Il motore andò su di giri rovesciando sulla stretta gola tutti i suoi cavalli in un rombo furioso, molto più carico di quanto non fosse la mia autostima in quella cazzo di sera. Schiacciai la frizione e diedi una pinzatina all’anteriore, giusto per evitare il leggero sovrasterzo. Aumentai la marcia, mollai la frizione e la coppia era di nuovo perfetta. Impostai la curva e piegai con grinta.
Fanculo, se quella stronza aveva preferito andare a trovare la nipotina, bé si poteva anche fottere, io la serata me la sparavo lo stesso. Anzi, da solo era anche meglio.
La discesa si fece impegnativa e i tornanti si inseguirono come in una giostra. Io, con una dannata voglia di sfogare la rabbia, neanche ci pensai a rallentare. In cielo le stelle ruotavano rapide, mentre a terra le ombre si mescolavano in un chiaroscuro cinematografico.
La nipotina… ma figurati. La vedeva già tutte le mattine. Una balla, anche mal studiata. Una fottuta scusa. Chissà chi cazzo doveva incontrare. Spero solo che sia per una di quelle serate tutte cremine e bigodini a contarvela tra voi oche giulive, mi augurai. Piegai a destra. Se scopro che è per vedere quel coglione, ve la faccio pagare. A tutti e due. Piegai a sinistra in una curva cieca.
Le ruote persero aderenza nello stesso infame momento. La curva a gomito continuava, ma la moto prese la tangente e scivolò via piatta.
«Porca…»
Picchiai a terra e le alette del motore mi schiacciarono il ginocchio. Battei la testa, mollai le maniglie, rimbalzai due volte. Frustai col bacino contro il guardrail e volai per aria. Mentre compivo un’evoluzione che avrebbe battuto tutti i record di visualizzazione su Youtube, sentii il motore andare così su di giri che pensai potesse esplodere.
Strano come di certi momenti rimangano impresse le cose più stupide. Ero nella merda, volteggiavo come uno stuntman e mi accorsi del versaccio di un gufo, che si faceva tanto più distinto quanto più il rombo impazzito della mia Ducati si allontanava scemando.
Atterrai di schiena. Il dolore fu così intenso che persi i sensi.
Mi svegliai che il sole era già alto e picchiava come un boia. Alzai la testa e subito una fitta mi aggredì il collo. La gola, la lingua e il palato erano aridi. Mi sfilai il casco. Mezzo accecato dai riflessi, socchiusi gli occhi e li riaprii per gradi; vidi prendere forma una bottiglia di birra, una Becks, appoggiata su una grossa pietra piatta a pochi centimetri dalla mia faccia. Che cazzo ci faceva là? Era già stappata, con quella patina di condensa sul collo che si forma sul vetro solo quando il contenuto ha una temperatura prossima allo zero. Mi immaginai a berla e quasi piansi per l’emozione.
Piegarmi per allungare il braccio fu uno degli sforzi più dolorosi e intensi che la memoria di una vita di merda avrebbe mai potuto cagarmi in testa; ruotai la spalla e… sorpresa! La stronza di bottiglia non c’era più. Un fottuto miraggio.
Ormai mi ero mosso, quindi provai a trascinarmi in cerca della strada. Mettersi in piedi neanche a provarci, il ginocchio sinistro mi faceva cantare come nemmeno quelli dei talent show. Della strada manco l’ombra; solo rocce e sabbia, pietre e argilla.
Mi poggiai sulla spalla e portai una mano alla faccia, dovevo pensare.
«Cazzo, il telefono!» gridai come un deficiente. A non pensarci subito.
Le cose più ovvie sono sempre quelle che nell’immediato sfuggono. Mi tastai il pantalone con l’angoscia di non trovarlo. C’era. Sgonfiai i polmoni e infilai la mano. Adesso chiamo i soccorsi. Cazzo, e cosa gli dico se mi chiedono dove mi trovo? Dunque, dov’ero quando… Merda! Ma quella era un’enorme chiazza d’olio. Cosa ci faceva al centro della strada? Era la stronza di curva che si chiude di brutto, che Susanna ne ha il terrore… sì, ma come glielo spiego dov’è? Il GPS! Benedetta tecnologia, gli mando le coordinate. Ora li chiamo.
