Schiavi Uniti di Benetton

Creato il 30 aprile 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Segnò una svolta nella storia della pubblicità la campagna multicolore e multietnica di Benetton, ragazzini ridenti di tutto il mondo in un melting pot al servizio delle coscienze e del commercio, che voleva accreditarsi, un po’ più equo e solidale, sullo scenario dello sfruttamento globale. Ne sono passati di anni e di spot, di messaggi ecumenici a stendere un velo su varie e feroci iniquità, di carità in sostituzione della solidarietà, di carità al posto della giustizia sociale, di sneaker indossate da indolenti adolescenti occidentali e confezionate da coetanei condannati ad essere necessariamente meno pigri e tremendamente più adulti.

Non stupisce quindi che tra le macerie di questo 8 marzo caduto in aprile – la maggior parte delle vittime erano donne – ci fossero le etichette di marchi italiani. A Dacca dove un palazzo di otto piani è crollato e sono morti almeno 381 operai, che lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, si producevano capi per conto di multinazionali tra cui proprio la Benetton e altre aziende italiane Itd Srl, Pellegrini Aec Srl, De Blasio Spa e Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee.
C’è da pensare che quegli operai avessero salutato la colonizzazione dei nuovi conquistatori occidentali come un progresso. L’arrivo degli schiavisti globali nel Bangladesh ha probabilmente accelerato l’approvazione a fine 2010, di una legge che ha aumentato il salario minimo da 23 a 36 centesimi di dollaro.

Ma cosa avrebbe dovuto fare Benetton? mica era scemo, mica fa beneficienza, mica è un anarchico, se le politiche industriali, cui ha prestato il volto il manager preferito da tutti i governi passati e a venire, collaudate dall’Ocse e consolidate dalla più autorevole superpotenza lo hanno convinto che l’unica ricetta per la competitività consista nel dichiarare guerra al lavoro per sostituirlo con la servitù, lo sradicamento, il trasferimento di investimenti diretti all’estero in modo da disporre di una forza lavoro sottomessa, flessibile, pagata cinque o dieci volte di meno che da noi, priva di qualsiasi diritto o di leggi che li tutelino, con una presenza sindacale praticamente e nessuna tutela ambientale. Con l’obiettivo, ormai dichiarato insieme alla guerra, di ottenere una completa libertà d’azione nei paesi emergenti – una libertà d’azione impossibile qui, dove vigono, ma temo per poco, una serie di leggi e di norme nate dalle lotte operaie e dal movimento sindacale, oltre che dagli interventi, in tempi remoti, dei partiti della sinistra e perfino cattolici. Mica è stupido Benetton – anche lui con quella faccia da bravo ragazzo, come si usa adesso, una moglie sentimentalmente corretta, con tanti figli che come lui andranno a imparare all’estero una iniquità espressa in molte lingue e in molte latitudini, anche lui infarcito di Vasco e Ligabue, Dylan Dog e piccoli principi – a stare incatenato qui dove sui suoi salari al lordo delle imposte grava tra il 40 e il 50% di contributi obbligatori destinati ai sistemi di protezione sociale.

Macchè è meglio andare altrove, dove il costo del lavoro giova al rendimento dei capitali e de profitti, così si vendono in patria a minor prezzo prodotti più scadenti, sbaragliando la concorrenza che non ha de localizzato. Si i prodotti mediocri si devono vendere da noi, perché i milionari russi, cinesi e indiani, che per anni hanno sognato di permettersi in Made in Italy e la sua leggenda, non vogliono delle pallide imitazioni prodotte in casa loro.
Oggi intorno all’80% e più del tessile e dell’abbigliamento è stato spostato dagli Usa e dall’Ue in India e altrove. E sono emigrati all’estero i servizi: produzione e manutenzione dei software, contabilità delle credit card, pratiche notarili, viaggi e spostamenti aziendali, gestione di fondi previdenziali.

Serpeggia un sottile veleno, un’ansia suicida nel dinamismo dei signori del profitto, nella loro libera circolazione di iniziativa, merci e schiavitù portata in giro con la stessa protervia con la quale esportano il loro aiuto umanitario a suon di bombe. E toglie libertà a quelle donne a Dacca, ma anche a loro, che sono tanto abituati alla servitù dell’accumulazione, da non accorgersene. Si sa l’avidità è cieca, e come nella parabola vanno verso il precipizio, trascinando paesi, popoli, ragazzini, quelli che cuciono scarpe e quelli che un tempo se le potevano permettere.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :