Scomparire

Da Miwako
Non so nemmeno come sia successo, probabilmente per caso, come la maggior parte delle cose significative in cui "inciampiamo"; cercare un documento dell'università e trovare un vecchio diario appartenuto alla propria madre, cercare le fototessera per il curriculum e ritrovarsi catapultati indietro di 15 anni, tra vecchie foto e odore di ricordi, quando ci si chiamava al telefono di casa e (orrore-orrore) un giubbotto in jeans del charro era qualcosa di cui andare fieri.Allo stesso modo, cercando NonSoCosa su internet, mi sono imbattuta in un blog di Mia, un'amica di Ana. La loro è una storia triste, cruda, ingiusta, è una storia di sofferenza, disagio, distorsione della realtà, dolore così profondo e lancinante da lasciare cicatrici ovunque. Una storia che ha un inizio certo ma una fine ignota, una storia in cui le protagoniste sono sopraffatte da ciò che di ingestibile c'è dentro di loro, annientate ed esaltate allo stesso tempo da cio che più le fa sentire vive, che è la stessa cosa che più le avvicina alla morte, risucchiate in un buco nero che consuma, dentro e fuori, fino a lasciare solo una cosa: un cumulo di ossa.
C'è una sorta di estasi compiaciuta nel loro dolore, e la maggior parte di loro è consapevole di ciò; una spaventevole lucidità traspare da ciò che scrivono, un consapevole delirio le accomuna e le avvicina, e la vicinanza con chi è simile, si sa, fa sentire bene, accettati, capiti. Ho così tanti pensieri in testa, che non so nemmeno cosa scrivere. Per le due ore passate sono stata immersa fino al collo in un liquido nero, denso, simile a sabbie mobili, ho pianto con loro, ho contato calorie, vomitato con la testa nel cesso, accarezzato quelle ossa sporgenti sentendo quel sottile delirio di onnipotenza che tanto avvicina alla morte, ho sentito i loro passi muoversi incerti e fluttuanti in un mondo irreale, ho sentito le loro esili dita sfogarsi sulla tastiera, per sentire forse un po'di calore, trovare forse un buon consiglio su come perdere quei tre chili che le separano dall'agoniata prefezione, o forse, solo per sentire qualcosa. In una specie di anestesia locale, un autismo emotivo, che inibisce e inebetisce alcuni tratti della persona e ne esalta altri ad un livello inumano, in cui il valore delle persone si esprime in grammi, in cui la bilancia è colei che ha le risposte, in cui lo specchio è l'occhio dell'anima, in cui ciò che vedi non è mai all'altezza di ciò che vorresti vedere. E non posso fare a meno di chiedermi come si sentano queste persone, cosa sognino, a cosa pensino quando aprono gli occhi all'alba di un nuovo giorno. Non posso fare a meno di pensare utopisticamente che vorrei fare qualcosa per loro, che vorrei abbracciarle, che vorrei che per una volta, per un giorno soltanto, potessero non avere nessun problema, che per una volta nelle loro vite distrutte sapessero cosa si prova  a sentirsi bene nella propria pelle, a non essere schiave di quel mostro che si è insinuato in loro e che loro stesse nutrono di aria, vorrei che per una volta 300 non fosse il numero di calorie ingerite, ma le volte  in cui hanno riso di cuore, vorrei che si guardassero allo specchio per mettersi l'eye-liner e pensare "oggi mi piaccio", vorrei che potessero mangiare dieci biscotti sedute sul divano, davanti a un bel film e non sedute sul pavimento del bagno, davanti al water, vorrei che due dita invece di essere infilate in gola, fossero separate a formare il simbolo della pace. Pace con se stesse, pace col mondo, pace con la realtà, con la bellezza della vita, pace con l'idea di come il proprio corpo dovrebbe essere, col bisogno di controllare tutto, pace con la sofferenza, il dolore, le lotte, pace con le aspettative, con le fragilità e i difetti, pace con le delusioni, le ossessioni, le paure... Forse sto vaneggiando, parlo di qualcosa che non conosco e dovrei stare zitta. Non era questo ciò che volevo scrivere, ciò di cui volevo parlare. Avrei voluto parlarvi dell'orrore che ho captato dietro le loro parole, di tutto ciò che si nasconde dietro la frase " Questo è un blog Pro-Ana", o "Sarò fedele ad Ana per sempre", parole che fanno paura, parole che feriscono, parole che sembrano urla, parole che SONO urla, di sofferenza, sangue, vittorie invertite, allucinazioni percettive che divorano anche l'anima. Avrei voluto provare a descrivere quel brivido mortale che ha risalito la mia schiena mentre leggevo "I DIECI COMANDAMENTI DI ANA", la cattiveria e il qualunquismo di persone che commentano con ferocia e si fanno giudici della società dell'apparire, senza nemmeno provare a capire ciò che sta dietro la magrezza ostentata; avrei voluto raccontarvi della palese e inquietante soddisfazione che ho intuito nel sentirsi la morte alitare sul collo, nell'infliggersi sofferenze indicibili, della triste condanna a non saperne fare a meno... Invece le emozioni hanno avuto la meglio, e mi sono ritrovata per l'ennesima volta a scrivere un post sconclusionato in cui mi spoglio in maniera random, mi metto a nudo e dico ciò che penso, come se stessi parlando a me stessa.  Vorrei essere capace, una volta tanto, di scrivere qualcosa imparzialmente, senza fare capolino da dietro le parole, senza metterci così tanta emotività. Ma non ne sono capace. E, forse, oltre ad essere una cosa che non mi appartiene, l'incapacità di rimanere inerme e imparziale davanti a certe cose, non è sempre una cosa negativa.

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