Portai il telefono alla vista e strusciai su col gomito sinistro per usarlo a due mani, la destra da sola tremava troppo.
Era spento. Dio, no! Fa’ che non sia morto.
Premetti con insistenza sul pulsante di accensione, quei pochi secondi di attesa furono pazzeschi. Rividi tutte le immagini della mia vita scorrere in un dannato schermo nero della Samsung. «Cazzo, accenditi!» lo incitai apprensivo, nemmeno stessi aspettando un lancio di mutandine col profumo di fica ancora intriso nel cotone.
Quando vidi il logo TIM, ebbi un sussulto tale che la schiena si lamentò così bastarda da farmi pensare a una nuova caduta.
«Dai, dai!» gridai allo schermo; ci mise una vita, si illuminò, le prime icone, ricerca nelle sottocartelle, ancora nessun segnale… nessun segnale… nessun segnale.
«Cazzo.» Avevo sempre amato quelle colline, ma in quel momento le odiai. Nessun segnale. Che giornata di merda.
Provai a trascinarmi più in su, con uno sforzo terrificante. Mi resi conto che la gamba destra mi doleva poco, decisi di alzarmi. Mi arrampicai su una grossa pietra, sempre col cellulare in mano. Strusciai col petto, ansimai, i muscoli bruciarono, mi ritrovai dritto. La testa girava come una trottola, ma non me ne fregava un cazzo, era come mi fossi fatto un acido, pure gratis. Dovevo solo concentrarmi sui piedi. Pensai di risalire ancora, per vedere se trovavo le tacche in quella merda di arnese. Feci una mezza dozzina di metri, alzai il telefono, una c’era. Ero così debilitato che non riuscii nemmeno a esultare.
Squillò. Il numero era privato.
Non credetti alle mie orecchie, non dovevo nemmeno fare lo sforzo di chiamare, cazzo, era il mio momento fortunato. Strisciai l’indice sullo schermo.
«Pronto?» La mia voce uscì incerta.
«Ciao pupazzetto.» Era un tono affabile, che lasciava chiaramente intendere un’aria divertita.
«Con chi parlo?»
«Sono io, come… non mi riconosci? Guarda che così mi offendi.»
«Senti, chiunque tu sia, ho bisogno di aiuto.»
«Perché? Cosa ti è successo?»
«Ho avuto un incidente, in moto.»
«O mio Dio! È grave?»
«Non saprei, ma non va molto bene.»
Ci fu un momento di silenzio.
«Pronto, ci sei ancora?» domandai.
«Sì, sì, è che stavo riflettendo…»
«Su cosa? Aiutami, ti prego.»
«Ti è piaciuto lo scherzetto della macchia d’olio?»
Di cosa diavolo stava parlando quello?
«Scusa, ma chi sei tu?» chiesi col respiro che iniziava ad affannarsi.
«Sono io! Quello che ti vuole morto.»
Riattaccai. Cazzo. Solo in quel momento collegai la voce alla persona. No, non era possibile. Era lui, cazzo. Portai una mano alla bocca, pizzicandomi nervosamente le labbra, cercai di mantenere la calma. Per prima cosa dovevo chiamare i dannati soccorsi. Avvicinai di nuovo il telefono. Merda, nessuna tacca.
Feci un paio di passi trascinati, il dolore ormai aveva invaso il mio corpo come un virus letale. Squillò di nuovo. Esitai. Ma più non rispondevo, più la suoneria del telefono mi entrava acuta nella testa. Mi sentii come vittima di una magia, peggio, una stregoneria, di un merdoso sortilegio.
«Troia!» gridai disperato. Strisciai quel cazzo di dito. «Senti, tirami fuori di qui» dissi subito «e poi ne parliamo con calma. Ci sono delle cose che non sai, devo spiegarti.»
