Ma non mi voglio soffermare su questo panorama grottesco anche se la voglia mi verrebbe visto che un mio zio rimase prigioniero degli inglesi in India per cinque anni e l’unica cosa di cui non si lamentò mai fu appunto la cucina che anzi gli rimase nel cuore con i suoi straordinari profumi. E di certo i campi di Bangalore prima e di Yol poi non erano grand hotel e nemmeno pensioni mariuccia.
Tuttavia questo spunto di cronaca con tutto il retroterra di chiusure e timori culinari, con l’esplodere di provincialismi persino indecenti, possono farci allargare il discorso e portarci a parlare delle occasioni perse della nostra industria alimentare che man mano si vede soppiantare da prodotti “italiani” fatti altrove. Abbiamo così il gorgonzola dell’Oregon, che non è affatto male (le muffe sono direttamente comprate in da noi) , le mozzarelle dell’Illinois decisamente migliori di quelle industriali, mentre ci riduciamo a produrre spaghetti precotti e venduti a noodles come quelli cinesi per penetrare nel mercato asiatico.
A forza di considerare le cose prodotte altrove come semplici imitazioni dell’inimitabile, abbiamo perso di vista due cose essenziali: che i sistemi industrializzati di coltivazione e di allevamento stemperano le differenze date dal territorio e che l’export basato su una superficie limitata, giù largamente insufficiente per la popolazione italiana, non può che essere marginale. Dovevamo andare a produrre altrove per i vari mercati, soprattutto dopo che molti cibi italiani sono divenuti di uso mondiale, invece di difendere una territorialità che via via è divenuta sempre più marginale come è successo con il vino, soprattutto quando alle specie autoctone si sostituiscono quelle generalmente omologate dai mercati per la loro produttività.
Ora onestamente è difficile pensare che il parmigiano prodotto con animali importati dal parmense, messi in stalle dove mangiano le stesse cose, con aree di pascolo seminate alla padana, in situazioni climatiche simili, utilizzando gli stessi cagli e le stesse strutture di conservazione, possa essere davvero molto differente. Certo possiamo apprezzare le differenze tra i formaggi fatti in malghe diverse anche se vicine, ma si tratta di quantità minime: quando le produzioni raggiungono un certo livello prevale la media e l’uniformità.
Sarebbe stato facile anni fa conservare i nostri “segreti” culinari proprio andando anche altrove a produrli, conservandone la titolarità, i benefici economici e anche il prestigio. E invece è l’unico campo dove non è avvenuta alcuna delocalizzazione. Magari si preferisce abbassare la qualità delle nostre produzioni per fare profitto, vendere qualche piccola quantità altrove a prezzi folli che inducono le industrie locali a subentrare. Così non è detto che in un prossimo futuro non mangeremo anche noi il gorgonzola dell’Oregon che magari rischia di essere persino migliore e a prezzo più basso.
Insomma non siamo stati all’altezza del successo avuto dalla nostra cucina e dalle nostre specialità, abbiamo pensato che comunque avremmo avuto pochi clienti, sacche di emigrazione a parte, disposti a sborsare notevoli cifre pur di avere cibo etnico. Invece adesso la pasta, la mozzarella, i nostri formaggi e salumi, sono divenuti mondiali come il sushi e gli involtini primavera, come il curry o il kebab e noi non abbiamo il territorio sufficiente per poterne produrre abbastanza.
Altro che gli eroici marò in astinenza di pummarola. La nostra guerra in cucina l’abbiamo già persa.