furori Menù travelogue)

Da Wsf

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“Una ferita è anche una bocca, una parte di noi che sta cercando di dire qualcosa.” (Jim Hillman)

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Frullo queste immagini direttamente nella blogttiglia, senza rileggere troppo. Grande è il piacere della forma primitiva di un incontro, quello col massimo dell’aderenza possibile al proprio percepito. Tornare è un po’ morire, dopotutto, si negozia una traccia percorribile col quadrato che fanno le cose pesanti intorno. Non ci sono buoni sentimenti da salvare, l’unico sentimento plausibile è la sincerità verso se stessi, la nudità ombrosa con cui veniamo al mondo.

Rifletto mentre atterro, penso alla veglia resistente dell’amico poeta Franco Arminio. A casa nostra le cose morte trionfano nell’ombra dei riti della sublimazione sociale, la morte si ingigantisce parlando d’altro, si occulta a cottimo nei buoni vestiti d’occasione che siamo, quando la natura ci saluta correndo via sui finestrini del reale. Mi rifiuto di credere che possa esistere un’Arte da elevare sopra l’esperienza sensibile, la corruzione pattuglia il limite del nostro starci.

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Divenisse questo blog un travelogue esistenziale collettivo, piuttosto che la deriva esistenzialista in cui certe volte si riduce, la mia leggera ansia proverebbe a placarsi. Chi siamo, ci si domanda, per incorniciare altro che suoni, visioni, sensazioni, angolature personali, in un ordine sparso di flussi che rispetti la fonte senza aggiungere l’ordine bello delle punteggiature, le commissioni estetiche dell’intelletto, le dinamiche perverse del tradizionale culturame web. I musei m’annoiano, le persone che girano intorno alle opere, soprattutto. Se c’è un’Arte, mi convinco, non è percepibile se non nelle profondità di un silenzio, poco prima di concepire il comunicabile. Un ossimoro fuori luogo, buono a chiudere la page WSF per oggi, mediamente, me ne rendo conto.

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Volo basso, cosa volete, le notizie sono le stesse di tre settimane fa, il giorno che son partito per l’Oman, solo più masticate e sciatte ogni poco di tempo che passa. Per terra si osservano di sguincio i soliti tredici cadaveri neri sul labbro inferiore dell’Europa, nella dimenticanza del cortile di casa, con tanto di culi girati delle fate morgane di famiglia. L’Europa è cosa nostra, non c’è arte né filosofia qui, non vedo la coscienza pubblica e non mi basta quella privata. Soffro di cose minori come le conseguenze endemiche della mia incapacità di ordinare le cose, non do più mani di vernice sull’ombra da anni, il solo pensiero che si passi buona parte della vita con l’assurdo pennello in mano mi fa sorridere. Penso ai cazzi miei, perlopiù, cerco almeno di non imporli agli altri. Mi occupo del mio terraterra svuotato dal viaggio, sposto carte, bollette, magliette, bottiglie, scarpe, chiavi di casa, chiavi inglesi, dizionari, post-it, biglietti da visita, buste, bustine, libri che non leggo più da tre anni. Non so se avete presente come possano guardarvi col pieno di sarcasmo le scarpe vecchie che non buttate, da sotto una mensola bassa, quando la dura militanza le arriccia beffardamente in punta.

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Le procedure di ripristino mi circondano con il taglio della loro malevola necessità, una casa presentabile, il sanatorio dei sadismi delle burocrazie fiscali, qualche sospeso umano cui rendere conto, una mente da registrare sul minimo decente per rientrare sottotraccia in mezzo a colleghi che vogliono sapere, per resistere alla maggioranza degli altri per cui sono un articolo detestabile. Si sta come d’inverno, tra i paletti delle dinamiche idrocefale che sostengono i castelli di carte delle organizzazioni, a casa italia (e sugli alberi le foglie – chiedo venia).

In compenso, le hostess della Lufthansa sanno essere brutte, secche e sgradevoli come poche altre. A Francoforte sono uscito a fumare una sigaretta ed era già inverno, una luce corrotta e un vento come fosse ancora l’ultimo giorno, da curvarsi l’anima in fretta per salvare il salvabile. Ce l’avevo su ancora testardamente con una madre e una figlia, svizzere tedesche, gente danarosa che infila le sacche da golf oltre i tuoi zainetti nel tunnel radiografico dell’aeroporto di Muscat, gente che poi sgomita per passarti avanti a riprenderle senza alcuna necessità che quella di ostentare status, arroganza, un fiato di xenofobia di ritorno da vicinato italico.

