Scritti da Voi (N° 44): Gianluca - Collateral, guida ad un probabile capolavoro

Creato il 11 luglio 2015 da Giuseppe Armellini
Torna Gianluca con un altro dei suoi pezzoni "monstre". Con l'ultimo, questo, è successa una cosa molto particolare visto che è stato condiviso dallo stesso J-Ax nella sua bacheca portando a più di 5000 letture in pochissime ore.
Per la prima volta Gianluca affronta la rece di un film. Ma l'approccio, professionale ai confini del parossismo, è lo stesso delle altre volte.
Buona lettura!
Los Angeles. In una notte iniziata come le altre, un killer a contratto, Vincent, sequestra un tranquillo tassista, Max: lo costringerà a farsi accompagnare a compiere cinque omicidi. Riuscirà Max a fuggire da Vincent?Se volete far capire a qualcuno il concetto di depotenziamento, senza spiegarglielo ma direttamente facendoglielo provare, prendete certi film e riduceteli alla trama: gli arriverà un decimo (se va bene) di ciò che, in realtà, quelle opere sono. Così è “Collateral”: un film che sotto le vesti di un action-thriller adrenalinico, il genere che meglio prende il grande pubblico, si presenta stratificato come pochi. Sono trappole, pellicole come queste: capaci di divulgare messaggi profondi, concetti a volte anche ostici, diluendo certa pesantezza dell’erudizione in una struttura accattivante. Trappole, insomma, che alla fine ringrazi. Come lo zucchero sul bicchiere della medicina. O come i gialli letterari.Trappole, ancora, che non a caso annoverano successi di critica e pubblico: tra gli altri, i Simpson o il Batman di Nolan. Di quest’ultimo se ne sta parlando sempre più spesso (ad esempio lo si fece qui ), e sembra che su un punto si possa essere d’accordo: è riuscito a spogliare l’uomo-pipistrello dall’aura di mero intrattenimento degli ultimi adattamenti e a restituirgli la complessità originaria. Il cartone americano più famoso al mondo, poi, i Simpson, ha le gag televisive che piacciono a tutti, le allusioni parodistiche in cui si crogiolano intellettuali e adulti, e le trovate grossolane che fanno impazzire i più piccoli. Una comicità a strati, appunto.Il primo personaggio di ‘Collateral’ che approfondiamo è Max, un tassista. Non uno qualunque, di quelli che iniziano la giornata con l’unico scopo di finirla, no: Max è uno che nella sua cabina gialla si sente praticamente a casa. Bellissima la sequenza iniziale, nella rimessa dei taxi, che ci introduce a questa caratterizzazione: c’è caos, televisione accesa, tassisti che litigano, insomma il solito rumore di fondo della vita lavorativa; Max entra nel suo taxi e la chiusura dello sportello coincide col silenzio ovattato dell’interno dell’auto; anche la musica di sottofondo si abbassa di volume, fino quasi a sparire: è nel suo mondo ora, e tutto il resto pesa molto meno. Scopriremo poi che, in realtà, per Max quello del tassista è un lavoro temporaneo: “Questo è un ripiego, ci pago le bollette, sarò il migliore nel lavoro che farò: sto mettendo su una compagnia di limousine, sarà come un’isola su ruote, un’atmosfera giusta, tipo un’esperienza da locale: quando arriverà all’aeroporto non vorrà più scendere dalla mia limo. Faccio questo lavoro solo per pagare le rate alla Mercedes, trovare il personale, farmi una lista di clienti giusti. Dev’essere perfetta, perfetta”.Dodici anni però, da tanto Max fa il tassista, sono onestamente troppi per un lavoro temporaneo; e su questo punto si apriranno le prime crepe per un personaggio che ci sarà sembrato, fino a quel momento, inattaccabile. Crepe in cui s’infiltrerà, agile e complementare come l’acqua, l’antagonista Vincent. Ma a parte quest’elemento di disturbo, e prima di permettere al killer di entrare nel taxi (e nel mondo) di Max, noi capiamo che lui è il tipo di tassista che vorremmo avere la fortuna di incontrare sempre. Quello che “si mette a discutere col cliente per farlo risparmiare”, che “ha il taxi più pulito che abbia mai preso”, o quello che “con la sua corsa mi ha appena regalato una vacanza sulla Harbor Freeway”. Roba che