Alex Schwazer
La notizia della positività all'eritropoietina del marciatore Alex Schwazer, uomo di punta dell'atletica italiana e pressoché unica speranza di medaglia per la nostra compagine olimpica di atletica leggera, ha lasciato via via sconvolto, incredulo, amareggiato e infine arrabbiato un intero Paese, che nell'atleta sudtirolese riponeva le proprie speranze e nella persona nutriva un mix di simpatia e fiducia nato da una condotta sempre limpida, una vita tutto sommato lontana dai riflettori e in generale un aspetto e un savoir faire istintivamente accattivanti.
Nelle violente critiche giunte su Schwazer quando la voce ha trovato le sue conferme nell'ammissione stessa dell'atleta c'è quindi un forte senso di tradimento - forse più delle aspettative di successo che dello spirito sportivo - che tende a veicolare il giudizio dell'opinione pubblica in modo forse un po' troppo frettoloso.
Il caso, tuttavia, è molto complesso, presenta radici profonde sia psicologiche sia sportive e persino sociali, e sarebbe ingiusto liquidare il tutto al disegno antisportivo e criminale di un singolo o di un ristretto gruppo di persone.
Riaffiora nei differenti approcci al caso Schwazer, in maniera solo apparentemente singolare, la dicotomia destra-sinistra, fornendo un primo spunto di analisi sociale della vicenda. Chi predilige un approccio "di destra", infatti, evidenzia le responsabilità individuali dell'atleta e la libera scelta da questi compiuta di avvalersi di sostanze dopanti; chi invece si pone alla questione "da sinistra" tende a far risaltare le responsabilità del contorno, dell'ambiente circostante in cui si è trovata immersa la persona. Inutile dire che la prima visione, in genere, tende a esprimere condanne, la seconda, al contrario, attenuanti.
Una corretta analisi dei fatti, tuttavia, non può prescindere dall'uno e dall'altro aspetto, ed il peso delle due componenti non può che essere valutato in relazione al caso specifico, evitando partigianerie e preconcetti di fondo.
Lo stesso Schwazer, in data 8 agosto, ha convocato una conferenza stampa all'hotel Sheraton Four Points di Bolzano e in un'ora si è offerto alle domande dei media, aprendosi ai cronisti e indirettamente a tutto il Paese in una maniera forse fino a quel momento sconosciuta nel mondo sportivo e del doping, fatto di atleti pronti a negare le proprie responsabilità fino - e oltre - all'indifendibile.
Dalle parole di Schwazer e dall'inchiesta ufficiale è stato possibile ricostruire non solo la cronologia degli eventi, ma anche - seppure quanto affermato dall'atleta debba ora passare al vaglio degli inquirenti - le persone coinvolte e le motivazioni del marciatore altoatesino, svelando un quadro di solitudine e fragilità che non può non indurre a riflessioni sul ruolo e sull'operato delle società di atletica nel Paese e più ancora della federazione nazionale di atletica leggera.
Dopo i controlli di routine di metà luglio, Schwazer ha affermato di aver iniziato a prendere l'EPO, prima di essere smascherato da un controllo a sorpresa indetto dalla WADA il 30 luglio, nell'ambito dell'inchiesta aperta dalla procura di Padova sul controverso medico Ferrari, già coinvolto nello scandalo doping di Lance Armstrong.
A seguito dell'ammissione del marciatore altoatesino il CONI ha provveduto a prendere repentinamente le distanze dall'atleta, secondo le parole di Petrucci "meglio una medaglia in meno che una medaglia dopata", parole senza alcun dubbio condivisibili ma un po' vuote se si pensa al ruolo nullo avuto dallo sport italiano nella prevenzione del caso di doping di Schwazer, al fatto che l'irregolarità fosse emersa a seguito di un controllo internazionale e non interno e infine all'assenza di alternative valide per il CONI se non cacciarsi in un vicolo cieco difendendo l'indifendibile.
Nel corso della sua conferenza stampa Schwazer ricostruisce un quadro complesso, mettendosi in qualche modo a nudo dinanzi alle telecamere e fornendo un quadro che, seppure incompleto e a volte contradditorio tanto nella ricostruzione degli eventi quanto nell'introspezione psicologica.
Secondo la ricostruzione dell'atleta, Schwazer avrebbe comprato l'EPO da solo, ordinandola via internet e recandosi in Turchia per acquistarla, diverso tempo prima di farne uso. Non sembra, quindi, essere stato un gesto istintivo e impulsivo, quanto piuttosto un procedere meditato, anche se indubbiamente molto sofferto.
Schwazer ammette anche i legami con il chiacchieratissimo dottor Ferrari, sostenendo però di essersi recato da lui unicamente per il suo ruolo di preparatore atletico per le corse di endurance e non per procurarsi l'EPO. Si tratta di un'affermazione che lascia in effetti scettici, in quanto la nomea di Ferrari rende difficile credere che un atleta possa contattarlo per un ruolo da semplice preparatore atletico, e che sembra che il controllo a sorpresa della WADA sia stato spinto proprio dalle frequentazioni di Schwazer con il dottore.
