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Scritti da voi (N°32): Gianluca - Io so' io...e voi non siete un cazzo. O la spiacevole saccenza della cinefilia

Creato il 23 marzo 2015 da Giuseppe Armellini

Scritti da voi (N°32): Gianluca - Io so' io...e voi non siete un cazzo. O la spiacevole saccenza della cinefilia

Tre mesi fa parlavo al telefono con un amico, grande cinefilo, di quelli veri. (tra l'altro è quello che avevo già nominato nel post sulla (non) morte del cinema, Frank). Mi ricordo che durante la telefonata gli dissi che lo stimavo per il modo elegante, modesto e accessibile con cui parla delle sue piccole perle introvabili. A un certo punto mi scappò: "sai Frank, quello che mi piace di te è che hai l'umiltà della conoscenza in un mondo che conosce solo l'arroganza della conoscenza".

Pochi giorni fa mi arriva questo pezzo di Gianluca (trovate le cose che ha scritto, insieme a quelle di tanti altri, in Scritti da voi) e più lo leggo e più penso che in realtà il buon terrone barese mi sia venuto in sogno a rubare tutte le cose che penso da anni. Meno male l'ha scritte lui, lo ha fatto meglio di come avrei fatto io e mi evita pure una fatica futura che prima o poi dovevo affrontare.

Da leggere fino in fondo, con pazienza.

E, tornando a sopra, forse sto post si sarebbe proprio potuto intitolare "L'umiltà della conoscenza e l'arroganza della conoscenza".

Ma in senso più lato lo voglio chiamare "l'arroganza dell'umiltà", che non c'è niente di più difficile che urlare al mondo quanto si è piccoli.


"I film si dividono in due sole categorie: i capolavori assoluti e le cagate pazzesche.No, non come "La corazzata Potëmkin" secondo Fantozzi: che quella, invece, è la punta di diamante del cinema d'avanguardia russo. Voglio dire: Ėjzenštejn, cinema muto, montaggio delle attrazioni. Una bomba. Mica come quel cretino di Fantozzi...coso lì, come si chiama...Paolo Villaggio. Che, sì, ha fatto qualche filmetto carino all'inizio - la scena del 'chi ha fatto palo?' è anche simpatica - ma poi si è venduto al solito sistema italiota.
E poco importa che nel suo film nomini "La corazzata Kotiomkin", storpiandone il titolo: uno come me non lo frega, io l'ho colto subito il riferimento. E controbatto che "La corazzata Potëmkin" è un capolavoro assoluto, mica cazzi. Non a caso la scena cult della scalinata di Odessa è stata ripresa da quel fottuto genio di Brian De Palma nel suo "Gli intoccabili"...come: non ve n'eravate accorti? Dai è così evidente...vabbè, che ne sapete voi di Ėjzenštejn. Comunque dicevo: esistono solo queste due categorie, e non ci credete a chi cerca di differenziare gradualmente, a chi millanta di apprezzare le sfumature, o magari 'dettagli notevoli in film mediocri' (ho sentito teorizzare anche 'sta stronzata): non ci capisce un cazzo di cinema. L'altra sera stavo parlando con uno, non so manco chi fosse, un amico di un amico mi sa, e insomma questo mi attacca un pippone sul fatto che lui riesce a trovare un motivo di bellezza praticamente in tutti i film; e che questa teoria l'ha ritrovata anche in un critico cinematografico, e quindi si è sentito "più legittimato" (cioè questo capace che ha solo il coraggio delle opinioni altrui, tipo di giovani di Ennio Flaiano)...insomma mi fa tutta 'sta premessa e poi che mi nomina? "Cose nostre - Malavita", un'ininfluente commediola noir di un paio di anni fa, che io a malapena avevo sentito nominare, che ovviamente non ho visto (ci mancherebbe), ma che ha tutti i numeri per essere quanto di più demagogico nella produzione cinematografica: è americano, cioè mainstream; è appunto una commedia, ma con punte d'azione (due tra i generi più ruffiani del cinema); ed ha per protagonista un attore ormai finito che continua a riciclarsi all'infinito: Robert De Niro. Per carità, l'amico Bob è un mostro sacro. Ma avrebbe fatto meglio a smettere di recitare una quindicina di anni fa.
