Scolpire d'affetto - Viola Amarelli letta da Giampaolo De Pietro

Da Ellisse

Scolpire d'affetto

una lettura a Le nudecrude cose e altre faccende di Viola Amarelli, leggendo quasi di seguito Cartografie della stessa autrice

Per naturale conseguenza e coincidenza, si vuole qui rapportare le scritture di Viola Amarelli alle sculture, appena appena scoperte (solo con un secolo di ritardo) di Germaine Richier. Fosse anche solo per la presenza (in presenze) di figure in osmosi – umane, animali – fantastiche e reali; insomma: viventi e anche brutali, piccole, bronzee, per l’appunto - contraddittorie, imperfette.

Scrivere è dialogare con loro. Considerare il materiale possibile, e quello felice, da cantare lo stesso e pertanto (memori di ogni incontro), da ascoltare intanto e sentire sempre.

Si può scoprire che Germaine Richier era solita ripetere “Amo la tensione, il secco, il nervoso”.

Le Nudecrude cose e altre faccende (L’arcolaio, 2011) hanno una loro successione, una loro partecipazione e “imitazione” (dell’intorno, di ogni avverbio che le vede e le prende a titolo e ad esempio), una metamorfosi necessaria, di gesti e mimica. Un ritmo incessante abita i versi, il verso “distaccato” dall’io (almeno un io che se ne va, tra un rigo e l’altro), e quello di un tempo da ritrarre così com’è, mitico di per sé. Le Nudecrude si lasciano ritrarre, portare sulla carta, fotografare, ancora imitare mentre “se ne fottono”. “Dietro,” – hanno – “l’oceano”.

“Il fuori oggi è come il dentro”: così parte il “discorso” di chi se ne appropria (stavolta in prima e loro persona), quello della Amarelli che ferma uno dei suoi ritratti con un verso come “Siamo vivi”e scava, richiama superficie e osserva, a puntino il continuo film del vicino, lasciandosi toccare – “D’affetto aperto”.

“Distolgono gli occhi e si tappano le orecchie” – forse hanno un sesto e settimo senso, anzi, lo hanno di certo, forse quello del loro stesso corpo, materia che sono, trattabile, friabile, scolpibile. E tante: ciottoli, schegge, sassi, massi, selci, rupi. Sono forse, come le piccole sculture bronzee della Richier, bisognose di uno schermo, ricoperte o circondate da ragnatele di fili.

“L’immaginazione necessita di un punto di partenza”, sosteneva ancora la scultrice e disegnatrice francese. Qui i punti di partenza, e anche i segni d'interpunzione hanno un corpo e un nome, lettere alfabetiche e personaggi in dialogo.

“A volte l’affetto è molto semplice”, fa Viola Amarelli - "per lieto contrappeso" c'è sì, "grazia e gioia" in questo libro e nella sua poesia.

Il ritmo, fino a non straripare, nel ritmo

L’altro libro dell’autrice. appena uscito, in cui sembra aver preso corpo, ancor di più se possibile il racconto, o ritratto si intitola “Cartografie” (Zona Contemporanea, 2013). Qui probabilmente l’orchestrazione prosastica amplia il suo scolpire figure, sceglie di agire, o forse pure di reagire alla scrittura stessa, spessificandosi, stratificando scene e confini. Ancora figure. Stavolta di carta, strade e strati di realtà a soggetto. Forse che la prosa in Amarelli sta come il disegno in Richier e la poesia come "fine" da scolpire?

Probabilmente questi ritratti sono i disegni preparatori alle sculture. La scultura, fine "primo" della Amarelli: la poesia. C’è l'uomo smarrito, quello asservito, l'uomo bestiale, quello perduto, quello "venuto male", nascosto da una luce elettr(on)ica o da un cellulare, da una smorfia che lo sottrae momentaneamente al vivere "male", o "bene" che sia. Pur di stare. Dentro al sesso, come si conviene, a suo modo, magari "naturale", dentro le occasioni di amare, le persone care, le persone. Fuori da sé, ma per ritornare. Questa umanità, ancora come in Germain Richier è bestiale e fenomenica, naturale, insomma, e l'autrice non ha remore nel descriverla impietosa e ancora impetuosa di reale angoscia e poi - non è un sotterfugio, ma forse il rifugio della penna stessa, o della matita che traccia la planimetria del "trattare" c’è il piccolo non dimenticato, mai, ritrovo del sognare, che non è forse ancora "sognarsi", ma essere dentro a un dialogo col fuori, necessario - possibile, sostenibile per crederci ancora, e ora. Prima di addormentarsi e partire. La carta (geo)grafica coi segni, le punteggiature come spuntoni tra il percorso tortuoso di una vista, un tatto, un segno, un olfatto e un mai dimenticato ascolto / udito. E il cuore, con il fin di bene, che non è mai detto / ma sentito, semmai - non illustrato a parola, ma tratto nei segni di una riflessione inaspettatamente compassionevole. (giampaolo de pietro)

