Scienza e coscienza

Creato il 30 novembre 2012 da Alby87

La scienza può risolvere il problema della coscienza?

Si tratta di una domanda notevole: al momento si direbbe che non esista una soluzione definitiva e comprovata al dilemma “scientifico” della coscienza. Certo, non si contano teorie più che plausibili che soddisfano la curiosità riguardo a questo o quell’aspetto dell’esperienza cosciente … Parlo ad esempio della “macchina joyceana” di Dennett, del sistema basato sulla rappresentazione corporea di Damasio, o del concetto di “presente ricordato” di Edelman. Ciascuna di queste può essere considerata in misura minore o maggiore una soluzione scientifica al problema della coscienza. Ciò nonostante, qualunque lettore che entri in contatto con queste teorie ha buone ragioni di non sentirsi completamente soddisfatto, come se quella consapevolezza perfetta del fenomeno “coscienza” non fosse raggiunta, e ci si dovesse accontentare di una mera intelligibilità razionale, senza autentica comprensione. È giusta e sensata questa insoddisfazione? Donde origina? Può essere risolta da una teoria scientifica più avanzata, o è destinata a permanere?

Per rispondere a queste domande è indispensabile capire il terreno filosofico sul quale nasce e cresce la scienza moderna, e dunque inquadrare il ruolo del problema della coscienza all’interno di questo background.

È risaputo che gli scienziati spesso e volentieri non indagano in maniera approfondita sulle basi filosofiche del metodo scientifico, che viene così applicato in modo piuttosto pedissequo. Ma se volessimo riassumere i principi filosofici che essi danno per scontati, credo che sarebbero più o meno i seguenti:

-   Centralità dell’esperienza

-   Culto dell’obbiettività

Ho lasciato fuori aspetti importanti, come la riproducibilità o la matematizzazione del reale, in quanto essi non sono in realtà sostanziali, ma accessori al raggiungimento dell’obbiettività. Ovviamente apparirà una contraddizione: l’esperienza è soggettiva, e ciò che si vuol raggiungere è l’oggettività. Dunque come può essere strutturato un percorso che parta dall’esperienza del soggetto e arrivi a volerlo negare?

L’oggettivismo più volgare, quello del cosiddetto senso comune (ma anche di molte affermate teorie filosofiche), crede che la conoscenza si strutturi più o meno in questo modo: v’è un “mondo oggettivo” a priori di qualsiasi esperienza, e tutte le esperienze hanno questo oggetto assoluto e distinto come propria precondizione di esistenza. All’interno di questo mondo che è naturalmente oggettivo e indipendente da esso, agisce il soggetto che tramite le proprie percezioni crea rappresentazioni e interpretazioni  che riproducono l’oggetto, ma in modo imperfetto e “soggettivo”. Dunque la nostra linea di condotta deve essere mirata a rimuovere il filtro della percezione soggettiva per attingere direttamente alla fonte della verità “noumenica” della cosa in sé, o quanto meno, per avvicinarcisi in modo “soddisfacente”.

Il riferimento implicito nell’inquadrare il problema è Kant, ma l’approccio risolutivo non ha nulla dell’ardire “copernicano” di quest’ultimo: il centro è ancora l’oggetto, il soggetto è un fastidioso ostacolo alla verità. La contraddizione di cui si parlava poc’anzi resta in generale insoluta: devo partire dall’esperienza, senso soggettivo; come posso pretendere di eliminare il soggetto? O come posso pensare che avvicinarsi a questa eliminazione sia un progresso verso il vero? È la famosa colomba di Kant, che crede che liberandosi dall’impedimento dell’aria potrà volare più in alto, mentre è quello l’unica cosa che la sostiene.

Le giustificazioni di questo punto di vista sono delle più ingenue; vien da pensare a un Russel che critica l’empirismo di James affermando che “il mondo esiste anche senza esperienza di esso”. Ammettiamolo, ma non potresti affermarlo senza avere effettivamente avuto un’esperienza di esso che ti consenta di dedurlo. In questo senso sono valide (per una volta!) le osservazioni cartesiane: è impossibile immaginare una condizione in cui il soggetto che immagina si assenti dal mondo, e dunque dobbiamo pensare alla presenza del soggetto come elemento fondante nel mondo. Posso immaginare di non essere agente nel mondo, posso pensarmi come un fantasma che osserva lo svilupparsi delle vicende del mondo anche per millenni dopo la propria morte, ma non posso immaginarmi come non-immaginante.

Parallelamente, è ingenuo anche il tentativo di Cartesio di dedurre il mondo a priori dal soggetto: è infatti facile vedere come l’esistenza stessa di una “mente” , di una “res cogitans”, abbisogni di contenuti mentali da riordinare, che immancabilmente provengono da esperienze, siano esse percezioni, ricordi o stati psicofisici. Se si permette al mondo di assentarsi completamente, vuol dire che si impedisce alla mente di avere stati mentali. Conseguentemente, la mente stessa si assenta quando si assenta il mondo.

Non è dunque possibile eliminare o relativizzare né l’oggetto né il soggetto, esistono l’uno in virtù dell’altro. Poiché sono inscindibili, è corretto in effetti parlare di un soggetto-oggetto. Husserl, nella Crisi delle Scienze Europee, individua nel pensiero trascendentale, che inizia con Kant e culmine nell’idealismo, il possibile superamento dell’obbiettivismo classico messo in crisi da Hume; questo porta a concludere NON che il mondo è creazione o addirittura finzione della mente, come mi è capitato di leggere con le lacrime agli occhi, ma bensì che mente e mondo sono unificati in una nuova nozione, cui io mi riferirò parlando di soggetto-oggetto, o soggetto assoluto; ovvero soggetto personale (Io) che si realizza nel mondo e nell’incontro con altri soggetti. Effettivamente su queste basi saranno costruiti sistemi di pensiero dei più interessanti, fra cui la monumentale opera di Hegel, ma anche la fenomenologia e l’empirismo radicale.