quando, al tg, sentii un tassista assassinato essere ricordato così – “Quando entravano nel suo taxi, si innamoravano tutti di lui” – mi venne spontaneo immaginarmelo con le fattezze di Jamie Foxx; con i suoi occhialini, la sua attaccatura geometrica dei capelli, o col suo modo, rassicurante, di balbettare. E una cliente, Annie, si innamora davvero di lui, di Max, e gli lascia il suo bigliettino da avvocato: “…non lo so: nel caso un giorno volesse indagare su una società tra le cinquecento nominate da Forge…o discutere sul percorso del taxi”. Un gesto delicato, nel suo ‘non detto’, e che le tornerà utile più in là nel film.E così, tra canzoni d’atmosfera (“Hands of time” dei Groove Armada è uno dei pezzi di genere più belli che abbia sentito negli ultimi anni) e morbide riprese aeree in notturna, la prima parte della caratterizzazione di Max, quella positiva, si chiude.Poi in macchina entra Vincent: l’uomo che ammaccherà, fino a distruggerglielo letteralmente, il taxi di Max; e con esso, simbolicamente, il suo mondo, il suo approccio alle cose, la sua staticità.Vincent deve uccidere cinque persone in poche ore e usa Max come autista in affitto. Anzi, in sequestro: perché se l’idea iniziale era che il tassista rimanesse all’oscuro della cruenta missione del suo cliente, una sfortunata coincidenza ha fatto sì che la scoprisse. E ora Max non può più sottrarsi.Inizia così uno dei picchi di profondità psicologica del film: la collisione e la reciproca influenza – in uno spazio minimo, quello di un’auto – tra due persone agli antipodi.Il primo abbiamo imparato a conoscerlo. Per il secondo, Vincent, bastano poche battute per inquadrarne il freddo distacco:
Questo è Vincent: più che un uomo, una macchina. Quasi metallico, come i suoi capelli brizzolati.Ma c’è un intoppo.Le crepe che, attraverso i dialoghi col suo sequestratore, si aprono in Max, sembrano pian piano estendersi al sequestratore stesso. E come la speranzosa potenzialità del tassista inizia a cedere il passo a tutta la sua frustrazione per un progetto – quello della limousine – che pare non realizzarsi, così il distacco del killer sembra malcelare un disperato bisogno di cambiamento.Bisogno che però non si trasforma in atto, Vincent cioè non cambia, nella bellissima sequenza al jazz club. Luci soffuse, musica incalzante ma ricercata, insomma tipica esperienza da locale raffinato. Il killer finge di intrattenere un dialogo disinteressato col proprietario del locale: poi scopriamo, e Max con noi, che quello in realtà è il terzo uomo da eliminare. Il punto è che durante il dialogo sul jazz, su Miles Davis, iniziato così, per puro cazzeggio, succede qualcosa: chiamatelo fattore umano, chiamatela potenza della vita sorda a ogni previsione, quello che vi pare, fatto sta che a Vincent la sua futura vittima pare stare simpatica. Si è creato qualcosa intorno a quel tavolo. E infatti, quando il proprietario del locale intuisce chi ha di fronte e gli chiede: “Tu conosci le persone che mi vogliono morto?”, Vincent gli risponde: “Purtroppo sì”.Purtroppo sì.Qualcosa è scattato.La crepa si è aperta anche in Vincent.Non conosceva neanche lui, il tipo del jazz club intendo, esattamente come le prime due vittime, esattamente come nelle ciniche battute scambiate con Max, eppure…eppure quel ‘grassone qualunque’, lì di fronte a lui, gli sta simpatico.Max fa un tentativo, dice a Vincent che ora tocca a lui improvvisare – ‘Ti sta simpatico, ti piace come suona, lascialo in pace questo poveretto’ – ma ovviamente non ha presa. O sembra non averla. Perché poi, in realtà, il killer fa un gesto inaspettato nella sua umanità, nel suo concedere una chance: “Mettiamola così – gli propone – io ti faccio una domanda sul jazz, se la risposta è giusta ce ne andiamo, e tu sparisci, stanotte”. La risposta è sbagliata e Vincent spara. L’attimo dopo, però, mentre ancora stringe la mano calda della sua vittima, cambia sguardo.Poi lo abbassa, rassegnato.Quello sguardo è il ‘purtroppo sì’ di prima.Quegli occhi bassi sono un’altra crepa. 
