Sconti per Giunti, Adelphi e Mondadori

Creato il 06 novembre 2011 da Martinaframmartino

Ancora sconti da segnalare. Ricordo che con la nuova legge è vietato attuare sconti sui libri nel mese di dicembre, perciò gli editori hanno concentrato le loro offerte in quest’ultimo periodo utile prima della pausa obbligatoria.

Fino al prossimo 27 novembre Giunti propone la collana Atlanti illustrati con lo sconto del 25%. Sono oltre 70 titoli che spaziano dall’arte alla cucina, dalle auto alla natura, dalla storia alla scienza.

Un elenco dei titoli: http://www.ibs.it/ser/serpge.asp?type=keyword&p=ua1272&seq=tit&rem=n&ros=si&dh=50

Lo stesso giorno, il 27 novembre, terminerà anche la campagna proposta da Adelphi. Lo sconto è minore, 15%, ma le collane interessate sono due: la Biblioteca Adelphi e la Piccola Biblioteca Adelphi.

Della prima fanno parte 583 titoli, della seconda 618. Ne segnalo solo una minima parte.

Biblioteca Adelphi: http://www.adelphi.it/catalogo/cerca/reply/advanced/YTo3OntzOjQ6InR5cGUiO3M6ODoiYWR2YW5jZWQiO3M6MTQ6InRoZW1lc19jb2xsZWN0IjtzOjA6IiI7czo3OiJPcmRlckJ5IjtzOjU6InNjb3JlIjtzOjE6InEiO3M6MDoiIjtzOjU6ImZpZWxkIjtzOjU6IlNtYXJ0IjtzOjU6InNlcmllIjtzOjE6IjEiO3M6NDoieWVhciI7czowOiIiO30=/p1

Jorge Luis Borges, Finzioni.

Il risvolto di copertina:

Un falso paese scoperto in «un’enciclopedia pirata», Uqbar, e un pianeta immaginario, Tlön, «labirinto ordito da uomini» ma capace di cambiare la faccia del mondo; il Don Chisciotte di Menard, identico a quello di Cervantes eppure infinitamente più ricco; il mago che plasma un figlio nella materia dei sogni e scopre di essere a sua volta solo un sogno; l’infinita Biblioteca di Babele, i cui scaffali «registrano tutte le combinazioni possibili della ventina di simboli ortografici … cioè tutto ciò che è dato di esprimere: in tutte le lingue» e che sopravviverà all’estinzione della specie umana; il giardino dai sentieri che si biforcano; l’insonne Funes, che ha più ricordi di quanti ne avranno mai tutti gli uomini insieme; il perspicace detective Lönnrot, che risolve una serie di delitti grazie a un triangolo equilatero e a una parola greca, Tetragrammaton, e si condanna a morte; lo scrittore ebreo Jaromir Hladìk, cui Dio concede di portare a termine una tragedia in versi davanti al plotone di esecuzione tedesco, in un immoto istante che dura un anno.Sono i lemmi di un’enciclopedia illusoria e al tempo stesso, non diversamente da quella di Tlön, di arcana, irresistibile potenza. Un’enciclopedia che ha scompaginato le nostre certezze in materia di letteratura e che tuttavia sembra riflettere il nostro paesaggio interiore – come un’antica mappa che, riaffiorata d’improvviso alla luce, riveli segni e simboli inspiegabilmente familiari. Un’enciclopedia che, forse, avevamo già sognato. Finzioni (1944) giunse in Italia nel 1955, e la traduzione di Franco Lucentini fu la prima di un’opera di Borges. Ora, a distanza di quasi cinquant’anni, lo presentiamo in una nuova versione, che tiene conto delle varianti e delle aggiunte introdotte nella seconda edizione, del 1956: basterà ricordare che furono inclusi tre nuovi racconti – La fine, La setta della Fenice e Il Sud –, fra gli ultimi scritti da Borges prima della lunga pausa narrativa che si concluderà con Il manoscritto di Brodie.

Elias Canetti, Massa e potere.