E insomma, dicevo, questo qua - blaterando qualcosa a proposito del concetto di contesto - mi dice che l'ha colpito proprio il personaggio di De Niro: un ex-gangster che vale venti milioni di dollari e che ha deciso di scrivere un libro autobiografico; e mi dice 'na cosa tipo: "E' interessante il rapporto che lui - che rappresenta quanto di più lontano ci possa essere dalla logica rappresentativa della scrittura, che i boss sono uomini d'azione, la vivono la vita, non perdono tempo a raccontarla - instaura con la scrittura. 'La scrittura - dice il gangster - è un modo per sfogarmi, mi fa bene scrivere la verità, io devo sapere chi sono, e non attraverso gli occhi della mia vecchia vita o dei federali, ma attraverso i miei'. Cioè uno che non ci pensa due volte ad ammazzare un tipo, arriva poi ad ammettere che 'Scrivere ti esaurisce: mi sento come se mi fossi guardato allo specchio tutto il giorno'; oppure: 'Tutti moriremo, e devo dire che, sinceramente, morire per queste parole è sempre più nobile della morte a cui sono destinato'. Non lo so, magari mi sbaglio, ma mi è sembrato un bel riscatto sia per la vita interiore che per la scrittura, che non è mai legittimata abbastanza (nel mondo pratico, almeno). E lo scompiglio che crea in famiglia una novità del genere, dà origine a situazioni significativamente grottesche; del tipo, il figlio che chiede a sua sorella: 'Ti sei mai resa conto quante cose papà è capace di esprimere solo con la parola 'cazzo'? Voglio dire, è un bravo vecchiarello, sai che parla per essere capito, non per fare delle frasi; detto da lui 'cazzo' significa: 'Porca miseria, in che casino mi sono ficcato?', o 'Grandiosa la pasta!', o 'Me la pagherà.'...perciò perché, uno così, deve stare sveglio tutta la notte a scrivere quando potrebbe già esprimere l'intera gamma delle emozioni umane con una singola parola?'".
Ammetto che la battuta dello specchio è carina, ma niente più. In ogni caso, mai perderei due ore del mio prezioso tempo per vedermi 'na cosa così. Una battuta non fa un film. E questo non è cinema. E poi i film validi, gli imperdibili, si sanno, o comunque si riconoscono. Per il passato, vabbè, è facile: tutti quelli canonizzati, quelli diventati cult, quelli, insomma, di cui nelle discussioni colte non puoi non saper parlare. Cioè, per dire, sempre il tipo di prima, sempre l'altra sera, mentre io gli stavo parlando di Kubrick dando per scontato che ne avesse visto tutti i film (perché un cinefilo doc deve aver visto tutto Kubrick), mi fa: "No ma comunque io 'Shining' non l'ho ancora visto". Ma come? L'immenso 'Shining'? Un classico, un cult assoluto, quel fottuto genio di Jack Nicholson in stato di grazia, la scena del triciclo, la frase "All work and no play makes Jack a dull boy" battuta a macchina ossessivamente...ragazzi, questa è cultura generale, non cinema! Ma poi, dico io, almeno non lo ammettere che non l'hai mai visto: bluffa, magari non dire niente, resta sul vago, annuisci soltanto quando parlo io, ma non confessare (così candidamente poi, quasi non fosse una lacuna grave). Alla fine anche a me mancano alcuni classici, ma in pubblico non l'ho mai ammesso, né mai lo farò. Qui in confidenza posso dirvelo (che tanto nessuno sa chi sono): "C'era una volta in America", ad esempio, non sono ancora riuscito a vederlo; ma nei discorsi tra cinefili ci mancherebbe: io fingo eccome. Non posso mica fare la figura dello sprovveduto. Io non dialogo per ascoltare l'altro, io dialogo per ostentare me stesso. E quindi devo aver già visto tutto del passato. Tutto quello che conta, almeno. Cioè, per esempio, si sa che "Il padrino" è nettamente superiore, come sempre, ai sequel. E allora, io almeno quello devo averlo visto. Anche se non è così (seconda confessione). Però quando capita di parlarne con altri esperti, basta che ci piazzo lì un paio di furbe citazioni - "Ohh...la testa del cavallo nel letto: epica!"; "...e perché la solennità di Marlon Brando quando dice 'Gli farò un'offerta che non potrà rifiutare'? (e nel frattempo con l'anulare mi gratto il baffo) Guarda indimenticabile. Come le sue guance. Non so se sai che aveva delle protesi..." - e il gioco è fatto: nessuno si è mai accorto che in realtà fingo.