Che cazzo ho fatto?Chi sono diventato?Darwin, I-chin, adattarsi all’ambiente: tutte stronzate, io qui non ho improvvisato un cazzo, sono come Max, statico, intrappolato nel mio ruolo, proprio come lui’, sembra dirsi, in un attimo, con quegli occhi bassi.Se avesse risposto correttamente lo avresti lasciato andare?”, gli chiede rassegnato Max.
E lui niente, nessuna risposta.Solo un altro sguardo emblematico.Cioè un’altra crepa.
Prima del quarto omicidio, Max riesce a distruggere i file contenenti i nomi delle ultime due vittime. Vincent dice che deve rimediare: deve andare dai suoi mandanti e farsi ridare i nomi. Manda lui per proteggere la propria identità anonima di killer professionista.Max, naturalmente, è gettato in un mondo non suo.I messicani armati all’ingresso, ad esempio, non sono un buon segno.Lui comunque entra e inizia a parlare col boss. Meglio, inizia a balbettare. Quest’uomo in felpa e occhialini, che continua a ripetere a testa bassa ‘Mi dispiace di aver perso la lista’, non è esattamente l’incarnazione classica di un killer.Ma Max deve uscire da lì coi nomi, o Vincent ucciderà sua madre. Gliel’ha giurato.E così improvvisa.Ora tocca davvero a lui.Si toglie gli occhiali, guarda in faccia il boss e con voce sicura gli racconta una scusa credibile del perché ha perso la lista. E alla fine cita pure le parole di Vincent (quello vero): “Cose che capitano, bisogna seguire il flusso, Darwin, I-chin…adattarsi”. Come sta facendo lui. Come dire: trasformazione in corso. Se Vincent, il freddo Vincent, ha visto nascere in sé, o piuttosto risvegliarsi, il lato umano grazie all’influenza gentile di Max, quest’ultimo si è lasciato lambire dalla determinazione, dalla spregiudicatezza del primo.Un influsso, una crisi, un’attrazione, un respingimento, un beneficio, insomma qualunque cosa, ma sempre reciproca.Max e Vincent, Vincent e Max.Max è Vincent, Vincent è Max.E’ come se ciascun personaggio dialoghi, nello spazio claustrofobico di una macchina, col proprio demone. Non nemico, proprio demone: perché un nemico puoi detestarlo per un po’ e poi permetterti di ignorarlo, di dimenticarlo; un demone no: lo odi, ma in maniera imprescindibile, in un modo che non si lascia dimenticare. Perché forse, in fondo, c’è qualcosa di te in lui. E vuole uscire.E se per Max tutto questo è difficile da accettare, lo è ancora di più per Vincent: perché il suo demone non è un boss armato, o un uomo di potere, o almeno uno ‘cool’, no: quello che gli fa da specchio, mostrandogli un lato di sé che disperato cerca di farsi sentire, ha i modi pacati di un uomo qualunque, non gli ha mai puntato la pistola contro, porta gli occhiali e addirittura balbetta. E ba-ba-balbettando balbettando, lo ha disarmato. 