Il risvolto di copertina:

Nel 1922, a Francoforte, lo studente diciassettenne Elias Canetti si trovò ad assistere a una manifestazione contro l’assassinio di Rathenau. Quel giorno egli sentì che la massa esercita un’attrazione enigmatica, qualcosa di paragonabile al fenomeno della gravitazione. Nel 1927, a Vienna, compiva un ulteriore passo: l’esperienza di essere nella massa, partecipando al grande corteo del 15 luglio, quando fu incendiato il Palazzo di Giustizia. La polizia sparò: novanta morti. Nelle sue memorie Canetti scriverà, a proposito della massa: «È un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l’enigma nondimeno è restato tale». Il «qualcosa» a cui qui si allude è Massa e potere, che apparve nel 1960, dopo trentotto anni di elaborazione. Già questi elementi, queste date fanno capire quale immensa energia, concentrazione, furia si sia depositata in queste pagine. Alla lunghissima genesi dell’opera corrisponde l’estrema singolarità della sua forma. Qui non ci viene semplicemente offerta una nuova teoria da allineare alle tante già esistenti su queste due parole ossessive: massa, potere. Profondamente avverso alla coazione a spiegare, che opprime la nostra cultura, Canetti è qui riuscito nell’impresa di pensare con il massimo della precisione, ma tenendosi sempre «al margine del mondo dei concetti». Questo libro, che si presenta come una severa trattazione scientifica, è ben più di un racconto frastagliato e sanguinoso: è un vasto mito costellato di tanti altri miti, spesso dissepolti con passione da libri dimenticati nell’oscurità delle biblioteche. Prima di diventare una vistosa caratteristica delle società moderne, la massa è stata, la massa continua ad essere molte altre cose. Per avvicinarci a capirla, bisogna innanzitutto ricordare – come dice un antico testo ebraico – «che non esiste spazio vuoto fra cielo e terra, bensì tutto è pieno di schiere e moltitudini». La massa è qualcosa di esterno, ma può essere anche interna; è visibile, ma può essere anche invisibile; può uccidere, ma attrae. Massa è in primo luogo quella sterminata dei morti. Massa è il fuoco, il grano, la foresta, la pioggia, la sabbia, il vento, il mare, il denaro. Massa è la «scena psichica» dello schizofrenico. La massa, infine, non può esistere se non come contrappeso, cosmica ’paredra’, di un’altra soverchiante entità: il potere. Alla proliferazione della massa deve rispondere la tenebrosa solitudine del potente. Genghiz khan e il presidente Schreber, il sultano di Delhi e Filippo Maria Visconti spiccano nel loro molteplice delirio sul fondo di masse di sudditi, cadaveri, allucinazioni. Con l’asciuttezza vibrante di un annalista cinese, Canetti ha saldato in un tutto questa immane storia che vive in ciascuno di noi, che è iscritta nei nostri gesti elementari: afferrare, fuggire, spiare, ingoiare. La muta dei cacciatori paleolitici convive e si intreccia per sempre con i dimostranti che incendiano il Palazzo di Giustizia, con il rogo della biblioteca di Kien in Auto da fé. Alla fine riconosciamo come dallo sluagh-ghairm, il grido di battaglia dei morti negli Highlands scozzesi, discenda e si espanda in tutto il mondo un’altra parola: lo slogan.

Wassily Kandinsky, Punto, linea, superficie.

Il risvolto di copertina:

«È come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma» scriveva Kandinsky in una lettera del 1925, alludendo alla sua pittura. Ma lo stesso si potrebbe dire del libro che egli avrebbe pubblicato pochi mesi dopo, Punto, linea, superficie, testo capitale e rinnovatore per la teoria dell’arte e non solo per essa. Fra tutti i grandi pittori del ’900 Kandinsky è quello che forse più di ogni altro ha sentito l’esigenza di dare una formulazione teorica ai risultati delle proprie ricerche e di allargarne il significato toccando tutti i piani dell’esistenza. Già nel 1910, quando appena cominciava ad aprirsi la strada alla terra incognita dell’astratto, Kandinsky aveva scritto Über das Geistige in der Kunst, altro testo di grande risonanza, proclama mistico più che saggio di estetica, appello a un rivolgimento radicale della vita oltre che al rinnovamento dell’arte. Punto, linea, superficie si presenta come un’opera più fredda e tecnica, ma in realtà è l’espressione più articolata, matura e sorprendente del pensiero di Kandinsky. Alla base del libro sono i corsi che Kandinsky teneva dal 1922 al Bauhaus. In essi egli mirava soprattutto a individuare la natura e le proprietà degli elementi fondamentali della forma, perciò innanzitutto del punto, della linea e della superficie. Con estremo radicalismo Kandinsky dichiarava allora di voler fondare una scienza dell’arte: nel corso ulteriore delle ricerche i problemi avrebbero dovuto esser risolti matematicamente, e su questa strada si sarebbe mossa tutta l’arte futura. Per questo suo assunto e per le scoperte che per la prima volta vi sono esposte, Punto, linea, superficie ebbe un’influenza determinante in diversi campi, basti pensare alla grafica. Ma ciò che oggi colpisce nel libro è innanzitutto l’abbozzo di una metafisica della forma, ben più che il progetto di una scienza esatta. Per Kandinsky la forma, in ogni sua specie – naturale e artificiale –, è manifestazione significante di una realtà, è tensione di forze, e solo in rapporto al suo sottofondo invisibile può essere compresa. È chiaro che, con ciò, viene abbandonato irrimediabilmente il recinto dell’estetica: si entra invece in un regno diverso, dove ogni forma diventa un essere vivente – e in questo regno Kandinsky ci introduce come un rabdomante, che rintraccia e traduce continuamente l’uno nell’altro, con la sua inquietante sensibilità eidetica, segni sonori, grafici, cromatici. Così, procedendo all’interno di questo trattato, al tempo stesso di pittura e di geometria «qualitativa», ci accorgiamo di partecipare a una grande avventura fantastica. Kandinsky ci insegna ad «ascoltare» la forma, come mai nessuno prima di lui, e il suo insegnamento ci mette in un nuovo rapporto con l’opera d’arte, ci apre una possibilità di esplorazione, che è, come scriveva egli stesso, «la possibilità di entrare nell’opera, diventare attivi in essa e vivere il suo pulsare con tutti i sensi». Punto, linea, superficie fu pubblicato per la prima volta nel 1926.

C.S. Lewis, Lontano dal pianeta silenzioso.

Il risvolto di copertina:

Oxford, 1937: nell’appartamento di C.S. Lewis al Magdalen College, J.R.R. Tolkien e il padrone di casa leggono a un gruppetto di amici che si riuniscono regolarmente il giovedì sera alcuni capitoli dei romanzi che stanno scrivendo: Il Signore degli Anelli e Lontano dal pianeta silenzioso. Le due grandi saghe fantastiche sono infatti nate e cresciute in parallelo – e come fondandosi su una stessa constatazione: «Ho paura» aveva detto C.S. Lewis a Tolkien «che se vogliamo leggere storie come piacciono a noi, dovremo scrivercele». Le storie che piacciono a Lewis sono quelle in cui l’invenzione del narratore e la passione dialettica dell’apologeta si combinano per dare vita a una sorta di mito moderno. Lontano dal pianeta silenzioso racconta l’avventura di Elwin Ransom, professore di filologia in vacanza, che due scienziati rapiscono per un loro losco disegno e trasportano sul pianeta Malacandra. Sfuggito ai rapitori il giorno stesso dello sbarco, solo in un mondo dalle tinte di acquerello, dove le foreste sono labirinti di fragili steli violetti alti dodici metri, Ransom incontra Hyoi, del popolo dei hrossa, agricoltori e poeti dal nero corpo lucente, e gli altri abitanti del pianeta: gli altissimi e sapientissimi sorn e i pfifltriggi simili a ranocchi, maestri di tutte le arti della pietra e del metallo. Scoprendo, con il loro aiuto, i segreti del pianeta Malacandra, Ransom scoprirà anche il segreto della Terra, il «pianeta silenzioso» che da millenni ha cessato di conversare con gli altri mondi. Lontano dal pianeta silenzioso (1938), già apparso in Italia nel 1951, viene qui riproposto in una nuova traduzione.

Mervyn Peake, Tito di Gormenghast.

Il risvolto di copertina:

Apriamo questo libro e ci troviamo in un mondo parallelo al nostro. È Gormenghast, un immane castello, che nessuno dei suoi abitatori ha percorso in tutti i suoi anfratti. Un tempo, doveva essere pieno di tinte squillanti: ora è un intreccio di crepe, e le tinte sfumano fra grigio, verde lichene, rosa antico e argento. Vi incontriamo esseri disparati: un nobile melanconico e saturnino, settantaseiesimo conte di Gormenghast, che è il reggitore del luogo; sua moglie, avvolta in una nube di gatti bianchi; la figlia, selvatica e sognante fra giocattoli vecchi, libri e pezze di stoffa; dignitari di cartapecora, dalle gambe di ragno, custodi di un ordine ormai inaridito; orripilanti figuri che sovraintendono alle cucine; giovani acrimoniosi, che covano la rivolta. Ma c’è qualcosa che unisce questi personaggi: il loro corpo e la loro psiche sono una concrezione del castello – così come il castello è una concrezione del loro essere. Nessuna vita è per loro concepibile al di fuori di quei corridoi di pietra, di quei saloni, di quelle torri, di quei solai. La natura non esiste, se non come riflesso del castello, dove la polvere è polline: perché Gormenghast è tutto. La nascita di un erede maschio, Tito di Gormenghast, «rampollo della stirpe delle pietre, acqua del fiume senza fine», porterà una minaccia di cambiamento, per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo. E qui ha inizio la trascinante saga narrata da Peake, un’impresa grandiosa della letteratura fantastica – e insieme un vasto disegno allegorico che traspare dietro l’esuberanza delle immagini. Tito di Gormenghast fu pubblicato nel 1946, primo volume di una trilogia che sarebbe stata compiuta nel 1959. Il libro trovò, fin dall’inizio, lettori entusiasti, ma – un po’ come accadde a Tolkien – per molti anni essi rimasero una piccola cerchia. La morte di Peake, nel 1968, coincise invece con l’inizio di una grande voga fra lettori di ogni specie. Accolta fra i «classici moderni» della Penguin, la trilogia di Peake è ormai un’opera amata in tutto il mondo. Come scrisse C.S. Lewis, «Peake ha creato una nuova categoria, il Gormenghastly, e già ci meravigliamo di come prima potessimo vivere senza di essa e ci chiediamo come mai nessuno aveva saputo definirla prima di lui».

Mervyn Peake, Gormenghast.

Il risvolto di copertina:

Soverchiato dalla cima ad artiglio e dalle giogaie scoscese dell’omonimo monte, il reame di Gormenghast ha il suo centro in un immane agglomerato tirannico con le sembianze di un castello. Qui ogni antica bellezza si è corrotta in cupa fatiscenza: le mura sono sinistre «come banchine di moli», e le costruzioni si tengono tra loro «come carcasse di navi sfasciate». E qui, intorno al piccolo Tito – divenuto il settantasettesimo conte dopo la misteriosa morte di Sepulcrio –, si muovono gli esseri inconcepibili che sono la sostanza stessa di cui è composto il castello: la gigantesca contessa Gertrude, la madre, dalle spalle affollate di uccelli e dallo spumoso strascico di gatti bianchi; l’amata sorella Fucsia dai capelli corvini, che col suo abito cremisi infiamma i corridoi grigi; il fanatico custode delle leggi, Barbacane, nano storpio che raggela il sangue col secco schiocco della sua gruccia; e il gelido Ferraguzzo, che non cessa di ascendere verso il culmine della sua bramosia di potere. Prigioniero di riti decrepiti e di trame che falciano la sua livida Corte, Tito, che pure vorrebbe sfuggire a Gormenghast, dovrà combattere per salvare dal Male il cuore del castello – e trovare se stesso: perché forse un altrove non è nemmeno pensabile, e tutto conduce a Gormenghast.Nel secondo pannello della sua trilogia, Peake raggiunge il nucleo più oscuro di una narrazione che molti hanno paragonato, per vastità di respiro e potenza visionaria, al Signore degli anelli. In realtà egli va molto oltre, riuscendo a saldare in un travolgente flusso romanzesco il male della storia e il Male metafisico, e a far dono al lettore di una scrittura che fonde lo smalto imprevedibile dei colori alla precisione iperrealistica dei dettagli – quasi la ‘trascrittura’ dell’arte di un pittore fiammingo gettato dal caso nel cuore di un altro mondo, che non abbandonerà più la nostra memoria.

Mervyn Peake, Via da Gormenghast.

Il risvolto di copertina:

Quando, alla fine del secondo pannello della trilogia, il giovane Tito, signore di Gormenghast, trova la forza di strapparsi al suo reame, la cui bellezza si è ormai corrotta in cupa fatiscenza, le parole della madre – «Non esiste un altrove. Tutto conduce a Gormenghast» – sembrano richiudersi sulla sua fuga come una pietra tombale. Scoprirà che un altrove esiste, ma che è divorato non meno di Gormenghast dal Male: la città a cui approda è solcata dalle disumane meraviglie del controllo poliziesco – figure con l’elmetto che paiono scivolare sul terreno, sciami di velivoli senza pilota simili a equazioni di metallo, globi dalle viscere colorate quasi umane –, sottomessa a una scienza dispensatrice di morte. E nei cunicoli del Sottofiume vive una immane popolazione di reietti, fuggiaschi, falliti, mendicanti e cospiratori che non vedranno mai più la luce del sole. Scoprirà che al di là della sua nessun’altra realtà è per lui decifrabile, così come la sua è per gli altri inconcepibile: lontano da Gormenghast non c’è che l’ossessione del ricordo, e la follia. Dovrà, sorretto dall’aiuto di pochi – il gigantesco Musotorto, l’amorosa Giuna, i transfughi del Sottofiume Cancrello, Frombolo e Sbrago –, combattere, sfuggire a insidie, sottrarsi a ogni vincolo d’amore, amicizia e riconoscenza per conquistare l’unica verità che conti: «Era come una scheggia di pietra, ma dov’era la montagna dalla quale si era staccata?». Anche in questo terzo e ultimo volume la vastità di respiro e la potenza visionaria di cui Peake si mostra capace lasciano ammirati, dando ragione di ciò che asseriva C.S. Lewis: «I libri di Peake sono vere e proprie aggiunte alla vita; come certi sogni rari, ci offrono sensazioni che non abbiamo mai sperimentato, ampliando in noi la gamma delle esperienze possibili».

W.G. Sebald, Secondo natura.

Il risvolto di copertina:

Piogge di fuoco divorante, mari tempestosi, ghiacci e rocce di un mondo vuoto di uomini, luci radianti, deserti combusti: con somma potenza di immagini, con il ritmo che il verso libero imprime a un linguaggio avvolgente, e in un costante intreccio di saperi (arte, scienze naturali, letteratura), Sebald ci offre nel poemetto Secondo natura – opera prima – un trittico che già contiene in nuce i caratteri della sua futura narrativa. I passeggiatori e gli emigrati dei romanzi e dei racconti sono già tutti qui prefigurati: la tragica vita del pittore Grünewald e di un suo misterioso doppio nella terrificante descrizione di opere come la pala d’altare di Isenheim; il viaggio dell’esploratore e medico settecentesco G.W. Steller alla scoperta, con Vitus Bering, dello stretto marino fra i ghiacci della Siberia e dell’Alaska; un’autobiografia, dalla nascita sotto le bombe, in un mattino di primavera, alle peripezie della famiglia e ai vagabondaggi europei, così simili a quelli di Jacques Austerlitz. Secondo natura è il primo dei tanti viaggi che Sebald ha intrapreso nei territori di una Natura colta con sguardo snebbiato, nelle sue incessanti metamorfosi. Un viaggio illuminato da una possente visionarietà.

Piccola Biblioteca Adelphi: http://www.adelphi.it/catalogo/cerca/reply/advanced/YTo3OntzOjQ6InR5cGUiO3M6ODoiYWR2YW5jZWQiO3M6MTQ6InRoZW1lc19jb2xsZWN0IjtzOjA6IiI7czo3OiJPcmRlckJ5IjtzOjU6InNjb3JlIjtzOjE6InEiO3M6MDoiIjtzOjU6ImZpZWxkIjtzOjU6IlNtYXJ0IjtzOjU6InNlcmllIjtzOjE6IjUiO3M6NDoieWVhciI7czowOiIiO30=/p1

Giorgio Colli, La nascita della filosofia.

Il risvolto di copertina:

Quello che si incontra comunemente, negli studi odierni sulla filosofia greca, è il tentativo di restituire contenuti remotissimi da noi con gli strumenti più moderni, condizionati dalle formule e dai metodi odierni della ricerca storica, in breve con il linguaggio filologico. Qui invece Giorgio Colli prova a far riemergere il periodo culminante della Grecia – il settimo, il sesto, il quinto secolo a.C. –, il più lontano da noi e dalla nostra comprensione, senza suggerire approcci specialistici. L’accessibilità del suo modo di esporre è raggiunta mediante un’inversione di prospettiva: non sono gli occhi del presente a guardare quei secoli, rimpiccioliti dalla grande distanza, e neppure gli occhi del quarto secolo a.C., di Aristotele, ma al contrario si tenta di evocare uno sguardo «alle spalle» di quei secoli, uno sguardo gettato dagli dèi omerici e pre-omerici. In questo spingersi all’indietro, verso un’antichità dal profilo incerto, l’origine della filosofia greca, questo evento misterioso, non è ricacciata in un passato più lontano, ma viene riportata al contrario a un’epoca assai posteriore, è un prodotto mediato che si lega al nome di Platone. Prima c’è l’età dei sapienti. Quando nasce la filosofia, la parabola dell’eccellenza greca ha già iniziato il suo declino. E questa crisi decisiva è anteriore anche a Euripide e a Socrate, è una frattura, un indebolimento che sono interni al mondo dei sapienti, che solo attraverso questo si decifrano.

Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco.

Il risvolto di copertina:

Questo piccolo libro, da anni molto letto e molto amato in tutto il mondo, è forse il più illuminante, il più lucido e utile resoconto, scritto da un occidentale, di come un occidentale possa avvicinarsi allo Zen. Un professore tedesco di filosofia, Eugen Herrigel, vuole essere introdotto allo Zen e gli viene consigliato di imparare una delle arti in cui lo Zen da secoli si applica: il tiro con l’arco. Comincia così un emozionante tirocinio, nel corso del quale Herrigel si troverà felicemente costretto a capovolgere le sue idee – e soprattutto il suo modo di vivere. All’inizio con grande pena e sconcerto: dovrà infatti riconoscere prima di tutto che i suoi gesti sono sbagliati, poi che sono sbagliate le sue intenzioni, infine che proprio le cose su cui fa affidamento sono i più grandi ostacoli: la volontà, la chiara distinzione fra mezzo e fine, il desiderio di riuscire. Ma il tocco sapiente del Maestro aiuterà Herrigel a scrollarsi tutto di dosso, a restare vuoto per accogliere, quasi senza accorgersene, l’unico gesto giusto, che fa centro – quello di cui gli arcieri Zen dicono: «Un colpo – una vita». In un tale colpo, arco, freccia, bersaglio e Io si intrecciano in modo che non è possibile separarli: la freccia scoccata mette in gioco tutta la vita dell’arciere e il bersaglio da colpire è l’arciere stesso.

Hermann Hesse, Siddharta.

Il risvolto di copertina:

Chi è Siddharta? È uno che cerca, e cerca soprattutto di vivere intera la propria vita. Passa di esperienza in esperienza, dal misticismo alla sensualità, dalla meditazione filosofica alla vita degli affari, e non si ferma presso nessun maestro, non considera definitiva nessuna acquisizione, perché ciò che va cercato è il tutto, il misterioso tutto che si veste di mille volti cangianti. E alla fine quel tutto, la ruota delle apparenze, rifluirà dietro il perfetto sorriso di Siddharta, che ripete il «costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l’aveva visto centinaia di volte con venerazione». Siddharta è senz’altro l’opera di Hesse più universalmente nota. Questo breve romanzo di ambiente indiano, pubblicato per la prima volta nel 1922, ha avuto infatti in questi ultimi anni una strepitosa fortuna. Prima in America, poi in ogni parte del mondo, i giovani lo hanno riscoperto come un loro testo, dove non trovavano solo un grande scrittore moderno ma un sottile e delicato saggio, capace di dare, attraverso questa parabola romanzesca, un insegnamento sulla vita che evidentemente i suoi lettori non incontravano altrove.

Milan Kundera, L’arte del romanzo.

Il risvolto di copertina:

In sette testi relativamente indipendenti ma collegati come altrettante tappe di un singolo saggio, Kundera ci parla di quella creatura singolare, imprevedibile, grandiosa e delicata che è il romanzo europeo («arte nata come eco della risata di Dio»). Il suo discorso scavalca con sicurezza ogni pretesa di rigido inquadramento teorico e si dedica invece a un’analisi amorosa di ciò che il romanzo, creatura polimorfa, diventa nelle mani di scrittori così diversi come Kafka e Cervantes, Broch e Tolstoj, Gombrowicz e Flaubert, Diderot e Musil, Rabelais e Sterne – e infine Kundera: perché qui si troveranno i due testi dove Kundera ha detto l’essenziale per chi vuole accedere al segreto dei suoi romanzi. Anche come saggista, Kundera ha il dono stupefacente della trasparenza: le questioni più intricate appaiono nelle sue parole con una nettezza e un’evidenza tali da farci pensare che le stiamo vedendo per la prima volta. E l’aspetto di confessione, da parte di Kundera, sull’arte che oggi egli conosce più di ogni altro, dà a questo libro una pulsazione ulteriore, per noi preziosa: «Devo sottolineare che non ho la minima ambizione di fare della teoria e che tutto il libro non è altro che la confessione di uno che fa della pratica? L’opera di ogni romanziere contiene implicitamente una visione della storia del romanzo, un’idea di cos’è il romanzo; ed è proprio quest’idea, insita nei miei romanzi, che ho cercato di far parlare». L’arte del romanzo è apparso nel 1986.