Per i film imperdibili del presente, invece, è un po' più difficile, perché non sono stati ancora canonizzati; però vabbè si riconoscono. Anche perché nella nostra cricca di cinefili, su internet, le voci girano e, insomma, lo senti a pelle quando un film deve essere visto. Ad esempio: se una pellicola non è americana, va vista. Non perché tutto il cinema americano sia imperiale, ma perché tutto il resto è élite, è di nicchia, è autoriale. Ed io non posso farmelo sfuggire. Quello snob di Sorrentino l'altro giorno ha detto una cosa tipo: "Secondo me si è abbastanza frantumata la barriera tra cinema d'autore e cinema d'intrattenimento: esistono ancora delle sacche di resistenza che vogliono fare o solo intrattenimento o solo cinema d'autore puro e rigoroso (che poi sono quelli che circuitano nei festival), ma l'ala forse più saggia e che ha un futuro è quella che ha cominciato a coniugare le due cose. Infatti alcune cose televisive vanno proprio in questa direzione, ma anche tantissimo cinema è diventato più popolare, cioè si pone problemi legati all'accessibilità"; ma io non ci credo. Le differenze esistono ancora e sono nette. Perdessero tempo gli altri coi supereroi o coi film d'animazione o con le serie 'di qualità': io mi guardo il cinema turco, o quello greco, oppure quello iraniano.
Quello francese no: troppo sdoganato.
Ah e del cinema giapponese ne vogliamo parlare? Cioè, ragazzi, il cinema giapponese è il futuro, ve lo dico io. Ed anche il passato, per la verità: quasi tutte quelle boiate americane che oggi hanno successo, sono state anticipate, ma parlo di decenni eh, dai giapponesi. Ed era roba seria la loro. "Per un pugno di dollari" di Sergio Leone, per dire, un cult dello spaghetti-western, è ispirato a "La sfida del samurai" del giapponese Akira Kurosawa. Davvero, lo sanno tutti nel nostro ambiente: i giapponesi sono dei fottuti geni. Altro che americani. Come mettere a confronto l'immenso Tarantino con, che so, Spike Lee. Cioè, 'sti cazzi, Quentin è una bomba, è un fottuto genio. Per dire, io i silenzi che mettono a disagio, tra due persone poco in confidenza, li ho notati prima nel dialogo tra Uma Thurman e John Travolta in "Pulp fiction"; e solo dopo ci ho fatto caso nella vita. Per me il mitico Quentin rimane l'ultimo autore capace di creare immagini indimenticabili (quegli schizzi di sangue sui fiori bianchi in Django Unchained...), di scandalizzare il pubblico, di essere sempre contro. E non controbattete con quel venduto di Nolan, che mi incazzo. Cioè, davvero, per me "Memento" era innanzitutto il titolo del suo capolavoro, e solo dopo la seconda persona singolare dell'imperativo futuro latino di 'ricordare'.
Per dire, lo adoravo.
Ma da Batman in poi lo considero un autore bruciato.
Che poi, in realtà, se mi chiedeste il perché di queste teorie, neanche vi saprei rispondere oggettivamente; quanto meno non con l'assolutezza con cui, mi rendo conto, vado professando certe tesi. Ma queste cose non c'è bisogno di argomentarle: noi cinefili le percepiamo e basta. E se non è lo stesso per voi, beh tanto peggio. Imparate ad osservarli i film, non solo a vederli.
Ah, ovviamente quando parlo del cinema straniero, parlo di guardarlo solo ed esclusivamente in lingua originale. Il doppiaggio è masturbazione. (Scommetto che non avete colto la citazione...) Io a quelli che elogiano i doppiatori italiani li prenderei a schiaffi, sempre con questa cazzo di casta Rossi in bocca. Poco importa che io non parli nessuna lingua straniera - vabbè l'inglese, sì, ma giusto quello delle superiori - e che quindi non è che proprio riesca ad apprezzare le varie sfumature (vi prego, non pensate a quel film di merda, non l'ho visto eh, ci mancherebbe, ma so già che fa schifo, che impera ora nelle sale; questa distribuzione italiota passa solo quello che piace alla massa di pecoroni ignoranti) delle lingue. E, a dirla tutta, che due coglioni quei sottotitoli da seguire per due ore intere, che nel frattempo mi perdo tanti di quei particolari delle scene...però vabbè, a parte 'ste cose, il film va visto in lingua.