E ora tocca a Vincent dirgliene due.   - V.: “E’ rosso!   - e Max se ne frega, accelera. Per la prima volta dall’inizio del      film Vincent sembra avere paura – E fa catapultare il taxi, con loro due dentro.E con loro i loro mondi.In una sola notte, tutto distrutto: il taxi, Max, Vincent.La sequenza più in crescendo, adrenalinica ed eloquente di tutto il film.La domanda che viene posta qui, ‘Perché non mi hai ancora ucciso?’ – spiega il regista Michael Mann – si riferisce al momento in cui Max distrugge la lista delle vittime. Perché in base a ciò che sappiamo di Vincent, è esattamente ciò che sarebbe dovuto accadere. E cominciamo a domandarci: cosa cerca Vincent da Max? Perché, mano a mano che instaurano un rapporto, cominciano a parlare di cose familiari, e poi dal familiare passano all’intimo? Che cosa sta succedendo? Ed è qualcosa che speravo, e che mi auguro il pubblico avverta impercettibilmente, quasi a livello inconscio. Preferirei che non si rendessero conto che questa domanda viene posta, ma che produca uno stato di apertura al chiedersi cosa succederà a questi due uomini. Perché il dubbio su cosa dovrà succedere, non è se Max vivrà o morirà, se Vincent vivrà o morirà. Ma più tipo: “Che tipo di rapporto c’è?’”.Ed è proprio ciò che, sinceramente, ho provato io: ad un certo punto della visione, mi sono reso conto che non mi interessava più sapere che fine avrebbero fatto ‘fisicamente’ i protagonisti, se cioè sarebbero sopravvissuti o no; piuttosto mi stimolava la loro evoluzione psicologica. Ecco perché, all’inizio, ho parlato di film stratificato: fa finta di porsi come pellicola molto dinamica, atletica, come Tom Cruise, per poi diffondersi sulla complessità del comportamento umano. Tra l’altro, Vincent non solo non l’uccide, Max: addirittura gli salva la vita, sparando ad uno che, per una sottotrama, stava per sparagli.Segue uno scambio di sguardi tra i due molto intenso.Nel pieno di una sparatoria della madonna, loro ‘perdono tempo’ a parlarsi con gli occhi.E questo mi dà lo spunto per accennare ad una questione a cui tengo particolarmente: quella del realismo. Come la vita non è un film, così un film non è la realtà; e non si dovrebbe pretendere, come fanno spesso in molti, che tutto ciò che accade sullo schermo di un cinema debba essere perfettamente realistico. Ci dovrebbe essere una sorta di patto tra spettatore e opera: un patto che preveda una certa dose di sospensione d’incredulità e la consapevolezza che, di solito, un film non vuole riprodurre mimeticamente la realtà (a quello ci pensano giornali e documentari), ma piegarla al proprio messaggio, magari forzandone anche un po’ la verosimiglianza. Quando lo scrittore Roland Barthes, in una lettera a Perec, scrive: “…la questione nasce da un trattamento riuscito di quei famosi oggetti a cui lei restituisce un sapore mitico”, che cosa vuol dire? Intende che ha saputo sfruttare il mondo materiale per parlare di qualcos’altro, il tangibile e il visibile per l’invisibile.Insomma, quando in un film fanno vedere che uno non tocca cibo per mesi perché sta male psicologicamente, non significa che, nella realtà, deve per forza comportarsi così: è un’iperbole, un’esagerazione, una caratterizzazione immediata, funzionale al racconto. Come lo sguardo che Vincent rivolge a Max, e che lui ricambia. Due crepe che s’intrecciano. E chi se frega se, nella realtà, sarebbero stati colpiti.Anche perché, nella vita reale, mi capita spesso, dopo aver sentito un fatto, di esclamare: “Che storia incredibile!”