Mi hanno sempre fatto sorridere quelli che scoprono qualcosa, poesia, canzone, aforisma, lo pubblicano sul social network e poi si dispiacciono se qualcuno se ne “appropria”, soffrendo la conversione da iniziatori a copiati. E non importa che non si tratti di cosa loro, originale, pensata e prodotta: rivendicano il merito, con infantile pervicacia, di una primogenitura, di un copyright, di una proprietà. Sembra pensare così anche Santoro che lamenta in una prolissa lettera aperta – a conferma che si può fare televisione senza saper scrivere e che la proterva verbosità è la sua “cifra” – come il “suo” format sia stato taroccato, in una serie di prodotti di serie B che hanno inflazionato televisioni pubbliche e commerciali. Non condivido, scrive, la scelta di riempire all’inverosimile la programmazione di trasmissioni d’approfondimento, i cosiddetti talk, che con il venir meno nella società di grandi contrasti, e con la scomparsa dei partiti, hanno creato nel pubblico una specie di nausea e un vero e proprio rigetto. E raccomanda al pubblico sovrano, brandendo lo scettro del telecomando, di “ fare la selezione, cambiare canale, far sparire le imitazioni senza identità”.
Il dibattito sulla crisi del talk, prosegue mentre ribadisce con una certa sventata audacia la sua inclinazione a “battere strade nuove” , nasconde l’impoverimento progressivo della tv che è seguito al quasi monopolio del ventennio berlusconiano. Ma come? di Berlusconi, delle sue alcove, dei suoi sberleffi, delle corna nelle foto ufficiali, ancor più che dei suoi crimini e misfatti, lui, le tv, la stampa c’hanno campato e riccamente, proprio come la sedicente opposizione che si è ritrovata solo nell’antagonismo addomesticato e cauto fino alla rimozione del nome del nemico in campagna elettorale. Ma come non si deve proprio a lui, alla scenetta da commedia dell’arte del caimano che netta la sedia contaminata dalle terga di Travaglio, la riapparizione in grande spolvero, l’offerta di una ribalta sfolgorante, la prima, questo sì lo può rivendicare, dopo la breve eclissi?
È che l’uomo è abituato a chiamarsi fuori: dalle “caste, prima di tutto, quella giornalistica e quella politica, alla quale ha appartenuto di diritto in qualità di seppur invisibile europarlamentare, anche quella dello show business, e perfino dall’overdose dei cosiddetti talk che oggi mette a nudo la stanchezza di un genere, avendo sempre preteso che la sua fosse informazione pura e non un omaggio dovuto all’egemonia dello spettacolo e delle sue leggi. Come se il suo aggressivo berciare non avesse la stessa qualità e gli stessi effetti dell’untuosa e felpata cortigianeria di Vespa, a cominciare dal nutrimento dato a quell’indifferenza accidiosa nei confronti della partecipazione che da disincanto della democrazia si muta in rifiuto, in astensione, in delega. Per finire con la sfilata di impresentabili gaglioffi, di spompati cialtroni, di nuovi prepotenti, compagnia di giro assunta a pieno tempo, beati loro, e sciorinata in tutte le reti a tutte le ore. Come se non si dovesse a lui, ad anchorman e intrattenitori, che anche a qualcuno degli incazzati, promossi a figuranti della critica, abbia finito per sembrare che l’unico sbocco efficace alla collera sia una comparsata nella piazza di cartapesta, concessa con autoritaria parsimonia dai più disparati domatori.
Come ad Eco, anche a lui fanno paura la rete e il suo uso spregiudicato, forse perché non reca contratti milionari, forse perché resta ancora un contesto dove è difficile esercitare censura e perfino autocensura, dove la memoria corta non ha domicilio, dove la piaggeria circola ma non molto di più dell’acchiappo e dove le leggende metropolitane fanno meno danno delle bugie del premier. E che promette di diventare ormai l’ultimo posto dove si trova denuncia, rabbia, informazione critica, perfino realistico buonsenso.
E dire che oggi come nel 1932, proprio come quando Brecht scrisse che “La grande verità della nostra epoca è questa: il nostro continente sta sprofondando nella barbarie perché i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione vengono mantenuti con la violenza”, ci vorrebbe poco per impiegare in nome della verità e del “servizio pubblico” i mezzi sempre più potenti dell’informazione. Che forse non ci vorrebbe tanto per smascherare la menzogna che alligna nelle relazioni politiche, sociali, interpersonali. Che chi fa quel mestiere dovrebbe cominciare col non dire “sono un giornalista” ma “faccio il giornalista”, perché la sua identità non dovrebbe essere condizionata dall’appartenenza a un circolo, a una corporazione, che la sua è una professione e non una vocazione e nemmeno una missione, ma che per questo andrebbe esercitata con competenza, nel rispetto di regole deontologiche che vanno oltre dimostrare la propria bravura, ingannare, stupire, impressionare, rendere omaggio ai potenti, far filtrare solo quello che loro vogliano si sappia, accondiscendere e poi far circolare convinzioni appena maturate e suggerite da interesse personale, ambizione, ignoranza, superficialità.
Che, come scriveva allora Brecht, “le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l’alloggio dei lavoratori, mentre tutt’intorno si va strepitando che ciò che conta è lo spirito di sacrificio”.
Ma noi sbagliamo nel chiedere di cercare e raccontare la verità a chi non conosce il bisogno, a chi vive sicuro, a chi vive in case tiepide, dove trova cibo caldo, a chi grazie a questo si sente uomo ma non è detto che lo sia ancora.