L'audio originale è sempre nettamente superiore.
Io ormai i film doppiati non so più cosa siano.
Perché alla fine sono dei film reinterpretati, praticamente come i vari rifacimenti. Ed io, lo sanno benissimo i miei amici cinefili, li odio i rifacimenti. Ci sono opere che sono perfette, ma proprio perfette, immense, così come sono. E questi registi in crisi di creatività si permettono di tradirle con i loro insulsi tributi. Cioè, per dire, per me "La fabbrica di cioccolato" è solo quella del '74; che la sopravvalutata ditta Tim Burton - Johnny Depp ha anche un po' rotto il cazzo (ecco, qualcuno doveva dirglielo): belli i loro primi lavori, però poi si sono venduti anche loro. Johnny soprattutto: da essere il proverbiale ribelle di Hollywood è diventato mainstream, popolare per antonomasia. Ho letto che sarebbe dovuto comparire in "Birdman" (quello sì, un capolavoro) travestito da Jack Sparrow e, con il poster dei Pirati dei Caraibi 5 sullo sfondo, chiedersi allo specchio: "Come ci siamo ridotti così, amico?". Ecco, almeno avrebbe fatto ammenda del suo successo.
Ma anche per "Non aprite quella porta" io sono fermo al '74. Altro che '86, '90, '94 e anni 2000. Non ne ho visto neanche uno di rifacimento: ma proprio per principio.
Vabbè poi il remake shot-for-shot di "Psyco" (del maestro Hitchcock) di Gus Van Sant neanche lo considero. Cioè per me non è stato fatto proprio. Il colore al posto del black and white, Vince Vaughn al posto di Anthony Perkins, ma di che cazzo parliamo?
Beh, l'ultima perla che voglio buttarvi lì riguarda i cineforum. Oh, ragazzi, i cineforum devono essere coi controcazzi. E tre cose fanno i cineforum 'giusti'. 1) I film 'giusti': cioè tutti quelli che proiettano ai vari festival ma che non si caga mai nessuno. Più sono lunghi, lenti, silenziosi e sconosciuti, e più sono giusti. Ah dimenticavo: devono essere anche incomprensibili. Altrimenti accontentatevi dei filmetti che passa la solita distribuzione italiana. Anzi italiota. 2) La premessa 'giusta'; perché i film, almeno quelli giusti, vanno presentati, contestualizzati, addirittura spiegati, e solo dopo fatti vedere, lasciati godere. Diciamo che tra la libertà e la responsabilità dello spettatore verso l'opera, io sono decisamente a favore della seconda. 3) Il pubblico 'giusto'. Vale a dire la solita cricca di cinefili, che tra noi e noi ci si capisce al volo. Lasciate stare quelli che cicaleggiano che i cineforum devono essere operazioni-culturali-per-diffondere-il-cinema-di-qualità, che tanto è una causa persa. Io ci ho provato qualche anno fa ed è stato un tale fallimento da convincermi, senza possibilità di smentita, di una verità: che l'unica funzione di persone come voi, ignoranti e contente, è di far ridere di tragica superiorità persone come me.
Perché, insomma, l'avrete capito: io so' io, un cinefilo, e voi non siete un cazzo.

P.s.: dite la verità, non avete colto neanche quest'altra eh?..."

firmato: un cinefilo anonimo

Lo ammetto: per far parlare così quest'immaginario cinefilo, mi son dovuto turare il naso. Perché tutte quelle toccate da lui, sono in realtà questioni a cui tengo, particolarmente, io stesso. Ed allora i toni genericamente esagerati, l'espressionismo di certi termini, la saccenza e l'autoreferenzialità del discorso, e, soprattutto, l'atteggiamento di sufficienza verso un generico pubblico 'medio', sono tutti funzionali ad enfatizzare una mia idea fissa. Quella secondo cui, quanto di interessante, di educativo e di potenzialmente costruttivo c'è nei cosiddetti cinefili, venga praticamente neutralizzato - ed anzi reso odioso - dai loro modi. Che sono, appunto, sufficienti, autoreferenziali, didascalici e, in quanto assoluti, esagerati e ideologici. E quando parlo di cinefili non mi riferisco al senso 'neutrale' del termine, cioè gli appassionati di cinema; intendo piuttosto quelli che, ostentando un'etichetta, si crogiolano nell'appartenervi (e guai, guai, ad avere il coraggio, l'onestà intellettuale di liberarsene). E sono così offensivi, magari anche involontariamente, verso chi non capisce le loro posizioni da risultare insopportabilmente urticanti.