. Incredibile: cioè assurda, irreale, praticamente da film. Pretese di realismo nonostante.Come dire: quando la realtà supera la fantasia. Sui due attori principali poco da aggiungere: penso che i dialoghi riportati restituiscano, in parte, la complessità del lavoro svolto. Il resto lo fanno la loro fisicità, i loro tempi attoriali, la loro naturalezza. E se per il premio Oscar (per “Ray”) Jamie Foxx, che interpreta Max, non c’è bisogno di spiegazioni, per Tom Cruise, invece, è sempre d’obbligo una specificazione. L’attore che qui dà carne e ossa (e capelli brizzolati e uno sguardo che non si dimentica) a Vincent, infatti, appartiene a quel curioso gruppo di attori troppo belli, troppo famosi, troppo ricchi – insomma, troppo tutto – che, nonostante la loro bravura, non solo non hanno mai vinto un Oscar (e fin qui, poco male), ma che addirittura a ogni interpretazione devono dimostrare, più degli altri, di essere davvero all’altezza. E’ come se la sovraesposizione mediatica creasse aspettative molto superiori alla singola prova attoriale; e loro sembrano costretti prima a scrollarsi di dosso tutto ciò che orbita intorno ai propri miti, e solo dopo a essere valutati per l’interpretazione specifica. Anch’io, in tutta sincerità, trovo qualcosa di ineluttabilmente sbagliato nell’attenzione maniacale riservata alle celebrità dello star sistem; ma insomma, a parte questo, avere ancora dubbi su attori come Di Caprio o Jhonny Depp, o appunto Cruise, mi sembra da snob della peggior specie.Il tempismo ironico di Tom – spiega il regista – credo sia sottile e fantastico. E analizzando il modo in cui raggiunge l’ironia, si vede che Vincent si comporta come se non fosse conscio di qualcosa che per Max è evidente. Sono un estimatore di Billy Wilder, che usava molto l’ironia, una sorta di spirito berlinese di Weimar. Ho trascorso molto tempo a studiare il lavoro di Cary Grant in “Front Page”, come preparazione per l’uso di Vincent dell’ironia, la sua strana arguzia e il suo nichilismo facile. Ed è una specie di omaggio a Billy Wilder”.Non ci sono controfigure – garantisce il coordinatore degli stunt, Joel Kramer – tutto quello che appare nel film lo ha fatto davvero Tom Cruise. E ovviamente le scene non sono montate. Abbiamo provato ogni mattina per gli ultimi tre mesi. Abbiamo lavorato assieme ogni giorno per settimane e lui non mancava mai. Si allenava per un’ora, prima di iniziare, si riscaldava e faceva stretching. Ed era molto rigoroso: ‘Se faccio qualcosa di sbagliato, dimmelo’. Se ad esempio la sua gamba era un po’ fuori sincronia mentre elaboravamo una scena di combattimento, voleva saperlo. ‘E’ tutto perfetto per l’addestramento fisico funzionale al personaggio?’”.Poche storie, sul set Tom Cruise è un capo.

Oltre ai due secondari, Jada Pinkett Smith e Mark Ruffalo, c’è un altro personaggio che non si lascia dimenticare: è un attore-feticcio per Michael Mann, come De Niro per Scorsese, o Washington per Scott, o Servillo per Sorrentino: è la notte.Presente praticamente in tutti i suoi titoli, da “Miami Vice” al cult “Heat – la sfida”, in ‘Collateral’ la notte, una sola notte, è l’unica ambientazione temporale. Iniziata e conclusasi nel giro di dieci ore, infatti - dal tramonto all’alba, tipo Rodriguez – la vicenda restituisce tempi serrati e un’assoluta compressione nel presente. Niente flashback o salti temporali di alcun tipo. L’unica dietrologia è quella che i protagonisti fanno nei loro discorsi man mano più intimi. E che appunto sembrano innescati, anche, dalla notte: “…persone più tranquille, meno traffico e mance più alte”, dice Max; un momento in cui i tempi sono rallentati e distesi, l’iridescenza delle luci dona qualcosa di magico, di poetico all’atmosfera e c’è una certa percezione, inspiegabile eppure nitida - come in certe serate estive - che ogni cosa sia possibile. Ecco, se Max e Vincent dovevano cambiare, completarsi, non potevano che farlo di notte; magari accumulare segnali di cedimento, d’insofferenza verso se stessi, di abitudini ormai insufficienti, di giorno, nel caos della vita, nella sua velocità, ma razionalizzarli di notte, nel suo silenzio, nella sua lentezza e spietatezza, nella sua verità.Forse di quell’uomo morto in metropolitana, Vincent, in quella città ‘disconnessa’ da 17 milioni di abitanti che è Los Angeles, non se ne accorgerà nessuno. Ma della sua evoluzione, del suo essere diventato meno macchina e più uomo, meno taxi e più ‘limo’, credo, ce ne ricorderemo in tanti.

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