Te ne vai verso l’imbarco passando sotto il grugno finto-allegro della signora svizzera, del suo marito che incula tutto il tempo un laptop nelle interminabili attese dei saloni delle partenze, un tizio distante con cui non scambierà una parola per tutto il volo su Frankfurt. Tagli in due quel sorriso scemo commentando in buon inglese la generica proverbiale educazione del popolo svizzero. Lei barcolla, accusa il colpo, risponde: …Sorry? E poi sbotta qualcosa che non t’interessa più, o t’interessa troppo per calartici pienamente, che sai già di avere una lama esasperata che ti scuce la tasca posteriore, lei diceva qualcosa sulla storia dei “soliti italiani” che puntini puntini, e amen.

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Penso che sto rincretinendo, Francoforte e Heathrow si contendono il guiness degli Hub europei più frequentati, trentatre centilitri di acqua tedesca costano due euro e cinquanta, tre giornate di paga del massacrante lavoro di un operaio indiano. Una atroce minchiata che non ammette alcuna scusante di giro economico e poi, non sei nemmeno arrivato a casa, certe sviolinate di nervi ti serviranno a rientrare compensando, quando l’estate andrà a nascondersi sul punto opposto della rivoluzione terrestre, metafore comprese. Adesso, cerca di stare un po’ tranquillo.

Giacchè si aprono infine le doors esterne del Leonardo da Vinci e trovi lei, la solita, confusa nel consueto apparire dei ritorni, lei come un reflusso esofageo si proietta avanti nello spiazzo inframondista che non si riesce più a classificare, l’insidiosa bagascia romana. Ne stendono il vessillo i suoi sgherri molesti del servizio auto NCC, le maschere di centurioni incattiviti fanno a gara per accaparrarsi fuori dalle regole le turiste più gravide di borsoni, mentre venti metri più in là un popolo di taxi ufficiali fa la fila di Maria e i guidatori masticano scazzi, ognuno chiuso nell’arbre-magique esclusivo del proprio abitacolo. Chiunque di loro provasse a fare una manovra analoga vedrebbe spuntare dal nulla un vigile in borghese, e la bellezza di una nostrana multa da duemila euro stampata sul grugno.

E’ tanto tempo ormai che darei pure volentieri ragione e soddisfazione al culo secco, insoddisfatto, della signora svizzera, come non concederle un po’ di sana ragione. Dunque torno così, felice e frastornato, al casino intimo della mia piccola abitazione, alle procedure di ripristino degli zaini e di una facciata sociale e culturale che mi interessa sempre meno. Ogni anno che rincaso dal mondo mi convinco sempre più come la vita stia velocemente abbandonando la vecchia zattera europea, rimangono i riti ossessivi del fetish economico, l’ombra decadente dei secoli sublimata in procedure, il chiacchiericcio noioso dei salotti, uno sbando di ricchezza ignorante, di falsa educazione, cui ogni poveraccio nel cerchio di stelle, benestante o meno, continua ad aggrapparsi con astio montante.

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Torno da un paese giovane e rilassato, moderatamente benestante, una terra di roccia e poesia e mare turchese e infiniti spazi e tempi da abitare, dove lo sguincio turistico è ancora un’eccezione e il sultano è un tipo modesto e illuminato, che si preoccupa del bene comune. Muscat e Sur sono due deliziose piccole città dove i vicini grattacieli stile Abu Dhabi sono banditi, le uniche misure ammesse sono il bianco delle case, il caldo della roccia, la prossimità attiva delle tradizioni, una religiosità tranquilla, l’umanità partecipe e rispettosa che ti accoglie dolcemente.

Bentornata, maledetta europa, il giorno che scopro le ovvietà della crusca, come le vergogne nostrane facciano manipolo compatto con le allucinazioni di tutti, in-continente. E mai più, volare Lufthansa. La puntualità gelida con cui ti recapita a casa tutto bollato e certificato, l’efficienza della polizei aeroportuale che ti smanaccia le palle ripetutamente. Mi manca persino la vecchia Alitalia sfasciabilancio, la rombante spensierata che atterrava ovunque tra sbuffi di assertiva fantasia, quella che negli anni sessanta e settanta sponsorizzava i -Riusciranno i nostri eroi- degli Scola e dei Risi, e volava alta insieme al miglior Cinema del mondo.

Voglio tornare a partire e arrivare in ritardo, ostinatamente, per tutto il resto del tempo che ho davanti. Potrebbe anche essere un buon inizio, dopotutto.

Fr

*

- to be continued -

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