Per quanto riguarda la prima teoria - quella della divisione netta dei film in capolavori e cagate - credo di aver controbattuto, in breve, con l'esempio di "Cose nostre. Malavita", già nel discorso ipotetico. Sì, potrei essere io il tipo sconosciuto nominato dal cinefilo immaginario. Perché davvero riesco a trovare dei motivi di bellezza (fosse anche uno solo) in quasi tutti i film. Ed il fatto di aver ritrovato quest'idea - durante la diretta Sky dell'ultima premiazione degli Oscar - nel sempre interessante critico cinematografico Gianni Canova, non è stata che la piacevole conferma di una mia convinzione.
Servirebbe un articolo a parte per spiegare perché, in "The next three days", un film di pura azione, diciamo di intrattenimento, il personaggio di Olivia Wilde incarni, al limite dell'impeccabile, il concetto di turbamento. O perché in "Wanted - Scegli il tuo destino", un'americanata difficile da digerire anche per i meglio disposti, ci sia una caratterizzazione iniziale del protagonista (più un paio di battute nel mezzo) che è memorabile.
Lo so che questi singoli aspetti non fanno un'opera, ma quando sento depotenziati a 'cagate pazzeche' film con dettagli di qualità come questi, mi scatta qualcosa dentro. E' come quando qualcuno classifica un amico come 'coglione' e tu sai, in cuor tuo, che ha almeno un paio di lati autentici. Se ne stanno rintanati e per scovarli devi spostare un bel po' di veli, ma quando li trovi intuisci, anzi lo sai proprio, di trovarti davanti a perle incontaminate. Che quasi riscattano tutto il resto.
Strettamente collegata alla questione è il dibattito su quali siano i film, passati o presenti, meritevoli o meno di una visione. Quelli che il pubblico 'medio' dovrebbe o no andare a vedere. Un terreno scivoloso, questo, che io percorrerei appoggiandomi ad un appiglio: il problema non è guardare "Tutto molto bello" di Paolo Ruffini; il problema - se, come credo, ce n'è uno - è non guardare, è non riuscire ad apprezzare tutto il resto.
Io ho proprio riso di gusto con il secondo episodio di quella saga demenziale che è "Una notte da leoni"; e, sapete che c'è?, non per questo mi sono sentito parte attiva nel degrado socio-culturale in cui versa il nostro paese. Perché penso di avere una varietà di gusti che mi consente di passare dalla commedia più goliardica e no-sense al dramma più autoriale. Apprezzandoli, a seconda del momento e dell'intento, entrambi.
E questa versatilità di certo non me la sono ritrovata per caso. Più semplicemente, ho cercato di guadagnarmela educandomi. Anch'io se cinque anni fa, quando all'incirca questa passione per il cinema è nata, avessi visto "La grande bellezza" probabilmente avrei spento o comunque l'avrei sbolognato come incomprensibile. Perché allora non avevo, o credevo di non avere, gli strumenti per affrontarlo. Ed invece in questi anni, attraverso un paziente esercizio di visioni - spesso ripetute (ma a volte, comunque, incomprese) e gradualmente più complesse - penso di aver acquisito qualche mezzo in più non per farmi necessariamente piacere tutti i film realizzati, che educare il gusto non significa questo, ma per ampliare la mia capacità di lettura, di interpretazione, di apprezzamento (che non coincide per forza con un mio coinvolgimento: il film, per dire, può anche non avermi preso) delle sue varie parti.