Dall’altra parte il silenzio, per qualche secondo. «Bene, allora spiegami adesso, son tutt’orecchi.»
«Non è stata colpa mia…»
Una risata. «Tutto qui? Quale colpevole non dice d’essere innocente?»
«C’è stata una telefonata, dovevo correre…»
«E hai pensato bene di prendere il denaro, svignartela con la roba e lasciarmi di sotto a sfigurarmi tra le fiamme.»
«No! Non è andata così! Io non sapevo nulla dell’incendio.»
«Balle, tutte balle. Il denaro l’hai preso?»
«Ehm, sì.»
«Prima neghi poi confessi? Non sei un grande avvocato di te stesso.»
«Ma l’ho preso perché me l’ha detto lui.»
«Lui chi?»
Cazzo, il Gobbo. Quel bastardo che adesso mi stava anche rubando la donna. Vuoi vedere che…
«Senti…» dissi «ma quando è scoppiato l’incendio, il Gobbo dov’era?»
«Era di sopra con te, testa di cazzo.»
No, non c’era, avevamo appena parlato al telefono, mi aveva detto di portare i soldi a… merda, a Susanna. Cazzo che casino. Ci avevano fottuti entrambi. Lui e quella stronza della mia donna. Bastardi.
«Senti Smilzo, credo di avere capito cosa è successo, lascia che ti spieghi, ci hanno fregato.»
Dall’altra parte, silenzio.
«Smilzo?»
Guardai il telefono. Morto. Provai a riaccenderlo, tolsi la batteria e la rimontai, niente da fare. Stavolta era quella definitiva. Che sfiga di merda. Gettai lontano il cellulare e provai a risalire ancora un po’ lungo la scarpata. Strano, ma più mi sforzavo e più mi sentivo leggero, come se il corpo a pezzi e dolorante non fosse il mio. Mentre avanzavo, ripensai alla chiamata: avevo appena parlato con lo Smilzo. E io che credevo ci fosse crepato, in quella brutta storia. E lui che invece era sicuro fossi stato io a fotterlo, mentre era stato quell’altro. Guarda te, la vita. Se solo fossi riuscito ad averlo tra le mani, quel verme del Gobbo.
Notai una macchia scura dietro alcune rocce. Era bassa, l’istinto fu di chinarmi e fuggire in silenzio, con calma, ma quella roba non si muoveva. Lentamente, mi feci coraggio e guadagnai qualche metro, trascinandomi fino a dietro una grossa roccia. Spiai, era il corpo di un tipo sdraiato in terra. Raccolsi un sasso, glielo gettai contro, lo colpii al braccio, nessuna reazione. Provai di nuovo. O era svenuto o era andato.
«Ehi!» Nulla.
«Ehilà!» Niente da fare.
Girai intorno al masso e mi avvicinai. Una pozza di sangue si era allargata per almeno due metri, invischiando tutto il pietrisco. Vidi la moto poco più giù, nel crepaccio, cazzo, era uguale alla mia. Lo guardai in faccia. Fottuto bastardo, mi somigliava di brutto. Avrei potuto essere io.
Le cose più ovvie sono sempre quelle che nell’immediato sfuggono.
Il racconto che avete letto è risultato il migliore tra quelli che hanno partecipato al nostro contest estivo. Il tema da seguire era: provate a immaginare una vacanza estiva… in montagna, al lago, al mare, in barca, come volete voi… e provate a immaginare come questa tranquilla vacanza possa trasformarsi in un incubo e raccontateci questa storia! Horror, giallo, thriller, noir, va bene tutto. Purché si tratti di una vacanza da brivido!
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L’autore del racconto:
kapello
Chi sonoEcco, sapessi chi sono, avrei risolto la metà dei miei dubbi… L'unica cosa certa è che nei miei primi quarant'anni non sono stato uno scrittore. Sui secondi quaranta ci sto lavorando su, per vostra sfortuna.
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