Testi da “Cartografie”

(testimone)

Tutto l’orrore, la fuga, lo strozzo e il sangue. Soprattutto pietre, e coltelli. Un’orgia di morti. Una cappa – ghignante – di spiriti. Macellai, tutti, vecchi, ragazzi e bambini. Bambini che cavavano gli occhi, dietro i grandi che uccidevano. Collane di milze, e budella. Teste infilzate. La nausea dolciastra del sangue, l’inizio del putrefatto, dovunque nell’aria, non c’è, non c’è rifugio. Dalla morte.

…………………………………………………………

Un incubo. Affollato di suoni. Urlavano i macellai e le vittime, a chi urlava più forte. Uno sull’altro, un urlo corale sulle vie, le colline, tra gli alberi. Nelle chiese e nei fossi.

…………………………………………………………

Come mi sono salvato? Ma io ero tra gli assassini.

***

(sete)

Un granello, finché dura. Un granello assetato di menta, framboise, lime e cassis. L’hanno schiacciato, qualcuno. Lo conosce ma non ricorda chi è. Non ha neanche importanza: arrivano distonici frullati di piccioni a cagargli. Sulla testa e le scarpe – uno stormo di nemesiaci. Tanto dopo c’è l’acqua, che stempera.

Stempera anche il maiale. Sanguinacci e migliacci. Questi ultimi potrebbero essere granulosi. Un granello di migliaccio. Allo sciroppo di amarena. Ci sta – percorsi, impasti, ricicli. Cucine acchiappatutto. Gira e gira. Rigira al periplo, gli spazi.

Un granello dovrebbe essere irrilevante, a meno che non sia oltre, già, l’orlo. L’orlo di questo spazio, di questo cielo. Poi cade. Non lo vede. Non si vede. Più. Fine del mondo. Fondo appiccicoso di sciroppo. Ho sete.

* il termine sete ( sanscrito tṛṣṇā, pali taṇhā), utilizzato come equivalente di brama, è nel dharma buddhista all’origine delll’attaccamento al samsara e quindi all’origine del “dolore” .

***

( flusso)

Durante la festa di piazza si accorge che è lì vicino. Vicina è la folla ubriaca di trombe e grancassa, le mani che battono.

Son bravi, gli dice l’amico che lo accompagna. Sì, sono bravi, catturano i piedi e i fianchi di chi li ascolta e tutti, irretiti, si lasciano andare. E’ ritmo, al respiro, di fibrillazione, il tuono del cuore. Una specie di fiume, il sangue che accelera, risale e sta a galla, ricaccia i pensieri.

Un grande rito, da sempre assiepato, le innumeri repliche: affogare il cervello e star dentro, il sudore, le ascelle, la gola. Una manciata di eterno.

Fuori dai panni, che è un altro nome per l’andare oltre, lui non partecipa, non entra né muove. Si accorge che sta per capire qualcosa. Ascolta, una vecchia chiamata che torna e distoglie, dio, quant’è fuori, lui, dalla notte, le luci e dai corpi. Un fuori diverso.

E’ tutto magnifico, un mare di gioia, lo guarda e lo sente, non per lui ora. C’è un filo sottile, un’eco di caldo che avverte lui solo, vicino. Resta, dentro, i suoi panni, ci resta, è vicino. A capire. Non sa bene cosa. E’ proprio dentro, un raggiungersi cieco. Inutile, e sciocche, la fuga o la quiete. Combacia, increato.

“Che bella serata” rifiata euforico l’amico al suo fianco.

Concorda cortese - che splendida vita, non c’è da capire, la vecchia chiamata è da sé la risposta. Un flusso d’affetto aperto sul vuoto.


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