Leonardo Sciascia, L’affaire Moro.

Il risvolto di copertina:

Scritto a caldo nel 1978, questo libro non ha che guadagnato con gli anni. Mentre, in una nobile gara di codardia, i politici italiani, nonché i giornalisti, si affannavano a dichiarare che le lettere di Moro dalla prigionia erano opera di un pazzo o comunque prive di valore perché risultanti da una costrizione, Sciascia si azzardò a leggerle, con l’acume e lo scrupolo che sempre aveva verso qualsiasi documento. Riuscì in tal modo, sulla base di quelle lettere, a ricostruire una intelaiatura di pensieri, di correlazioni, di fatti che sono, fino a oggi, ciò che più ci ha permesso di capire, o di avvicinarci a capire, un episodio orribile della nostra storia. Presentando il libro nella sua ultima edizione (1983), Sciascia scriveva opportunamente «questo libro potrebbe anche esser letto come “opera letteraria”. Ma l’autore – come membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla “affaire” – ha continuato a viverlo come “opera di verità” e perciò lo si ripubblica (non più col rischio delle polemiche, ma del silenzio) con l’aggiunta della relazione di minoranza (di assoluta minoranza) presentata in Commissione e al Parlamento. Una relazione che l’autore ha voluto al possibile stringare, nella speranza abbia la sorte di esser largamente letta: qual di solito non hanno le voluminosissime relazioni che vengono fuori dalle inchieste parlamentari».

Robert Walser, Ritratti di pittori.

Il risvolto di copertina:

Attratto per un’intera vita dal teatro, Walser nutrì una passione non meno incoercibile per le arti figurative, anche in virtù dell’influsso esercitato dal fratello Karl, artista di rara finezza. Ma i quadri davanti ai quali si sofferma in queste pagine sono spesso un pretesto: per parlare di sé e dei ricordi di gioventù, per costruire catene di associazioni – ispirate, magari, da una mostra di antichi maestri. Certi dipinti (la Venere di Tiziano, l’Icaro di Brueghel il Vecchio, il Ritorno del figliol prodigo di Rembrandt) gli suggeriscono un dialogo scenico o un sonetto, altri (un autoritratto, un nudo, un soggetto sacro) suscitano improvvise illuminazioni che si condensano in poche righe fulminanti. Può anche capitare che un Fragonard riveli d’improvviso inaspettati legami con le Confessioni di Rousseau, o che le figure di un quadro narrino storie irresistibili. Ironia, poesia, grazia visionaria ci introducono in mondi paralleli, dischiusi all’occhio del poeta (e al nostro) da un semplice colore o da un dettaglio all’apparenza secondario. Con le sue ecfrasi divaganti, tra un affondo estetico e un impeto affabulatorio, un’apostrofe all’Olympia di Manet e un’interrogazione (mai retorica) sull’uomo e il suo destino, Walser sa offrirci anche profonde riflessioni sull’essenza dell’arte, nel costante invito a guardare oltre l’immagine: giacché “orbi in certa misura lo siamo tutti, tutti, benché dotati di occhi per vedere».

Sconti anche per due collane prestigiosa di Mondadori, i Meridiani e Fondazione Valla. Lo sconto del 25% sarà in vigore fino al 30 novembre.

Qui http://www.ibs.it/ser/serpge.asp?type=keyword&p=ua1267&dh=50&seq=aut&ros=si&rem=n potete trovare un elenco dei 370 Meridiani. Gli autori in catalogo sono principalmente classici, ma non mancano scrittori contemporanei come Andrea Camilleri o José Saramago.

Io segnalo il volume di Roberto Longhi Da Cimabue a Morandi e volumi antologici come Alchimia. I testi della tradizione occidentale, Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda e Racconti di orchi, di fate e di streghe. La fiaba letteraria in Italia.

Questo http://www.ibs.it/ser/serpge.asp?type=keyword&p=ua1287&dh=50&seq=aut&rem=n&ros=si è l’elenco dei 117 titoli della Fondazione Valla, una collana dedicata ai classici greci e latini.



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