L'atleta non si sottrae tuttavia nemmeno alle difficilissime domande sul perché abbia scelto di intraprendere una simile strada, disegnando un quadro ricco di inquietudini e di ombre che non può che stupire e far riflettere il telespettatore e lo sportivo medio, e apre finestre interessanti sul mondo dell'atletica italiana; non è da trascurare il fatto che Schwazer sia riuscito - pur in un clima molto pacato, in cui sapeva di essere lui il primo e principale colpevole - a indirizzare alcune serie stoccate tanto al mondo della federazione quanto ai media, che dovrebbero essere seriamente prese in considerazione e che dovrebbero far riflettere il mondo dello sport italiano per le possibili implicazioni.
Schwazer svela un rapporto conflittuale con la marcia, ha rivelato di essere arrivato a odiare il suo sport e di approcciarsi con difficoltà agli allenamenti, dimostrando quasi il passaggio in un periodo di depressione, sebbene dal punto di vista sportivo i risultati da Pechino in poi non siano stati poi così negativi.
Al tempo stesso ha mostrato una profonda fragilità psicologica in termini di resistenza alla pressione dei media, una pressione che se da un lato si fa sentire in momenti piuttosto rari solo in occasione degli appuntamenti più importanti, è dall'altro molto intensa in simili momenti, e soprattutto senza alcuna pietà in caso di fallimmento - inteso come mancato piazzamento - in tali appuntamenti. Fallimento inteso sia come l'arrivare alle gare importanti in pessimo stato di forma, ma anche il ritiro per infortuni, malattie, i mille contrattempi che possono mandare a monte una gara e che il grande pubblico difficilmente potrebbe capire, preso com'è dalla crudele semplificazione del risultato e della medaglia. Molto emblematico il passaggio, a questo proposito, in cui una giornalista afferma che un atleta con la carriera di Schwazer avrebbe anche potuto arrivare decimo a Londra, ed il marciatore, molto lucidamente, risponde, "Lei crede?"
L'esempio del flop del nuoto italiano e della pioggia di critiche piovuta soprattutto su Federica Pellegrini è in effetti il simbolo del cinismo con cui l'informazione italiana tratta i cosiddetti sport minori, dimenticati fino a mondiali, europei o olimpiadi... ma in quel momento la conquista della medaglia diventa l'obiettivo minimo, sotto al quale si parla di fallimento. Una situazione difficile da sopportare per chiunque, ed evidentemente per Schwazer più di altri.
Uno sport che è arrivato ad odiare ma nel quale aveva bisogno di eccellere: quale strada migliore a questo punto del doping? Schwazer, sollecitato dai giornalisti, ha anche parlato di come è arrivato a contattare Ferrari a causa dell'assenza di alternative valide. Un duro colpo per la federazione di atletica, tacciata di non avere allenatori degni di questo nome nella specialità in cui schiera il suo atleta di punta, che si accontenta di raccogliere quanto le società sportive, soprattutto militari, riescono a seminare, che lascia agli atleti l'onere di trovarsi allenatori, preparatori e medici, che ha dimostrato di essere completamente ignara della condizione psicofisica dell'atleta su cui più di ogni altro puntava in questo appuntamento olimpico.
Alex Schwazer è il primo e principale responsabile della sua scelta di darsi al doping, e per questa sua decisione dovrà pagare le giuste sanzioni in termini di giustizia sportiva e di rapporto con il pubblico. Tuttavia limitarsi a questo ragionamento significa guardare una sola faccia della medaglia, e bisogna invece esaminare ogni aspetto della questione: quanto è stato lasciato solo Schwazer? In che modo l'Italia ha curato e difeso questo atleta - chiamiamolo anche investimento in termini di popolarità e risultati - nel momento del bisogno?
La domanda di fondo è la seguente: se Alex Schwazer fosse stato seguito da un team adeguato, si sarebbe rivolto al doping? Probabilmmente no. Come il marciatore dovrà ora iniziare una nuova vita - possibilmente lontano dai riflettori - la federazione di atletica ha il preciso dovere di prendere atto delle proprie gravissime mancanze e adoperarsi affinché, tramite strutture e personale adeguato, casi del genere non possano ripetersi.
Né si può dire che i media siano esenti da responsabilità: essere atleti significa combattere tensioni e pressioni intensissime sui campi di gara, in special modo per quegli sport che hanno già poca visibilità e per i quali la gratificazione del pubblico si manifesta una volta all'anno o poco più; aggiungere a tutto questo vere e proprie campagne denigratorie in occasione di prestazioni al di sotto delle aspettative, oppure imbastire sequenze di articoli sull'"ultima speranza" dell'atletica caricando ulteriormente di aspettative persone già provate, forse farà vendere di più, ma rischia di distruggere una psiche di per sé fragile. E in una nazione in cui i bravi sportivi sono luminose eccezioni all'interno di un sistema inefficiente, non se ne sente proprio il bisogno.