Poco sopra ho precisato una convinzione che avevo in passato - 'credevo di non avere gli strumenti' - e che ho dovuto rivedere. Non perché non creda che i mezzi si guadagnino, o che il gusto si affini, ma perché sospetto che il pubblico, quindi me compreso, riceva a livello sensoriale, di percezione, molte più informazioni di quanto sia cosciente, e di quanto riesca ad esprimere. E questo a prescindere dalla 'preparazione' con cui affronta una visione. E se proprio una sfida vogliamo trovare per i cinefili più intransigenti - non perché sia dovuta, eh, ma perché per come parlano, per come si pongono, sembra che siano i pochi ad essere illuminati, e a voler illuminare gli altri, su che cosa sia il vero cinema - credo debba andare in questa direzione. Ovvero 'guidare' il presunto pubblico 'medio' a divenirne cosciente di quelle informazioni, ad esprimerle; che molto spesso ciò che hanno 'sentito' del film, magari anche senza capirlo razionalmente del tutto, è proprio quello che l'autore ha voluto trasmettere loro. Senza dover per forza cercare una morale: che approcciarsi così ai film, con 'Sì vabbè ma il messaggio morale qual è?', è più o meno come vedere una ragazza con poco seno e dire: 'Sì vabbè ma quella lì non ha seno: non è una donna'. Ci si perde tantissimo altro.
Ed ovviamente fare tutto ciò senza quell'atteggiamento didascalico, mai privo di sarcastico moralismo, di chi considera i meno addentrati nel cinema una massa di filistei da deridere e snobbare.
Nei vostri commenti al vetriolo sui vari blog o su Youtube, potreste provare scrivere come se aveste davanti vostro padre o il vostro migliore amico: persone che mai, credo, vorreste offendere (a volte, mortificare) per un presunto deficit culturale. Perché il foglio bianco, o in questo caso lo schermo di un pc, può dare l'impressione di non parlare a nessuno, di non 'ferire' nessuno.
Quello che ho notato in decine di discorsi sui film più disparati è che se la visione di un'opera un po' più ostica la poni - a chi, per i motivi più diversi, non l'ha apprezzata o crede di non poterlo fare - sul piano di ciò che si perderebbe (ma senza fare ricattatorio, eh) in termini di emozioni e di sensazioni, a volte di 'esperienze' visive, spesso può risultare più accattivante. Di certo più accattivante che se non spacciata incontrovertibilmente, e quindi ideologicamente, per visione di qualità, visione 'giusta'.
Non credo, in sintesi, che il pubblico vada più scandalizzato; andrebbe, tutt'al più, educato. Con rispetto e propensione alla condivisione.
Sul fingere di aver visto tutto, faccio mea culpa: l'ho fatto anch'io. Non con i film, ma con la musica, ma il principio è lo stesso. Parlavo con una ragazza conosciuta da poco, lei mi stava dicendo i suoi gusti musicali ed io annuivo ad ogni canzone nominata: non fingevo sui vari gruppi, quelli li avevo sentiti davvero e ne conoscevo il genere d'appartenenza, ma sulle singole canzoni sì, bluffavo. E ad un certo punto lei mi disse una cosa che mi fece sentire, all'istante, un perfetto imbecille: "Oh ma con te non c'è gusto: conosci tutto!". Capii che mentre lei si stava aprendo (che parlare di musica questo è: dare accesso al tuo mondo. Che se una ti nomina, che so, 'Like a rolling stone' o 'Mad world', tu sai che potrebbe essere un tipo di anima meravigliosamente sghemba. Magari ti sbagli, ma insomma potrebbe esserlo per davvero), io stavo giocando a Sapientino. E mi ripromisi di non farlo mai più. Anche perché un po' di tempo dopo un altro ragazzo, con lui parlavamo di cinema, mi disse una frase del tipo: "...in quel film, non so se l'hai visto, perché è un classico però magari non ti è capitato di vederlo, 'Apocalypse now'...". Ecco, in questa frase, soprattutto nel tono usato e nell'atteggiamento - in quel 'magari non ti è capitato di vederlo' detto così candidamente - ci ritrovai un rispetto per l'altro disarmante, educativo ed accogliente. Al punto da farmi ammettere, serenamente, che "No, non l'ho ancora visto".
Vorrei comportarmi così, mi dissi; vorrei avere quella stessa capacità di mettere a proprio agio chi mi sta di fronte. E' un'operazione culturale anche questa. Singola e misconosciuta, d'accordo, ma sempre operazione è. Come lo è stata, a riguardo, un onesto articolo comparso su questo blog un po' di tempo fa, " Sono una pippa, ovvero il NON HO VISTO show". Ammettere le proprie lacune cinematografiche, nel proprio blog di cinema, senza che nessuno te l'abbia richiesto, così per pura onestà intellettuale verso i tuoi lettori, beh è una prova, credo definitiva, di affidabilità.