Di queste dispute filosofiche la scienza tendenzialmente si disinteressa. Finché può. Perché è qui che sorgono i problemi …  Perché la questione della coscienza dà tanti grattacapi alla scienza? Perché la coscienza è qualcosa di magico, come danno ad intendere alcuni? Ovviamente no, la ragione è più banale. È perché la coscienza è soggettività pura, ovviamente. L’illusione dell’oggettivismo comune che cerca di estromettere il soggetto conoscente dalla conoscenza non regge nel momento in cui è la soggettività stessa ad essere studiata . In questo senso, è corretto dire non tanto che la coscienza è un enigma o un mistero per la scienza, quanto che è fuori dal campo di studi della scienza in quanto ne rappresenta la precondizione: senza il flusso di dati empirici ad alta integrazione che costituisce ciò che chiamiamo mondo, senza questo soggetto-oggetto assoluto, la scienza non può muoversi in nessuna direzione.

Possiamo dare una mano alla scienza per uscire dall’impasse, però, e in realtà, la filosofia lo ha già fatto. La scienza vuole agganciarsi a qualcosa di più stabile del soggetto personale e delle sue esperienze, e fa bene, perché la sua prospettiva ristretta darebbe risposte che difficilmente potrebbero essere giudicate soddisfacenti da un assetato di Verità. Ma la soluzione non è certo estromettere il soggetto personale, bensì risolverlo nella nozione di soggetto assoluto. Non è dunque nell’annullamento del soggetto cosciente che si trovano risposte definitive al problema, bensì nel suo superamento in una nozione più complessa che tenga conto di tutto quell’insieme di relazioni tra soggetto e mondo che alla fin fine sono in effetti ciò che del soggetto costituisce la natura irrinunciabile.

Questo non è davvero nulla di nuovo, è stato il problema filosofico fondamentale nell’Ottocento, e nel grosso è già stato risolto. Cosa resta da chiarire, allora? Su cosa stanno dibattendo un Searle e un Dennett e un Chalmers e via discorrendo? Inoltre si possono porre obiezioni molto spontanee, del tipo: se davvero il soggetto è da porsi alla base del mondo oggettivo, o almeno alla sua stessa altezza, come si spiega l’apparente sudditanza del primo nei confronti del secondo? Com’è possibile che una botta in testa, una lesione al cervello o un pillola, alterazioni del piano fisico, possano alterare profondamente la visione stessa del soggetto?

A obiezioni di questo genere si risponde molto semplicemente ricordando che innanzitutto il soggetto-oggetto è costituito da un flusso di dati empirici organizzati, è costituito effettivamente da tali dati, ed essi costituiscono del pari il mondo fisico. Il soggetto è mondo fisico, ogni separazione fra i due è illusoria e agire sull’uno implica agire sull’altro. Secondariamente, non bisogna dimenticare una distinzione che era già ben presente agli idealisti tedeschi, e cioè quella fra soggetto assoluto e soggetto personale. Mentre il soggetto assoluto rappresenta la totalità delle esperienze presenti e le condizioni che le rendono possibili, il soggetto personale, io, tu, voi, è solo una rappresentazione fra le altre un dato fra gli altri dati, non diverso da un mattone o da una pianta. Non ha nulla di metafisico e può essere studiato come oggetto, poiché in uno sguardo dall’alto è davvero solo questo.

Una volta che ci si sia resi conto di quanto filosofico e quanto poco scientifico sia il problema della coscienza, ci si rende anche conto del fatto che la scienza, per la sua parte, non ha deluso nessuna aspettativa. Ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che il soggetto personale è interamente frutto di una successione di stati funzionali del cervello, ne ha studiato le percezioni, le emozioni, le facoltà creative ed intellettive, ha risolto a livello di singolo neurone la logica dietro molte delle sue funzioni … e quando guarda verso l’orizzonte, la scienza non vede nel cervello niente di più misterioso di quello che vediamo affacciandoci sul mare: c’è tanto da esplorare, ma è tutto liscio e rotondo e non c’è ragione alcuna di pensare che arriverà un qualche punto in cui dovremmo fermarci.  

Un approccio particolarmente saggio è dunque quello di Edelman, secondo il quale conoscere perfettamente cosa sia e come funziona un uragano non significa creare un uragano, allo stesso modo conoscere perfettamente i fenomeni della coscienza non vuol dire poterli riprodurre. Saggio, se lo leggiamo come una limitazione spontanea delle proprie pretese filosofiche, ma sbagliato, in teoria: conoscere perfettamente ogni singolo fenomeno della coscienza vorrebbe dire ricreare e possedere la coscienza. Ma io sono cosciente, e posso anche trasmettere la mia soggettività al prossimo tramite il linguaggio o altri metodi di comunicazione, per cui conosco già la coscienza ad altissimo livello. Lo sguardo d’insieme, la pienezza della panoramica, è già in mio possesso. La forza oggettivizzante della scienza può aiutarmi a rimettere a posto molti dettagli, permettendomi di salire di consapevolezza, ma l’atto della scienza che oggetti vizza la coscienza altro non è che un atto della coscienza stessa che si ripercorre e cresce.

Nulla di magico, ancorché nulla di banale… Ma nessun enigma e nessuna contraddizione minaccia il nostro cammino, e dunque possiamo considerarlo filosoficamente concluso in modo pienamente soddisfacente.



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