E poi andiamo: se anche De Niro - uno che quando vedi recitare può capitarti di pensare: ok, questo qui minimo si è studiato tutta la cinematografia mondiale prima di arrivare a quella naturalezza attoriale - dice che vorrebbe avere più tempo per vedere tutti i film in circolazione, allora non c'è proprio speranza: non si può aver visto tutto.
Concludo con due parole sul doppiaggio. In un blog, tra i commenti ad una recensione, era partita la solita solfa per cui il doppiaggio non è mai all'altezza dell'interpretazione originale; ne ho chiesto il perché, e questa è stata la ragionevole risposta: "Perché ultimamente denoto parecchio lassismo, sia nell'adattamento che nel doppiaggio. Forse solo i film Disney si mantengono ancora altissimi nella qualità, com'è sempre stato. [...] Anche io non posso prescindere da un paio di doppiaggi, come quello di Arancia Meccanica, Shining, Alice nel paese delle meraviglie, i Simpson o altri che hanno accompagnato la mia infanzia e adolescenza, quando esistevano solo la TV e le videocassette. Poi, avendo fatto lingue sia al liceo che all'università ho cominciato a preferire il film in lingua originale per parecchi motivi: l'esercizio, il fascino naturale che esercitano su di me le lingue straniere, la consapevolezza che alcune sfumature non potranno mai essere rese in un altro idioma, la censura culturale (non è che voglia per forza sentire dei bestemmioni come Jesus f**ing Christ resi in italiano in un film di Tarantino ma è che è interessante vedere come da noi il "figa" è sdoganato e ci fa orrore la bestemmia mentre "cunt" in America e Inghilterra è l'epiteto più volgare che possa essere usato mentre Cristo viene tranquillamente preso ad insulti...), l'effettiva mancanza di rispetto degli adattatori soprattutto per quel che riguarda le serie (ricordo ancora lo scempio di Buffy...) o i film "di cassetta", il disagio nel non cogliere determinati accenti o l'impossibilità di vedere l'interpretazione "originale" dell'attore in quanto il doppiatore, di fatto, re-interpreta il personaggio....Poi, ovviamente, va da persona a persona".
Una risposta garbata, referenziale e culturalmente ineccepibile (è vero che è impossibile rendere, nel passaggio da una lingua, cioè da una cultura, all'altra, tutte le sfumature). Il fatto è che, in generale, sono un po' scettico su questo discorso del doppiaggio: nel senso, mi sembra eccessiva la demonizzazione che se ne fa in certi ambienti cinefili. Anche perché, per esprimere pareri sensati, bisognerebbe essere in grado di apprezzare tutte le sfaccettature delle lingue straniere. Ed io dubito che tutti gli esperti che vanno sostenendo la causa della lingua originale, abbiano la cognizione della blogger di prima. Non lo so, magari mi sbaglio, ma a volte questo sbolognare il doppiaggio a priori mi sembra parecchio snob.
Anche perché si vanno ad offendere prove - penso a Massimo Rossi in "Mi chiamo Sam", o Roberto Stocchi in "Una notte da leoni", o ancora Stefano Benassi in "Bastardi senza gloria"; o, infine, ad uno a caso tra i doppiatori principali de "La 25° ora" (Christian Iansante...come lui nessuno mai) - che non possono non essere considerate importanti. Reinterpretazioni, siamo d'accordo, ma reinterpretazioni importanti.
Naturalmente - e qui chiudo davvero - con questo pezzo non ho voluto, di contro, difendere a priori tutti quelli che uno sforzo intellettuale minimo, per apprezzare certi film, neanche ci provano a farlo. Come si sono posti in occasione della vittoria dell'Oscar de "La grande bellezza", quando sembrava esser diventato obbligatorio esprimere un parere sul film (anche quando non se ne aveva uno), meriterebbe un'analisi a parte. Ma non mi sembra che offenderli e scornarcisi manco fossero esponenti d'una tifoseria avversaria, sia la soluzione.
Quella costruttiva, almeno.


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